Con le
unghie e con i denti
Titolo: Con le
unghie e con i denti
Note dell'autore: Questa storia è una spin off della mia
long fic Daimon. Temporalmente, si colloca in un punto imprecisato tra
il primo e il secondo anno a Hogwarts di Philippe. Può
essere letta anche da chi non conosce la storia... tutto quello che
c'è da sapere, è che sei anni dopo la morte dei
Potter, Remus si è preso carico di due piccoli mannari
francesi, ed è andato a vivere con un branco di licantropo.
Per coloro che seguono Daimon: l'aggiornamento arriverà
presto, non disperate.
Buona lettura
Il mio primo ricordo come lupo mannaro è svegliarmi nel mio
letto, fasciato da bende candide e ricoperto da lenzuola che mi
avvolgono come un sudario, mentre mia madre, seduta ai piedi del letto,
piange coprendosi il volto con le mani, e ha la schiena curva e sembra
piccola e minuta, e mio padre sta in piedi, davanti a lei, con la testa
girata di lato e le spalle scosse da singhiozzi silenziosi. La scena
è straziante e in qualche modo indecente, perché
mia madre è forte e coraggiosa e mio padre non piange mai, e
mi sembra di spiarli dal buco della serratura. Per un istante mi chiedo
se sono morto, perché non riesco a spiegarmi altrimenti
tanto dolore. E in seguito scopro che sì, sono morto.
Respiro, cammino, mangio, soffro, piango e ho paura, ma sono morto,
perché quello che ero, quello che credevo sarei diventato,
è morto, e sono morte le parole che usavo per descrivermi a
scuola quando gli insegnanti ci facevano presentare alla classe, sono
morte le speranze che i miei genitori nutrivano per me,
perché un padre vuole che il proprio figlio segua le sue
orme senza tuttavia ripeterne gli sbagli, e una madre allatta il suo
bambino al seno e giura a se stessa e all’universo intero che
suo figlio non sarà altro se non felice, e invece io sono
morto. Sono morto, perché una mattina mi sono alzato e
respiravo, camminavo, mangiavo, sorridevo, giocavo e ridevo e la
mattina dopo non ridevo più, soffrivo e piangevo e mi
sentivo più vivo che mai perché il sangue
bruciava in ogni mia vena, ma ero morto, dovevo essere morto,
perché altrimenti come può uno svegliarsi una
mattina ed essere un umano, un mago, e svegliarsi quella successiva e
scoprire di essere un licantropo, e che la propria vita è
finita?
I ricordi della mia infanzia sono chiari, eppure quando li richiamo
alla mente mi appaiono grigi e freddi e distanti ed estranei, almeno
fino al giorno in cui Albus Silente bussò alla nostra porta.
Da quel momento, i miei ricordi hanno i colori
dell’arcobaleno: rosso, come il dormitorio di Grifondoro,
caldo e disordinato e accogliente; arancio, come i capelli di Lily, che
prese posto vicino a me il primo giorno di scuola; gialli, come
divennero gialli i capelli di Dereck Malley la prima volta che feci uno
scherzo con James e Sirius; verde, come il parco di Hogwarts, teatro
dei miei ricordi più belli; celeste, come gli occhi di
James, limpidi e per nulla ingannevoli, oppure blu, come il fondo scuro
del Lago sulle rive del quale nacquero i Malandrini; viola, come la
veste indossata da Silente il giorno che bussò alla mia
porta e mi offrì un posto a Hogwarts e io seppi che no, non
ero morto.
I miei anni a Hogwarts sono avvolti da una bolla, sono come un sogno di
quelli che ti fanno alzare la mattina col cuore gonfio e una canzone in
testa, salvo poi scoprire che la realtà è ancora
lì, immutata e crudele e difficile e dolorosa come quando
sei andato a dormire, se non peggio. E per quanto tu possa
aggrappartici, ben presto di quel sogno non rimarrà che
l’eco di una felicità lontana ed effimera.
Eppure Hogwarts non era un sogno, era la mia vita, e sì, ci
sono state risate, scherzi, giornate spensierate in Sala Comune e
scorribande notturne, ma c’è stata anche la paura
di essere scoperto e abbandonato, il senso di colpa per non riuscire a
impormi quando pensavo che lo scherzo stesse diventando
pesante, e persino, per quanto sia difficile ammetterlo,
l’invidia. Invidia per James e Sirius, belli e
popolari e viziati e che non si sono mai svegliati una
mattina credendo di essere morti.
