Il bimbo allungò una manina
e le offrì una margherita. Lei fissò il fiore con stupore. Quindi domandò:
«Perché me la regali?»
«Perché Akira-kun si è
fatta male per colpa mia» rispose lui con aria afflitta, gli occhioni blu al
cerotto che l’amica aveva al ginocchio.
Akira sospirò. «Stupido»
sentenziò con tono solenne, incurante del fatto che le avessero insegnato a
portare rispetto al principe del suo regno. «Il mio compito è quello di
proteggerti, quindi non ha importanza se mi faccio male al posto tuo.»
«Ma Akira-kun è mia
amica!» protestò il bimbetto, scandalizzato.
Sebbene anche lei fosse
appena un soldo di cacio, Akira aggrottò le sottili sopracciglia scure con
severo rimprovero. «Questo non ha importanza» stabilì irritata. «E poi non
si regalano i fiori ai maschi.»
L’altro rimase
interdetto per alcuni istanti, fissandola con rispettoso timore. Infine,
quando si persuase di essere nel giusto, ribatté: «Ma Akira-kun è una
femminuccia.»
Piccata, la bambina
sbuffò ed alzò gli occhi al cielo con fare teatrale, muovendo le manine per
enfatizzare il proprio disappunto. «Ti ho già detto che…»
Il piccolo prevenne la
sua risposta con un sorriso. «Akira-kun è come la mamma e Onee-chan, lì
sotto» esclamò tutto felice nella propria innocenza. «Non ha il…»
«Zitto!» gli intimò
Akira, dotata di un minimo di pudore da che il papà le aveva detto che non
poteva più fare il bagno insieme all’amichetto. «Non si parla così ad una
femminuccia!»
Lui sorrise più di prima
e tornò ad offrirle la margherita. «Akira-kun non deve dire le bugie»
concluse, allora, soddisfatto.
La bimba chinò lo
sguardo, mortificata. Suo padre le aveva anche detto di parlare di se stessa
come di un maschio. Confusa per quell’incoerenza di fondo, tese la manina e
accettò il fiore, soffermandosi a scrutarne con attenzione il candore dei
petali. «Grazie» pigolò poi con un sorriso imbarazzato.
Riaprì gli occhi mentre la
leggera, piacevole brezza estiva gli accarezzava il viso. Steso sul tatami,
Takumi non si era avveduto di essere sprofondato nel sonno. Il tintinnio del
campanellino appeso alla tettoia, sull’uscio della portafinestra che
affacciava sul giardino, richiamò la sua attenzione. Scorse la figura di una
ragazza, intenta in qualcosa che il giovane non poteva vedere perché lei gli
dava le spalle. Si alzò quindi a sedere, lo sguardo ancora appannato dal
sonno, la mente intorpidita; e non appena la fanciulla si volse nella sua
direzione, chiese: «Akira-kun… da quant’è che non facciamo il bagno
insieme?» Fu solo quando notò che la ragazza irrigidiva le membra e
diventava paonazza che si rese conto di aver detto qualcosa di equivoco.
«S-Scusa, stavo sognando e…» I furiosi occhi violetti di lei lo misero a
tacere. Takumi si schiarì la gola, svegliandosi del tutto. «Quel che
intendevo dire,» prese allora a spiegare nel goffo tentativo di salvare la
situazione, «è che mi sono tornati alla mente alcuni ricordi del passato, e
così…»
Akira sospirò, tornando
a guardare avanti a sé, il viso ancora rosso per l’imbarazzo. «Se tua
sorella sapesse che genere di sogni fai, non sarebbe più tanto fiera del suo
caro fratellino» lo prese in giro per pura vendetta.
«Akira-kun!» Takumi
sorrise e si avvicinò a lei carponi. Si sedette al suo fianco e finalmente
gli riuscì di vedere cosa stesse facendo: ferma sotto al porticato, l’album
da disegno sulle ginocchia alzate al petto, la ragazza aveva impiegato il
tempo a fare degli schizzi in attesa che il suo signore si svegliasse.
«Avevamo cinque anni»
mormorò Akira, continuando a muovere con maestria la matita sul foglio, così
da tratteggiare al meglio il chiaroscuro del cespuglio di margherite bianche
che aveva deciso di disegnare.
Lui inarcò la schiena
all’indietro e poggiò i palmi delle mani in terra per sostenersi. «E’
passato così tanto tempo?» rifletté, fissando le iridi chiare al cielo
sgombro di nubi.
