Sette notti, tutto incluso di endif (/viewuser.php?uid=68268)
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3
«Puoi iniziare con quelle
lampade da tavolo. Devono essere spolverate».
Carla
lanciò uno sguardo sgomento alla direzione che
Giambattista le aveva indicato non appena aveva messo piede nello
squallido negozietto di antiquariato. Poiché quelle erano le
prime parole che le rivolgeva senza alcun riguardo alla cortesia di un
saluto convenzionale, la ragazza realizzò che quaranta gradi
all’ombra non erano nulla se paragonati a quanto
l’avrebbe fatta sudare quel tipo per decidersi a darle il
quadro di suo nonno.
S’era
pure fatta bella. Con un vestitino di lino senza
maniche e i capelli acconciati in modo vaporoso ma naturale sotto un
cappellino bianco con un nastrino di raso rosso. E aveva portato un
sacchetto di dolci alle mandorle e un bricco di caffè
preparato dalla proprietaria linguacciuta del B&B
perché se un uomo le diceva che poteva fare di meglio, a lei
non restava che raccogliere la sfida e fargli rimangiare ogni parola.
Depose dolci e
bevanda su uno dei tavolini vicino
all’ingresso con molta meno grazia di quanto si era
ripromessa, tolse il cappellino con un gesto brusco impigliandosi una
ciocca, naturale e vaporosa, nella paglia e ingoiò buona
parte dei commenti al vetriolo che sentiva salire alle labbra,
intendendo risparmiarli per un secondo momento. Preferibilmente dopo
aver raggiunto il suo obiettivo.
«Sicuro
che devono essere spolverate?». Carla si
rigirò tra le dita un orrendo puttino che al posto della
testa aveva una lampadina e cercò di reprimere una smorfia
di disgusto. «Queste non se le prende nessuno. Nemmeno se sei
tu a pagare loro».
Lanciò
uno sguardo fugace a Giambattista intimandosi di
essere più cordiale e meno pungente, ma quello entrava ed
usciva da una porticina, evidentemente un retrobottega, senza prestarle
in apparenza la minima attenzione. Carla soppesò la macabra
lampada da tavolo nella mano e, valutando la distanza, gli ostacoli, la
luce, il vento e la pendenza nel negozio, ritenne di poter centrare la
testa del proprietario senza sforzo.
Giambattista
rispuntò dal retro reggendo due colonnine di
legno intarsiate che la ragazza non trovò eccessivamente
sgradevoli come gran parte di ciò che era presente in quella
bottega, ma incastrati sotto a un braccio l’uomo portava
anche i due piccoli ripiani superiori: come gran parte di
ciò che era presente in quella bottega, anche le colonnine
andavano riparate.
Tutto, in quel
negozio, attendeva di essere riparato.
Pensò
di scagliare il puttino alla cieca: in un colpo solo
poteva risparmiare a Giambattista almeno sette, otto ore di lavoro e,
invece di terminarlo,
ne avrebbe conquistato la riconoscenza. E il quadro di suo nonno.
Ma poi le
arrivò addosso un fagotto polveroso e pungente di
abiti come se fosse un proiettile. Solo grazie ai suoi poderosi
riflessi, la ragazza evitò una caduta accidentale della
preziosa lampada da tavolo e nel contempo riuscì a non
mancare il lancio.
«Mettili,
se vuoi che il tuo vestito resti bianco e
grazioso».
Mai, nemmeno in un
milione di anni lei avrebbe indossato gli indumenti
di un ricattatore, sfruttatore, approfittatore che fingeva di avere a
cuore il suo abitino da trecento euro.
«Non
credo che mi servir-»
Qualcos’altro
le colpì il braccio.
«Con
questo puoi coprire i capelli. Gente di
città…».
E scomparve nel
retrobottega, scuotendo il capo.
*****
«Posso
sapere cosa stai guardando?». Carla
sbirciò tra le dita della mano destra e scorse Giambattista,
un gomito appoggiato sul ginocchio a reggersi il mento, il martello
penzoloni nell’altra mano, che la fissava, proteso verso di
lei.
«E’
da un’ora che fai quella cosa con le
dita», smozzicò quello, due chiodi che si
reggevano in bilico da un angolo della bocca.
«Quale
cosa?»
«Quella.
Ti strofini gli occhi. In continuazione».
L’uomo si tirò indietro, prese un chiodo dalle
labbra, lo posizionò e diede un paio di martellate allo
sportello del comò che stava riparando. «Hai i
canaletti otturati? Una volta avevo un cane che lacrimava sempre. Aveva
i canaletti otturati». E giù con l’altro
chiodo.
