A
riprova che la distinzione fanfiction / originali non regge, ce ne
usciamo con un’opera che è difficilmente
classificabile nell’una o nell’altra
categoria.
Perché è una
fanfiction, in quanto comunque ispirata a personaggi
realmente esistenti che ruotano attorno ai Placebo, ma nella pratica
dei fatti
è tragicamente una originale a tutti gli effetti.
Speriamo possa piacervi e vi
auguriamo buona lettura, premettendo i
soliti avvertimenti dovuti: i pg di questa storia non ci appartengono
(fatto
salvo per quelli palesemente inventati), non c’è
alcuno scopo di lucro, non
s’intende offendere nessuno né tanto meno dare una
rappresentazione veritiera
della realtà.
"My
Father's Eyes"
Penso che il mio primo giudizio
su Cody Molko fu dettato dallo stupore che mi suscitò lo
scoprire che era tutto
meno che un ragazzino viziato.
Il punto è che, mentre lo
osservavo da lontano chiedendomi che tipo fosse, m’immaginavo
un ragazzo ricco,
bello, in gamba e quindi – quasi quale conseguenza naturale
– snob,
superficiale e vagamente pretenzioso.
Sul serio, credo che passai le
prime due settimane di vita nella nuova scuola a studiarlo a distanza
di
sicurezza ed a vedere le mie idee su di lui crollare una dopo
l’altra come un
grazioso castello di carte.
E tuttavia, sebbene dopo quelle
due settimane mi fosse ormai chiaro che Cody era esattamente come tutti
gli
altri ragazzini di quattordici anni esistenti nel mondo, quando quella
mattina
lo vidi sedere da solo a leggere in un angolo del cortile, le cuffie di
un
lettore mp3 nelle orecchie, ancora non avevo idea di chi
lui fosse.
Per cui fu con il cuore in gola
che batteva a mille ed un presagio di disastro imminente che mi decisi
alla
fine a scendere a patti con il mio terribile interesse nei suoi
confronti e mi
avvicinai cautamente per tentare di…
“…oddio…Fare cosa,
Luke?!”
Mi fermai di botto. Praticamente
a due passi da lui. Ed inevitabilmente questo attirò la sua
attenzione e lo
indusse ad alzare gli occhi dal libro tra le mani.
Gli occhi di Cody…
Il loro colore fu la prima cosa
di cui ebbi piena percezione il giorno in cui entrai in classe e
l’insegnante
di letteratura mi presentò ufficialmente ai miei nuovi
compagni. Cody era
seduto in prima fila, parlava con una ragazza che era dietro di lui ed
io ho
conservato un’immagine quanto mai precisa delle sue spalle
strette nella giacca
scura e della schiena coperta dai lunghi capelli neri. Sentì
la voce del
professore annunciare la mia presenza e si voltò.
Gli occhi di Cody sono azzurri. O
verdi. O grigi.
O di qualunque altro assurdo
colore che decidano di prendere in base al suo umore, alla luce nel suo
sorriso, all’inclinazione del volto, al socchiudersi delle
palpebre sull’iride.
Gli occhi di Cody sono una delle cose più belle che siano
mai state create
nell’Universo.
Penso che non potesse andare
diversamente da come andò. Semplicemente lui mi
guardò, io lo guardai e smisi
all’improvviso di fluttuare nel limbo
d’insoddisfazione che l’ennesimo
trasferimento di mio padre aveva portato con sé. Smisi di
fluttuare anche nel
torpore infastidito in cui mi ero chiuso dal mio arrivo in quella
città.
E persi la testa.
Innamorato.
Completamente, totalmente,
stupidamente. Assurdamente.
-Chi è?- fu la domanda che
rivolsi al mio compagno di banco.
Lui mi scrutò un secondo e poi si
voltò nella direzione che indicavo, Cody parlava di nuovo
con la stessa
ragazza. E rideva. Il mio compagno inarcò le sopracciglia.
-Cody Molko.- rispose rapido,
riprendendo subito a scrivere frettolosi appunti su quanto il
professore stava
spiegando.
-…Mol…Molko?- ripetei senza
capire.
Il ragazzino sogghignò divertito.
-Sì.- mi disse gettandomi
un’occhiata piena di compassione.- Sai, come suo padre, il
cantante dei
Placebo.- mi prese in giro.
Il mondo mi crollò addosso
l’istante dopo aver ripreso il proprio corso ordinario. Capii
in meno di un
momento che le probabilità di riuscire anche solo ad
avvicinarmi a Cody erano
pari a zero. E capii il momento successivo che guardarlo da lontano non
mi
sarebbe mai bastato.
