Tu lo sai che un fiore può fiorire dal sale.
«Signori e
Signore, la Vincitrice dei Cinquantaquattresimi Hunger
Games!».
L’Hovercraft
volò sopra di lei, alzando in aria la sabbia in un unico turbinio, non molto
lontano il corpo del ragazzo del 4 – quello che lei aveva martoriato – giaceva inerme, senza le dovute attenzioni che si
danno al cadavere di un ragazzo.
Ma non le
importava, la testa si muoveva assieme al polverone e le palpebre si
chiudevano, pesanti, mentre la bile le risalì lungo la gola, costringendola a
pregare di non essersi vomitata addosso. Si sentì cadere in avanti, ma non
toccò mai la superficie ruvida di quella terra arida, il freddo del metallo le
sfiorò le braccia graffiate e le gambe livide e un dolce tepore la cullò fino
al suo risveglio.
«Lloira» la voce di Woof le
giungeva ovattata alle orecchie, «lo so che sei sveglia!» disse – ma la sua
voce era gentile.
Aprì la bocca
per parlare ma qualcosa alla guancia le diede fastidio, ci mise qualche secondo
per capire che era un cerotto – ah, sì,
il tridente del pescatore. Si ricordava perfettamente del dolore lancinante
quando il suo avversario aveva cercato di colpirla alla testa, tagliandole la
gota. Mugolò per rispondere al suo mentore, cercò di piegare le gambe e se le
ritrovò leggere e lisce al contatto con il lenzuolo bianco.
Allora aveva
vinto davvero.
«Dei dottori
verranno a controllare la tua guancia e
le altre ferite, ma tra qualche ora dovresti essere libera» informò, quasi con
cautela. Conosceva abbastanza Lloira da testimoniare
il suo carattere poco simpatico e facilmente irascibile. Inoltre – questo la
ragazza non lo sapeva – le avevano somministrato qualcosa per “tenerla a bada”, dicevano, «quello che ha fatto al
tributo del quattro, nessuno se lo aspettava da lei, dovevamo sedarla per
precauzione».
Un altro mugolio
di assenso fece alzare Woof, abbandonandola in
stanza. Le immagini dell’Arena colpita dalla siccità erano ancora stampate
nella sua testa – cercò di cacciarle via con il pensiero, ma alla sabbia si
sostituirono le proprie mani che tenevano il tridente dell’altro, e lui era per
terra spaventato quanto lei. Ricordò
di aver chiuso gli occhi, di aver urlato e colpito più volte il corpo del
ragazzo, forse aveva anche continuato a farlo a pezzi dopo il cannone. Era impazzita.
Strinse le
palpebre, rifiutandosi di aprirle – aprirle per cosa? Per scoprire che al
proprio risveglio si è sempre dentro lo stesso incubo – che non è finito, ma
solo andato avanti?
Si morse le
labbra leggermente umide, e si lasciò scappare un grido che riecheggiò al suo
interno, facendo vibrare il cuore di dolore. Poi qualcosa scivolò dentro il suo
sangue e Lloira ricadde in un sonno che non aveva
programmato.
Il Distretto 8
non era mai sembrato più cupo: le fabbriche di mattoni rossi gettavano fumo
nero, i camion andavano e venivano e sui loro fianchi era stampato il simbolo
di Panem. Da un magazzino degli uomini si erano
caricati sulle spalle rotoli di tessuto grezzo – in lontananza, alla scuola, i
bambini uscivano dopo le lezioni e i genitori, o i fratelli più grandi li
aspettavano in quel prato incolto, di un verde smorto.
Troppe persone
in quelle vie, troppa fame nelle case – troppo fumo nel cielo.
Verso la
periferia, fabbriche e negozi lasciavano il posto ai cambi di bachi da seta o
per i fiori con il quale si ricavava qualche colorante – per quel che ne
sapeva, le piantagioni di fiori erano di un certo tizio che aveva fatto
parecchi soldi, tanto da mandare la propria figlia a Capitol
City a fare moda, ora era una stilista per gli Hunger
Games, o qualcosa del genere. Come salvare la pelle alla propria bambina, eh?
Non poteva
giudicarlo: la disperazione era nel viso di quelle persone, dei ragazzi – e lei
era uno di questi, ma ora invece di
sedici anni ne sentiva centosedici e il dolore che portava sulle spalle non
pensava di poterlo provare in una vita.