Carla lo
fulminò con un’occhiata sprezzante,
gentilmente offerta dai suoi “canaletti” pervi.
«I miei dotti lacrimali funzionano benissimo, nonostante non
li eserciti da quando avevo sette anni circa. E’ la
polvere», chiarì. «Mi fa starnutire e mi
strofino la base del naso, vicino agli occhi, per evitarlo».
Giambattista
annuì senza guardarla. «Anche il mio
cane. Si strofinava il naso con la zampa quando gli prudeva».
La ragazza chiuse
gli occhi e cercò le ultime briciole di
pazienza dentro di sé. «Forse era
allergico», replicò sarcastica.
«Avverto
nelle tue parole una leggera riprovazione. Non ti
sarai offesa?», domandò l’uomo.
«Guarda che è stato un buon cane. Gli volevo
bene».
«Offesa?
Fammi pensare …», Carla si mise
un dito al centro del labbro inferiore e volse lo sguardo verso
l’alto. «Hai cercato di vendermi qualunque cosa
presente in questo negozio su cui, sciaguratamente, è caduto
il mio sguardo provando a truffarmi sul prezzo il cento per cento delle
volte. Eccetto che per il quadro di mio nonno. Quello non vuoi
venderlo. No, perché i soldi io voglio darteli ma per quello tu non
intendi prenderli. Dici che posso fare di meglio e allora torno qui,
con tutta l’umiltà e la buona volontà
che possiedo, ma tu hai una visione mistica e decidi che sono perfetta
per spolverare, rassettare, lucidare le tue cianfrusaglie mentre tu dai
qualche colpo di martello qui e lì, in una versione tutta
personale del lavoro di restauro, ma universalmente riconosciuta di
sessismo».
La ragazza si
alzò dallo sgabello scuotendo polvere e
sporcizia dalla parte anteriore del suo vestito – vestito che
si era categoricamente rifiutata di sostituire a beneficio degli abiti
che Giambattista le aveva offerto – e si strappò
dalla testa il foulard che aveva accettato, invece, per proteggere i
capelli. Sentiva un calore montarle al cervello ma s’impose
di mantenere una parvenza di controllo, sebbene fosse consapevole che
ormai era giunta al limite della pazienza.
«E
adesso mi paragoni al tuo cane. Che sarà stato
pure più fedele di Lassie, ma resta pur sempre un animale,
che ha fatto la pipì sui tronchi degli alberi e sulle ruote
delle auto. Ma no. Perché mai dovrei sentirmi
offesa?».
Ribolliva di
rabbia.
Non avrebbe saputo
spiegarlo diversamente, ma dopo ore impegnate in
lavori manuali si sentiva il corpo indolenzito, le spalle contratte, le
dita intorpidite e il naso continuava a pruderle incessantemente per
tutta la polvere che dagli strofinacci le si era riversata addosso. Era
stanca, affamata e non aveva più la forza di tergiversare,
né di tenere a freno le sue emozioni.
Giambattista, che
per tutto il tempo non aveva smesso di martellare,
diede un ultimo colpo solenne all’anta del comò,
si raddrizzò, depose l’attrezzo sul ripiano
superiore del mobile e tirò fuori la pezzuola lercia dalla
tasca per strofinarsi con calma le mani.
«Ti sei
offesa», constatò con irritante
placidità.
«Okay,
ora ne ho davvero abbastanza». Carla
avanzò con passo battagliero e si fermò ad un
passo da lui. «Ho fatto tutto quello che volevi. Ho riso
delle tue battute stupide, sono stata gentile e carina con te. Ora,
perché non mi dici se hai intenzione di darmi il mio quadro
e la facciamo finita?».
«Dalle
mie parti, nessuno ti definirebbe gentile. Carina
sì. Ma gentile …». Giambattista scosse
appena il capo in segno di riprovazione e Carla batté il
piede a terra per la stizza.
«Dimmi, pessima
Carla, cosa sta facendo la tua amica in questo
momento?», incalzò l’uomo.
La ragazza
aggrottò la fronte per la sorpresa. Che
c’entrava Francesca in tutto questo?
Fece spallucce.
«Credo… mi pare che sia tornata
alla Torre. Ha detto che stanno allestendo una mostra e che il custode
l’avrebbe fatta entrare in via eccezionale… non lo
so! Ma che t’importa?», spalancò le
braccia per lo sconforto. Dove voleva andare a parare con quelle
domande?
«Bene.
Allora, dimmi», ammiccò lui e le
si accostò un po’. «Cosa sei disposta a
fare per avere quel quadro?».