Ovviamente per quelle prime due
settimane me lo ero fatto bastare a forza.
Cody era una specie di celebrità
a scuola, chiaramente, e scoprii in fretta che non dipendeva solo dal
cognome
che portava. Anzi, non dipendeva da quello quasi per nulla.
Perché mi fu chiaro abbastanza in
fretta che Cody ed il proprio cognome non andavano molto
d’accordo.
Lui si rifiutava categoricamente
di sfoggiare il classico atteggiamento da “lei non sa chi
è mio padre!”,
frequentava sempre lo stesso giro di amici fidati che lo trattavano
come uno
qualunque di loro, scansava educatamente coloro che lo cercavano solo
per via
di suo padre, era uno studente modello a scuola ed una persona educata,
cordiale, disponibile e gentile con qualunque altro essere vivente
entrasse nel
suo raggio d’azione anche solo per un momento.
Fu proprio questo suo essere un
perfetto… “angelo” a convincermi.
Così appena lo beccai quella mattina, durante
una pausa tra le lezioni, a leggere da solo nel cortile, presi il
coraggio con
tutte e due le mani e, prima che qualcuno del suo branco di fedelissimi
tornasse
a salvarlo, mi diressi verso di lui.
E mi fermai di botto realizzando
che non sapevo neppure io cosa avevo intenzione di fare.
Io e Cody frequentavamo insieme
un paio di corsi, ma a parte questo non avevo nessun indizio reale che
lui si
fosse anche solo accorto della mia esistenza in quelle due settimane.
Eppure mi sorrise.
-Ciao.- mi sentii salutare.-
…Luke Perrington…vero?- mi chiese a disagio.
Ed io provai immediato il
desiderio di morire lì, all’istante, e non
dovergli rispondere.
“…ah già…il
prof…”, mi spiegò
pazientemente il mio cervello, emergendo dal fondo della confusione
nella quale
stava affogando.
-Sì. E tu sei Cody Molko.-
riuscii a tirare fuori imbarazzato, concedendomi un sorrisetto
così forzato che
mi stupì il fatto che non mi scoppiasse a ridere in faccia
per quanto ero
ridicolo.
“Avanti, cretino! Digli
qualcosa!!!”
-Sai…io sono un grandissimo fan
di tuo padre…
Il sorriso di Cody si congelò sul
suo viso. Tutta la sua gentilezza scivolò via come una
maschera e salì su un
tale freddo distacco da rendere lo sguardo di un blu così
fondo ed
imperscrutabile da perdersi.
Non ebbi bisogno delle sue parole
per comprendere che avevo appena toccato un nervo scoperto.
E che ne avrei pagato le
conseguenze.
-Io – mi disse
a mezza voce, duramente – non sono mio padre.
Oh, se ne avrei pagato le
conseguenze!
***
Quando entrai nella band lo feci
senza dire nulla a nessuno.
Davvero.
Nemmeno ad Amy.
Trovai un manifestino a scuola,
di questi tizi che cercavano un chitarrista, e decisi che volevo
provare. Avevo
iniziato a suonare la chitarra da poco in realtà. O meglio,
a me, abituato a
quasi sette anni di pianoforte, sembrava poco, molto poco. Decisamente
troppo
poco per entrare davvero in una band.
Chiaramente, però, non stavamo
parlando di nulla di serio, solo di una band scolastica che prendeva
vita e che
probabilmente sarebbe morta da lì a qualche mese.
Forse per questo non dissi nulla.
Perché non era davvero importante.
Ma credo che dipese più che altro
dal terrore che avevo che quei tizi sapessero chi ero ancora prima che
mi
presentassi da loro. Così badai che nessuno di quelli che mi
conoscevano
intuisse anche solo vagamente la mia intenzione ed incontrai per la
prima volta
Mike, Gab ed il batterista di allora.
Le mie accortezze, come ovvio,
erano state inutili e loro sapevano chi ero. Tuttavia, per mia fortuna,
questo
dannato cognome che porto fu visto come un elemento di demerito ed io
fui
accolto da un clima di fredda aspettativa e dallo sguardo glaciale ed
inquisitorio di Mike. Lui aveva già deciso: come fossi
andato sarei stato
comunque fuori e possibilmente con una bella pedata morale da smaltire.
Ebbi la
percezione esatta del suo cervello che lavorava febbrilmente
nell’ideare la
battutaccia da rivolgermi contro appena avessi smesso di suonare,
quindi fui
stupito come non mai nell’accorgermi che, man mano che la mia
chitarra
sciorinava le proprie note, l’espressione di Mike mutava
lentamente.