A Hogwarts ho imparato la differenza tra bene e male, tra luce e buio;
ho imparato il valore dell’amicizia e del coraggio e della
lealtà e a essere fiero di dichiararmi un grifondoro, e ho
imparato come funziona il mondo e a capire quando occorre lottare con
le unghie e con i denti - persino unghie e denti di mannaro - per
ciò in cui si crede, e quando invece bisogna cercare un
compromesso.
E adesso mi sembra di essere di nuovo quel bambino che si
sveglia nel suo letto e si chiede se è morto,
perché tutto quello che ho avuto il dono di conoscere e
amare è stato spazzato via in una notte, la notte di
Samhaine, notte di morte e di sconvolgimenti, e sei anni dopo, mentre
cercavo un po’ di colore sul fondo di un boccale,
è entrato lui, vestito non di viola ma di nero, e ho
scoperto che ho ancora tutto da imparare. Sono terrorizzato, confuso,
spaesato, disorientato, perché a Hogwarts mi hanno insegnato
molte cose, ma non ad allevare due cuccioli disorientati, spaventati e
confusi quanto me.
A Hogwarts ho imparato che ci sono il bene il male, grifondoro e
serpeverde, noi e loro.
E adesso non capisco… non capisco,
perché Philippe è riservato e indipendente e
silenzioso ed è finito a Serpeverde, e mi chiama Remus, e
ogni volta lo fa con tono dubbioso, come se si aspettasse di non udire
risposta, mentre Marc è vivace e non sta mai fermo e gioca
con gli altri bambini ed è una peste, e quando mi chiama
papà sento il cuore gonfio e una canzone in testa. Ma
è il viso di Philippe quello che si è illuminato
di gioia al sentir parlare di Hogwarts, come se per la prima volta dopo
quattro anni avesse scoperto che sì, era vivo, ed
è Philippe quello che viene in soggiorno quando sto alzato
fino a tardi perché non riesco a dormire e mi porta una
tazza fumante di cioccolata, per poi sedersi vicino a me e sorseggiare
la sua in silenzio; è Philippe che mi sta sempre vicino
quando ci raduniamo con gli altri in attesa della trasformazione,
condividendo il mio disagio. E Marc è dolce, ed è
ingenuo, e ha un cuore grande e gli occhi azzurri e limpidi come lo
erano quelli di James, però quando lo osservo dormire
raggomitolato sulla poltrona – perché è
testardo e ostinato e si rifiuta di andare a letto finché
non crolla addormentato in soggiorno o in cucina – non posso
fare a meno di sentire una morsa allo stomaco, la stessa che provo ogni
volta che vedo Lei
che lo prende in braccio e gli racconta le sue storie e gli sorride, un
sorriso dolce e fiero e possessivo che mi raggela nel profondo,
perché è il sorriso che le si è
stampato in faccia quando le ho parlato della prigionia dei bambini e
di ciò che quel verme ha fatto fare a Marc, così
piccolo e innocente.
E quando vedo quel sorriso, o il modo in cui Marc le scodinzola dietro
e la chiama mamma, con la fiducia e la dolcezza di un devoto che si
rivolga alla Dea Madre, o l’eccitazione del bambino via via
che la luna piena si avvicina, sento una morsa allo stomaco e il gelo
nel petto perché anche se sono un mago, e un adulto, e una
persona razionale e so che Lei
ha la bocca colma di sciocche superstizioni e Marc è solo un
bambino e non ricorda niente di quella maledetta, dannata notte, non
posso completamente scacciare dalla testa la paura che Marc, il vivace,
solare, dolce Marc, con gli occhi limpidi e cristallini come quelli di
James, sia davvero diverso da me e da Philippe. È una
verità che leggo nella sua espressione cupa e burrascosa
quando il fratello parte per Hogwarts, ed è una
verità che leggo nello sguardo pieno di ironica compassione
di Lei
quando le dico che anche Marc andrà a Hogwarts,
perché è un mago ed è suo diritto.
- Ti sbagli – mi dicono quei
tremendi, bellissimi occhi irrisori – lui non è
come te, non è come te. Lui ha nutrito la Bestia. -
|