Carla fece un
passo indietro e raddrizzò la schiena. Quello di sicuro
non era disposta a farlo.
«Se
credi che sia quel tipo di persona, di donna»,
riprese fiato. «Oh, ma certo! Tu sei convinto che io
sia pronta a fare quello che pensi facciano le donne per ottenere
qualcosa. Tipico di voi uomini!». S’interruppe
perché la veemenza dell’indignazione che aveva
preso il posto della rabbia la soffocava.
«Hai
finito?», le domandò quello, senza
scomporsi e Carla si chiese come potesse restarsene così
calmo dopo una proposta tanto sfacciata. Strinse le labbra tra loro
indispettita e dopo qualche attimo di silenzio da parte di entrambi si
voltò, pronta ad andarsene via.
«Quando
sei diventata così diffidente nei
confronti del prossimo, Carla? E’ stato tuo padre a
deluderti?».
La voce di
Giambattista bloccò i suoi movimenti. Poteva
essersi lasciata sfuggire qualche commento personale durante il tempo
trascorso insieme, ma questo non autorizzava le sue illazioni.
«Come ti
permetti … tu non mi conosci»,
sibilò risentita, girandosi a guardarlo.
«Lo
credi davvero? Sei una donna giovane, bella ma avvizzita
nell’animo. E hai sofferto talmente tanto in vita tua che non
permetti più a nessuno di raggiungerti. Sei avvelenata dal
rancore e lo usi per schermarti dal resto del mondo. Non ho bisogno di
conoscerti quando mi basta riconoscerti».
Giambattista le
era così vicino che Carla dovette inclinare
il capo indietro per sostenerne lo sguardo. «Hai bisogno di
allontanare la rabbia da te. E’ importante,
credimi».
La ragazza
continuò a fissarlo, in silenzio.
«Perdonati,
Carla. Lui l’ha fatto».
Il respiro le si
bloccò in gola. Non poteva… non
era possibile che lui sapesse…
Si
voltò e fuggì via dalla quella bottega e da
quel paesino del Cilento.
*****
«Fate
largo alla balena spiaggiata! Oh, tesoro! Sono
arrivata!».
Francesca
entrò in casa di Carla assicurandosi che tutto il
vicinato sapesse che lo stava facendo. Erano degli impiccioni. Ogni
volta che camminava sul pianerottolo li poteva quasi sentire respirare
dietro le porte, a studiare il nuovo arrivato dallo spioncino e a
domandarsi cosa ci fosse tra quelle due donne che stavano sempre
insieme. Specie ora che una delle due camminava fieramente con un bel
pancino gravido di sei mesi.
Che pensassero
pure che erano lesbiche e che avessero realizzato
l’inseminazione artificiale. D’altro canto, lei non
riteneva differente da questo il modo in cui era rimasta incinta sei
mesi prima, poco prima che il suo ex fosse beccato a bazzicare le
prostitute e fermato dalla polizia. L’aveva fatto uscire
grazie alla sua amicizia con il Questore, ma non aveva voluto
più vederlo. E da allora non l’aveva
più sentito.
«La
smetti di urlare come una pazza? Che poi esageri sempre:
sei un’acciuga, altro che balena. In tutto avrai messo su tre
chili».
«Cinque!
Ti rendi conto? Arriverò a fine
gravidanza che avrò perso il conto».
Carla le prese il
soprabito e le sorrise comprensiva.
«Andremo a fare jogging insieme, non temere. La strega la
portiamo con quei passeggini ergonomici… ne ho visto uno
delizioso su un catalogo on-line…»
Francesca
ricambiò il sorriso. Carla era stata stupenda con
lei. Le aveva rivelato della gravidanza solo dopo il viaggio che
avevano fatto insieme, quattro mesi prima quell’estate nel
Cilento. Lei aveva bisogno di riflettere sul futuro suo e di quella
creatura e quel viaggio era stato rivelatore: non avrebbe mai smesso di
ringraziare Carla per averla portata lì, ad Acciaroli, dove
Francesca aveva capito davvero quale fosse la scelta giusta da compiere.
E la sua amica si
era dichiarata entusiasta e disponibile ad aiutarla
quando le aveva confidato che quel bambino voleva tenerlo.
L’aveva abbracciata e le aveva detto che le cose succedono
sempre per una ragione.