Alla fine non ci fu alcun
“benvenuto”, ma, secco come era solito, il bassista
si limitò ad annunciare che
ero nella band. E tanti saluti.
A quel punto lo dissi.
Ad Amy per prima, perché si
complimentasse con me gridando e buttandomi le braccia al collo, e
potessimo
rotolarci tutti e due sull’erba nel giardino dietro casa solo
per sentirci
immensamente stupidi ed immensamente felici.
…Ed a mia madre.
Perché a mia madre non ho mai
nascosto chi sono.
Magari non gliel’ho neppure
spiegato, ma non gliel’ho mai nascosto. E questa cosa doveva
saperla perché,
seppure lo negassi anche con me stesso, era talmente importante da
poter
cambiare tutta la mia vita.
Sia chiaro da subito che non
sogno di fare il musicista rock. Non mi ha mai interessato davvero
seguire le
orme di mio padre, anzi. Avevo, credo, quattro anni quando per la prima
volta
sono entrato nel salotto di casa, dove mia madre stava prendendo il the
con un
gruppo di amiche, ed ho annunciato a tutti che da grande avrei fatto il
medico.
Il cambiamento a cui mi riferisco nel parlare della band, è
quello che riguarda
la mia accettazione di un’eredità paterna che,
fino a quel momento, avevo
comunque assaggiato ma non a pieno. Il piano prima – era
stata un’idea di mio
padre ed io avevo anche provato ad osteggiarla, ma solo per ritrovarmi
completamente stregato da quel
dannato strumento e finire per non poterne più fare a meno
– la chitarra dopo –
e stavolta l’avevo scelta io stesso, di nascosto a lui,
perché non capisse
quanto a fondo era entrata la musica in me – avevano
significato comunque dover
accettare di portare il cognome Molko e che quel cognome qualcosa
dovesse significare.
Nonostante questo, non volevo
certo che mio padre lo sapesse.
E da qui le bugie. Prima
implorate da mia madre – aveva detto che la mettevo in un
mare di guai e che,
se papà lo avesse saputo, si sarebbe infuriato a morte e ci
sarebbe rimasto malissimo
– e poi costruite ad arte intorno a me. La band doveva
restare anonima. Io non
dovevo esistere, non dovevo farne parte. Qualunque cosa venisse decisa,
ufficialmente era opera di Mike e solo sua, Mike prendeva accordi con i
locali,
Mike faceva pubblicità al gruppo, Mike e Gab erano le uniche
due figure “reali”
della nostra band.
Non era una gioco difficile. Papà
non sapeva nemmeno chi fossero i miei amici, li aveva visti in tutto un
paio di
volte, quando si erano trovati a girare per casa, e non aveva nemmeno
realizzato la loro presenza. Riuscire a farli passare sotto il suo naso
era
persino troppo semplice. Se domandava, erano degli anonimi
“compagni di
scuola”, se provava a chiedermi come si chiamassero, non
avevo nemmeno bisogno
di inventare o fare il reticente. Già il mattino dopo erano
spariti nel mare di
cose più importanti che affollavano il suo cervello.
Succedeva perfino con Amy.
Solo nell’ultimo anno lui l’aveva
già incontrata almeno quattro volte e tutte e quattro le
volte, quando lei lo
aveva salutato educatamente nel corridoio, lui l’aveva
fissata realizzando che
– per quanto gli ricordasse indubbiamente qualcuno
– il suo nome si era perso da qualche parte e lui poteva solo
rispondere un
“ciao” stentato ed imbarazzato.
Amy ne aveva riso in tutte le
occasioni, ma io avevo perso completamente la testa ed erano seguite
scene di
panico, con urla nei corridoi di casa e porte sbattute.
Mio padre si era difeso
affermando che “lui sapeva esattamente chi fosse Amy, solo
non riusciva a
ricollegare il viso ad un nome! Non potevo certo fargliene una
colpa!”. Io
avevo pensato che, in effetti, non c’era un solo motivo
valido per cui dovesse
ricordarsi il nome di Amy.
In fondo, lei viveva nella casa
accanto alla nostra da quando aveva cinque anni. E da allora io e lei
eravamo
sempre stati assieme. Ma probabilmente se mia madre non lo avesse
chiamato
tutte le sere per parlargli di me, mio padre avrebbe avuto
difficoltà a
ricordare anche il mio di nome.
-Sono a casa!- annunciai a gran
voce alla cucina.