Il furgone dei
Pacificatori la lasciarono all’incrocio tra una via principale e un’altra
perpendicolare ad essa, file di case costeggiavano la strada e l’ultima a
destra era la sua: avrebbe raccolto le sue cose e chiesto a suo padre di venire
ad abitare con lei al Villaggio dei
Vincitori.
Con sorpresa, si
accorse di poter camminare ancora con le proprie gambe, certo che sì – si disse – ho
camminato con scarpe assurde, a piedi nudi sulla pietra e pure sui cadaveri.
Chissà se suo
padre aveva guardato tutti gli Hunger Games, se aveva visto come lei era sopravvissuta solo con
uno zaino e un misero coltello, come aveva soffocato uno dei concorrenti con della
stoffa. Chiuse la mano a pugno e bussò sul legno liscio e luminoso, le vennero
ad aprire poco dopo.
Il padre la
abbracciò calorosamente, poggiandole una mano sulla schiena e invitandola ad
entrare – la sua cortesia la fece sorridere. In sala, sul divano rosso, davanti
alla stufa, una donna dai capelli biondi raccolti in uno chignon le dava le
spalle, come incurante della sua presenza.
«Comunque» scandì ad alta voce Lloira, mettendosi le mani sui fianchi fasciati da una
comoda camicia, trovata nei cassetti a sua disposizione a Capitol
City, «sono tornata, mamma». La
cadenza sarcastica che mise nell’ultima parola fece irrigidire la signora che,
lentamente, si alzò e raggiunse la Vincitrice: il collo dritto e lo sguardo
fiero, come se volesse mostrarsi più grande di quello che era veramente – tra
le mani stringeva un tovagliolo su cui stava ricamando le lettere “Lla”.
«Bentornata»
minimizzò la matrigna, guardandola negli occhi scuri – ancora più testardi,
dopo gli Hunger Games.
Lloira sorrise,
accennando ad una risata, «tanto ora ho una casa mia, e con te non ci sto più»,
quando si girò si accorse che il padre se n’era andato – e da un po’, sembrava.
Per questo nessuno ci ha fermato – potrei
strapparle i capelli, potrei farlo davvero.
L’idea le
sembrava allettante, ma qualcosa catturò nuovamente la sua attenzione, un
ricordo debole, che la sua mente stava cercando di cancellare: «non ce la farà mai, caro, forse se fosse
nata uomo… grande e forte».
Il fuoco le
bruciò nelle vene, e abbassando gli occhi incontrò le tre lettere sul
fazzoletto.
«Raccolgo le mie
cose e me ne vado» disse, facendo poi una pausa per temporeggiare, «non voglio
il tuo stupido fazzoletto, comunque, brucialo
e magari vedi di caderci dentro anche tu, nel camino». Quell’impertinenza sembrò
irritare la matrigna, ma Lloira non si fermò, «e
comunque spiegalo tu a mio padre che vado a cambiare il mio nome in Lloyd, dato
che mi vuoi maschio, sarò maschio».
Sorrise felina e
fece dietrofront, salendo poi le scale per dirigersi in camera propria. Il
fuoco scoppiettò e il fazzoletto finì, come aveva previsto Lloyd, dentro al camino.
Ma non la sua
matrigna, quella era ancora viva e vegeta.
NOTE D’AUTRICE ◊ «viviamo e respiriamo parole»
Come promesso – davvero? – ecco la one-shot su Lloyd, Mentore di Lyosha
Isaccs, vincitore dei 72esimi Hunger
Games.
Questa OS è amorevolmente dedicata
alle papere de Il
Forno ergo un gruppo di lettrici/scrittrici sulle fan fiction di
codesto fandom e, insomma, se vi va fateci un salto ♥
In realtà, non so se questa shot è comprensibile non conoscendo niente di Lloyd, in tal
caso mi scuso immensamente ma non sapevo come fare altrimenti, inoltre ammetto
di non essermi impegnata in modo serio e costante per questa fanfic – chiedo perdono.
Insomma, this
is all. Sul fazzoletto c’è scritto “Lla” perché la matrigna è talmente balorda da aver
sbagliato il nome della figliastra, ma non importa. In questa fan fiction,
inoltre, c’è una mia personalissima impressione sul Distretto 8 (ahw ♥) e spero che non cozzi con nessuna delle vostre
– ma in caso contrario non saprei che farci, eh.
Ebbene, questo è davvero tutto.
Spero che alle mie papere piaccia lo scritto è che amino Lloyd come me :3
radioactive,