«Mio padre diceva che
era disonorevole che continuassimo» proseguì la kunoichi, le gote ancora
graziosamente pennellate di rosa.
«Ma con mia sorella ho
continuato a fare il bagno ancora per qualche tempo» replicò Takumi, al
quale parve evidentemente giusto paragonare le due ragazze.
«Ma io non sono tua
sorella, stupido!» sbottò la moretta, stizzita, mentre lui tornava a
stendersi.
«Non ti ho mai
considerata tale» la informò, facendola calmare all’istante. «Come non sono
mai riuscito a considerarti un maschio, checché tu ne dicessi» aggiunse.
Ruotò di nuovo gli occhi azzurri verso di lei e sorrise, senza però dire più
nulla.
Anche Akira rimase in
silenzio, ma ora la mano con cui reggeva la matita non si muoveva più.
«Meglio così,» esordì poi, «perché non avrei gradito affatto di essere
imparentata con uno stupido.»
Takumi rise. Tese un
braccio verso di lei, agguantò l’ampia manica del suo kimono e la strattonò
verso di sé, facendola sbilanciare all’indietro. L’album con gli schizzi
ricadde sulle tavole di legno del porticato, la matita rotolò accanto ad
esso, e Akira si ritrovò stesa sul fianco, accanto al suo signore, una mano
aperta sul suo petto, la fronte poggiata contro la sua spalla.
«Che ti salta in
mente?!» annaspò, avvampando quando si rese conto della situazione. Provò ad
allontanarsi, ma lui la cinse fra le braccia. «Ta-Takumi…?» tartagliò in
preda al panico, i pugni stretti contro il petto di lui e che spingevano in
cerca di libertà. Fu quando il giovane poggiò le labbra sulla sua corta
frangetta scura che la ragazza smise goffamente di dibattersi, arrendendosi
alla voglia di rimanere dov’era.
«E’ anche da tantissimo
che non dormiamo insieme» biascicò lui, chiudendo gli occhi, la voce di
nuovo assonnata.
«Stupido» farfugliò
Akira per l’ennesima volta, sempre più vittima dell’imbarazzo in cui lui la
faceva precipitare inconsapevolmente tutte le volte che apriva bocca. Sapeva
infatti che in quello che Takumi faceva o diceva non c’era alcuna traccia di
malignità, lo conosceva troppo bene per poter credere che lo facesse di
proposito. «Non dovresti dire certe cose ad un uomo.»
Lo sentì ridere di
nuovo. «Akira-kun non è un uomo.»
«In ogni caso, stavolta
non ti basterà un fiore per farti perdonare» ribatté la fanciulla, mostrando
tutta la propria indignazione.
«Non è mia intenzione
donartene uno, sta’ tranquilla. Anche perché altrimenti rischierei di
rovinare il tuo bel disegno.» Lei non fiatò, pur riprendendo a lottare
debolmente per riottenere la libertà, e Takumi si sentì in diritto di
continuare. «Ciò che vorrei darti, in realtà, qualora tu volessi accettarlo,
è ben altro.»
Akira s’acquietò del
tutto, in attesa che il suo signore proseguisse, senza però avere il
coraggio di alzare lo sguardo su di lui. Sentiva il suo respiro, lieve e
gentile, fra i capelli lisci, il battito del cuore contro il palmo della
mano: era accelerato quanto il suo, ma non attribuendo la cosa ad un
particolare stato d’animo, iniziò a preoccuparsi. «Takumi… stai bene?»
Il ragazzo schiuse le
palpebre. «Mai stato meglio» la rassicurò, senza però aggiungere altro che
potesse dissipare i dubbi dell’amica, ora preoccupata che lui potesse
nascondere un qualche malessere per non allarmarla.
«Takumi,» insistette
infatti, muovendosi nel suo abbraccio per farlo stendere supino e per
poterlo fronteggiare puntellandosi nuovamente con le mani sul suo petto,
«vuoi che vada a prendere le tue medicine?»
Lui la scrutò
pensieroso. «Non ero io, l’ottuso, fra noi due?» le domandò, spiazzandola.
Rise per la terza volta, allentando la stretta attorno alla sua vita, e le
prese il viso fra le mani chiuse a coppa. Akira si paralizzò, avvampando più
di prima. «Ricordi il suggerimento che mi diedero durante la nostra ultima
visita a Windbloom?» iniziò a spiegarle, riferendosi ovviamente alle parole
di sua sorella, la quale gli aveva consigliato caldamente di prendere in
sposa la sua guardia del corpo.