Mia madre si affacciò in tempo
per vedermi tentare inutilmente di sfilare la chiave dalla toppa della
porta
sul retro. Quella dannata serratura era rotta da quando riuscivo a
ricordare,
ma, per qualche assurda ragione, anche se tentavamo di ripararla si
rompeva dopo
pochi giorni. Forse per questo mia madre aveva rinunciato da tempo a
chiamare
il fabbro. Rise della mia espressione concentrata e mi venne incontro
per
aiutarmi.
-Cody, ma perché non entri
dall’ingresso principale? così non devi ogni volta
fare questo casino.- mi
disse divertita.
Io sbuffai, la frangetta oscillò
e ricadde in quel soffio, coprendomi nuovamente gli occhi e facendo
sorridere
mia madre, che allungò una mano a restituirmi le chiavi
ormai libere e l’altra
a scostarmi i capelli dal viso in una carezza.
-Ehi, piccolo, andata bene a
scuola?- s’informò.
Mossi qualche passo nella cucina,
sbarazzandomi del tascapane a tracolla, che lasciai cadere accanto ad
uno degli
alti sgabelli che circondavano il tavolo.
-Ni.- risposi, guardandomi
attorno affamato, alla ricerca di qualcosa da spilluzzicare in attesa
della
cena. Avanzai minacciosamente verso il frigo e ci infilai risolutamente
la
testa.- Ho un altro test di algebra la prossima settimana. Ti rendi
conto che è
il terzo questo mese?!- protestai. Allungai una mano e catturai il
brick del
latte con uno sguardo soddisfatto.- Alla faccia delle prove
programmate!-
Mentre versavo il latte in un bicchiere, mia madre aprì la
credenza accanto a
me e mi porse un piatto di cookies che accolsi con sguardo
riconoscente. Mi
arrampicai su uno degli sgabelli mentre lei mi sedeva accanto e
continuai
imperterrito.- Insomma, è una tortura non da poco, no?
-Beh, tanto andrà bene come gli
altri…- provò lei.
-Aaah!!!- esclami io stizzito.-
Non è questo, mamy! È che se studio non posso
provare con gli altri e Mike è
terribilmente irritato per
questo…
-Irritato?- ripeté lei perplessa,
strappandomi una risata.
-Scusa, è un modo carino per dire
che è incazzato nero.- spiegai, affogando il primo
biscotto.- Sai come è fatto.
E poi è tipo eccitatissimo per qualcosa in questo periodo!
Continua a blaterare
che ha un progetto fantastico in mente e che, se riesce come si
aspetta, sarà
una svolta definitiva. Ovviamente si capisce da solo, ma con Mike
è così
sempre.
Mia madre continuava a ridere ed
io sorrisi soddisfatto.
Mi piaceva vederla ridere, le si
illuminava lo sguardo e le venivano delle fossette carine intorno alla
bocca.
Lei mi diceva che erano piccole rughe d’espressione, io
pensavo che era così
vera e naturale quando rideva che me ne sarei potuto innamorare, se non
fosse
stata mia madre. In quelle occasioni finivo per chiedermi se fosse
proprio per
cose come quella, per quei particolari, che mio padre si era innamorato
di lei.
Così cominciai a raccontare. Solo
per farla ridere ancora, solo per potermi beare di quel suo viso sereno
e
disteso.
-Tu immagina la scena- iniziai
con trasporto, spostando latte e biscotti per avere spazio e prendere a
mimare
gli eventi mentre li raccontavo.- Eravamo seduti tutti lì,
nella stanzetta che
usiamo per provare, ed arriva Mike, spalancando la porta con la boria
che lo
contraddistingue. Si mette davanti a noi mani sui fianchi e fa
“Ho avuto
un’idea GENIALE!”.- lo sbottai imitando con
precisione il tono da “grandi
occasioni” di Mike e mia madre, che lo conosceva benissimo,
rise più forte ed
annuì con convinzione.- A quel punto, ovviamente,
io me ne sono uscito sbuffando come al solito, Gab ha cominciato a
gridare
“sììì!!!” con tono
entusiastico a priori e Fran lo fissava ad occhi spalancati
e bocca aperta, come se gli avessero appena piazzato davanti un cono
gelato di
proporzioni gigantesche! Vale è stata l’unica a
guardarlo impassibile, ha
accavallato le gambe stile vamp e lo ha scrutato a lungo, facendo
“perciò?”.
Mamma smise di ridere. Si asciugò
distrattamente l’angolo di un occhio, soffocando la propria
ilarità e
guardandomi.
-Perciò?- ripeté.
-Ah, boh! Mica ce lo ha detto!-
esclamai io, ributtandomi sulla merenda. Mentre masticavo un secondo
biscotto,
chiarii- Si è limitato a gonfiarsi come un pollo da
combattimento ed a mettersi
lì con la faccia del “fidatevi del vostro
capitano!”.