«Sei
incredibile», mormorò Francesca,
ferma sulla soglia del salotto. «Come fai a creare un
ambiente così caldo, confortevole,
così… natalizio, senza nemmeno un
camino?». Osservò l’albero che toccava
quasi il soffitto, le luci dorate e blu che si accendevano e spegnevano
lentamente, le palline decorate in tessuti preziosi che pendevano dal
soffitto, le finestre bordate di finta neve, il tappeto rosso ed oro
che dominava il pavimento e pensò che sua figlia sarebbe
stata una bambina fortunata ad avere una zia come Carla.
«Faccio
l’arredatrice, che cavolo! Saprò
decorare un ambiente in occasione del Natale».
Mentre Francesca
si accomodava sul divano e cercava di non farsi
allettare dai profumini provenienti dalla cucina, Carla
tornò con piatto di stuzzichini che poggiò sul
tavolino dinnanzi a lei. Le strizzò l’occhio.
«Jogging. Stai tranquilla».
Prese un salatino
e lo portò alle labbra, beandosi
dell’atmosfera confortevole da cui era più che
bendisposta a farsi avvolgere. «Mmm, sono i quadri di tuo
nonno quelli?», domandò prima di mordersi la
lingua. Parlare del nonno non era un argomento indolore per
Carla, anche se di recente sembrava più incline a farlo.
Dopotutto lei sapeva che l’amica non si era mai perdonata di
non esserci stata quando suo nonno era morto, solo in un ospizio. E
benché Francesca avesse rimarcato come quella struttura
fosse la più adatta alle esigenze dell’anziano,
malato di Alzheimer da anni, Carla non si era mai convinta del tutto.
L’amica
annuì, lanciando uno sguardo alle pareti
su cui aveva esposto alcuni dei lavori di suo nonno.
«Sì. Ho pensato che il loro posto è
questo, dove possono vederli tutti».
Francesca
approvò studiando l’espressione
dell’amica: sembrava serena.
«Mi
dispiace per quel dipinto, quello di Acciaroli. Sei
davvero sicura che fosse di tuo nonno?», domandò.
L’amica
fece spallucce. «La firma era illeggibile,
ma ne sono quasi certa. Non importa, comunque. Costava davvero
troppo».
«Allora.
Vuoi dirmi qual è il menu della
se-»
Il ronzio del
citofono nell’ingresso interruppe la sua
domanda e lei e Carla si scambiarono uno sguardo interrogativo.
«Hai
invitato qualcun altro?», domandò.
«La sera
di Natale? Nessuno merita questo onore. Dammi un
momento», rispose Carla e si allontanò dalla
stanza.
Quando
udì il rumore della porta d’ingresso,
Francesca lanciò uno sguardo alle scarpe di cui si era
disfatta quasi immediatamente pensando – ma solo per qualche
breve istante - che poteva essere più corretto se le avesse
infilate di nuovo, specie in previsione del nuovo, inatteso ospite.
Ma quando Carla
tornò era sola e reggeva un grosso pacco
ricoperto con carta per imballaggio e fissato con uno spago.
«Caspita.
Un regalo». Si alzò dal
divano, sollevata di non essere stata costretta a recitare la parte
dell’avvocato di successo su dodici centimetri di stiletto e
si avvicinò all’amica. «Chi te lo
manda?».
Carla osservava il
pacco con la fronte aggrottata. «Non
c’è nessun biglietto», e quindi lo
scartò velocemente.
Era un quadro,
simile in modo impressionante a quelli che ornavano le
pareti della stanza in cui si trovavano e, incastrato in un angolo
della cornice, c’era un biglietto, la carta ingiallita dal
tempo.
«E’
quello? Il dipinto che volevi
acquistare?», domandò alla sua amica, ma quella
era intenta a leggere il messaggio, dopo aver staccato il cartoncino
dal bordo del quadro. Lo lesse due volte, prima di voltarlo per vedere
se ci fosse scritto altro sul retro e solo allora Francesca
notò che non si trattava di un bigliettino di auguri
tradizionali, ma di una foto, in bianco e nero, lisa ai bordi.
«Non
è possibile…»,
mormorò Carla.
«Cosa?
Ti hanno mandato il quadro di tuo nonno,
giusto?», sollecitò l’amica e visto che
non le rispondeva le tolse di mano la foto e lesse il messaggio, senza
troppi convenevoli.
Sapevo che qualcuno
sarebbe arrivato.
Niente accade per caso,
pessima Carla.
Buon Natale
G.
Francesca
voltò la foto per vedere chi ritraesse.
C’era un gruppo di uomini e donne in posa, ma con abiti
dismessi, segno che l’istantanea era stata scattata rubando
un momento alla quotidianità. Davanti a loro uno stuolo di
bambini, con i visi e le mani tutti sporchi di polvere e fuliggine.