Takumi ci aveva pensato,
tanto. In seguito a tutte le insinuazioni fatte dagli altri, da quel
pomeriggio trascorso al Gardrobe due mesi prima, si era infine convinto che
l’amica d’infanzia nutriva nei suoi confronti sentimenti d’amore, puri ed
incondizionati al punto che lei si era dichiarata disposta a tutto pur di
rimanergli accanto come aveva sempre fatto, persino a rinunciare alla
propria felicità di donna. E così lui aveva iniziato a riflettere seriamente
su se stesso e sul proprio futuro, arrivando non solamente alla conclusione
che senza Akira si sarebbe sentito perduto, ma anche e soprattutto che quel
sentimento di forte amicizia che aveva sempre avuto per lei si era infine
trasformato in qualcosa di più profondo, dandogli la certezza di poter
ricambiare appieno il suo amore.
«Sarebbe il caso di
metterlo in pratica, non credi anche tu?» concluse quindi, sicuro del
proprio cuore.
«STUPIDO!» fu invece
l’aggressiva risposta che ricevette quel suo slancio di coraggio,
causandogli una doccia fredda, al punto che il sorriso gli si congelò sul
volto. Esagitata, Akira riuscì infine a rimettersi seduta sulle ginocchia,
recuperando così una certa distanza fra loro. «Anche se non ho la minima
voglia di accettare il tuo stipendio, ciò non significa che tu possa
permetterti di proporre certe cose e di dare ascolto a consigli di quel
genere!» gli urlò contro, quasi volesse mangiargli la faccia, il viso in
fiamme per la rabbia e l’imbarazzo, gli occhi lucidi per l’umiliazione.
Frastornato da tale
reazione, Takumi batté le palpebre più volte, cercando di capire cosa ci
fosse di così sbagliato in quella proposta di matrimonio. Infine, colto
stranamente da un’illuminazione, la sua mente volò al suggerimento poco
ortodosso che il Quarto Pilastro del Gardrobe, Juliet Nao Zhang, gli aveva
dato al termine della loro visita alla scuola di Otome. Il giovane scoppiò
allora a ridere molto più di prima, al punto che iniziò quasi a rotolarsi
per terra, facendo crescere l’ira e la mortificazione della ragazza.
La quale, giustamente,
subito reagì. «Che diavolaccio hai da ridere, idiota?!»
Con uno sforzo enorme,
Takumi cercò di soffocare le risa per recuperare fiato, e quando vi riuscì,
tornò a fissare Akira negli occhi, ora brillanti di un’infinita gamma di
sentimenti negativi. «Io sarò ottuso, ma tu continui a fraintendere tutto
quel che dico» prese allora a spiegare, fissandola con tenerezza, mentre lo
sguardo di lei iniziava a velarsi d’inquietudine, segno ch’ella era in
procinto di pentirsi di quanto gli aveva appena ringhiato contro.
«Sei tu che parli in
modo equivoco!» tentò di giustificarsi, imbronciata. Avrebbe voluto avallare
la propria tesi riportandogli le parole da lui pronunciate pochi minuti
prima – “Ciò che vorrei darti, in realtà, qualora tu volessi accettarlo, è
ben altro” – ma la timidezza congenita glielo impedì. Se solo avesse avuto
il Quarto Pilastro sotto mano…!
Il principe si issò a
sedere di fronte a lei e, continuando a sorridere seppur con aria
sconsolata, sospirò: «Temo che non arriveremo mai ad un punto d’incontro,
noi due…»
Domanda del secolo: riusciranno mai a trovare un accordo?
Frattanto che si aprono le scommesse, vi annuncio che l'ispirazione è più violenta del solito, ultimamente, tanto che non soltanto mi istiga a scrivere una volta al giorno, ma ultimamente anche due shot alla volta. Mi vedrete morta, considerato anche il fatto che devo studiare... sigh!
Grazie come sempre a tutti ed un bacio a NicoDevil, Hinata_chan, Chiarucciapuccia, Atlantislux e Gufo_Tave per le ultime recensioni. Perdonatemi se continuo a postare sciocchezze, ma per una long fic con i controfiocchi (per quanto le idee ci siano) non mi sento ancora pronta. Sorry. ^^;
Shainareth