-…faccia che preannuncia sempre
guai.- notò mia madre per me.
Assentii con il capo, mentre lei
si sporgeva nuovamente a scostarmi i capelli dal viso e dalle spalle,
prima che
finissero nel bicchiere.
-Comunque ho davvero troppe cose
a cui pensare in questo momento per occuparmi anche delle idee geniali
di
Mike.- sospirai, gettandole un’occhiata di traverso.
Fu a quel punto che suonò il
telefono.
Visto l’orario poteva essere solo
per me, così mi lasciai cadere giù dallo sgabello
ed andai a rispondere prima
che lo facesse la domestica. La voce di Gabriel mi arrivò
immediata
all’orecchio, ancora prima che io avessi il tempo di finire
il mio “pronto” e
piazzarci un bel punto interrogativo alla fine.
-Cody!- strillò terrorizzato.
Ora. Gab è una delle persone più
tranquille e positive che io conosca. Il classico tipo che in mezzo al
disastro
ti guarda, sorride e ti dice che alla fine poteva anche andare peggio.
Questo significa
che per far strillare terrorizzato
lui deve essere successo qualcosa di ancor più che
disastroso. Un ottimo
motivo, insomma, per avere paura di sentirlo al telefono esordire con
un
“Cody!” che mi fece pensare che sarei morto entro
la fine della giornata.
-…Gab?- provai a fermarlo prima
che si mettesse a piangere al telefono.
-O.k.- sbottò subito lui, come se
avesse bisogno di farsi coraggio per dirmi qualcosa. E lo
ribadì anche.- O.k.!
Ascoltami e non arrabbiarti.
-Gab, se esordisci con “non arrabbiarti”
è perché sai che lo farò!- feci notare
cominciando da subito a spazientirmi.
-Sì, beh, ecco…E’ che ho
scoperto
che idea ha avuto mio fratello e…
Allora sì che ebbi davvero paura.
-E…- incalzai a mezza voce.
Gabriel respirò a fondo, prese
tempo, mi fece perdere quel poco di pazienza che ancora conservavo
nonché tre
anni almeno di quelli che mi restavano da vivere.
-Gab!- strillai a mia volta.
-Cazzo, Cody! Ci ha iscritti ad
un concorso musicale!- strepitò lui tutto d’un
fiato, senza nemmeno prendere
pause tra una parola e l’altra.
Sapete, se si vuole passare
inosservati chiamandosi Cody Molko, una cosa da non fare mai, per
nessuna
ragione, è prendere a frequentare un covo di gente che, come
mestiere, si
occupa di musica.
-…cosa ha fatto?- ripetei in un
sussurro talmente fioco che Gabriel nemmeno mi sentì.
Anche perché era già partito con
una sequela infinita di “scuse”, che di sicuro non
avrebbe dovuto porgermi lui
per suo fratello e che, per giunta, non valevano minimamente a
ridimensionare
la questione.
Questione che avrei dovuto quanto
prima discutere a tu per tu con Mike.
-Gabriel, dov’è quel coglione di
tuo fratello?- mi informai quindi, interrompendo quel flusso continuo
senza
averne ascoltata nemmeno una sillaba.
-Cody, io sono sicuro che se magari
gli parlo…- provò lui con un gemito strozzato.
-Senti, Gab! Se a tuo fratello
gliene fosse fregato qualcosa si sarebbe almeno preoccupato di chiedere
il mio
parere!- scattai stizzito.- Invece si è limitato a mettermi
in un mare di merda
senza nemmeno essere così carino da avvisarmi in anticipo!
-Co…
-NON DIRE CODY!- lo interruppi
ferocemente.- Mettiti nei miei panni, dannazione!- scattai quindi,
battendomi
una mano contro la fronte e tirando indietro quella dannata frangia che
continuava a finirmi negli occhi. Mi lasciai andare contro il muro con
un
sospiro pesante.
Mettersi nei miei panni. Nessuno
di loro poteva mettersi nei miei panni. Nessuno di loro aveva un padre
famoso
che gli pesava addosso con la propria notorietà, rendendo
qualunque cosa decidessero
di fare assolutamente fuori
dell’ordinario solo in virtù di questo.
Magari a pensarci sembrava una cosa
incredibilmente “forte”, ma la verità
è che era solo terribilmente
“ingombrante”.
-Va bene, ora non ho tempo.-
conclusi seccamente, chiudendo la comunicazione e bestemmiando contro
me stesso
per non aver capito da subito che, qualunque idea geniale Mike avesse
avuto per
il gruppo, per me sarebbe stata un grossissimo problema.
|