Dietro di loro, Francesca riconobbe la Torre Normanna di Acciaroli.
«Ehi, ma
questo non è tuo nonno?»,
domandò strizzando gli occhi per sovrapporre
l’immagine del giovane che aveva tra le mani e quella
dell’uomo che rammentava di aver visto in molte foto presenti
per casa.
Carla
annuì col capo, tenendosi la mano alla base della gola.
Francesca
osservò la foto per qualche altro istante e poi
spalancò gli occhi e la bocca per la sorpresa.
«Tuo nonno era tra le persone che avevano salvato tutti quei
fuggiaschi, nascondendoli nei cunicoli sotto la Torre durante la
guerra! Perché non me l’hai mai detto?».
La ragazza scosse
il capo e deglutì, ma non si
unì alla meraviglia dell’amica che continuava a
studiare la fotografia, i volti di quelle persone, di quei bambini, per
lo più ebrei.
«Caspita.
Tuo nonno era un eroe. Me le ricordo alcune di
queste persone. Il custode della Torre mi ha mostrato la stanza che
hanno dedicato loro per quella mostra di cui ti ho parlato. Vedi
questa?», con un dito indicò una donna
dall’aria dolce e remissiva. «Due nazisti bussarono
alla sua porta e lei li uccise a sangue freddo per proteggere cinque di
questi bambini che nascondeva in cantina. E questo qui?».
Avvicinò la foto all’amica per facilitarle la
visuale, ma quella si ostinava a guardare da un altro lato.
«Questo con quegli orrendi pantaloni e le braccia muscolose?
Che si strofina le mani con quello straccio? S’è
fatto torturare per giorni prima di essere giustiziato per non aver
voluto rivelare il nascondiglio dei fuggiaschi. Ha salvato centinaia di
persone, la maggior parte bambini.
Aveva un nome
assurdo… Gian-qualcosa…»
«Giambattista.
Il suo nome era Giambattista».
FINE
Salve a tutti.
Per
chi mi conosce già per aver infestato il fandom Twilight
per anni: il vostro masochismo non ha limiti se mi avete seguito anche
qui. Bentrovati.
Per
chi mi legge per la prima volta: non abbiate paura, questa è
solo una brevissima incursione nel sito, ma già fra qualche
minuto potrete dimenticare di avermi mai conosciuta. Grazie per la
fiducia accordatami leggendo fino alla fine.
Questa
minific è nata come una OS. Anzi, come una singola
scena che mi ha lacerato la mente diversi anni fa e che ho dovuto
accantonare per forza maggiore: una ragazza che scendeva sospettosa i
gradini di un sottoscala in quel posto meraviglioso che è
Acciaroli. Perché scriverla adesso? Perché, come
molti di voi già sanno, qualche mese fa mi sono assunta
l’impegno di revisionare la fan fiction “Una sera,
per caso …”, senza sapere che sulla mia strada
sarebbero comparse due editor terrificanti, e la revisione sarebbe
passata a riscrittura. Non fraintendetemi. Mi sto divertendo come una
pazza, ma il mio personale concetto di divertimento è,
forse, un po’ deviato: fare le due di notte per apportare
delle correzioni pur sapendo di dovermi svegliare alle sei di mattina
per andare a lavoro. E poi, il giorno dopo, ricorreggere ancora. E
magari ancora.
Ecco.
Io mi diverto quando mi demoliscono una scena o un intero
capitolo, perché questo significa che non ho dato ancora il
massimo e ci si aspetta che possa fare di più.
L’OS/minific
nasce dalla necessità di rilassarmi tra un colpo
d’accetta e una lavata di capo, un modo per riportare lo
stress a livelli accettabili, per scrivere senza pretese né
troppe seghe mentali. Per scrivere e basta.
Soprattutto,
è il mio modo di augurarvi Buon Natale,
perché amo il Natale e volevo che aveste qualcosa di mio da
scartare sotto l’albero: la speranza e la fiducia nella vita,
la capacità di riconoscere le occasioni e il coraggio di
saperle cogliere.
Ed
è il mio ringraziamento speciale per Francesca, a cui
l’intera storia è dedicata.
Vi
va di scartare un altro regalino? Per
chi non si fosse già fiondato, passate qui
perché Mirya è tornata su EFP con una nuova
storia!
Se
avete piacere a seguirmi e a
conoscere il destino della spremitura dei pochi neuroni ancora
all'attivo vi invito su Twitter,
Facebook
e sul mio blog.
Auguri! E.M.
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