Le prese la mano stretta a
pugno e, schiudendole le dita, rimase di sasso per quello che vi trovò:
l’orecchino con il Peridoto. Akira si era strappata dall’orecchio la pietra
un attimo prima che venisse colpita per evitare che la stessa ferita,
mortale per chi non avesse avuto la fortuna di possedere le nano-macchine
all’interno del proprio corpo, squarciasse anche il ventre del suo signore.
Takumi strinse a sua volta l’orecchino nel palmo della mano e si piegò in
avanti, fino a poggiare la fronte contro quella della sua Otome, tenuta
sotto sedativi per via delle terribili ferite riportate.
Le altre ragazze stavano
ancora combattendo gli ultimi focolai di rivolta, e per quanto folle potesse
essere sembrata la sua idea di gettarsi da sola contro il più compatto
nugolo di nemici, quell’azione aveva permesso al resto delle Otome dei paesi
alleati di Windbloom di aggirare il resto degli avversari per poter
raggiungere incolumi il pericolo maggiore, il capo di quella squadra
d’invasione che, chissà in quale sporco modo, era riuscito a carpire parte
dell’antica tecnologia che il Garderobe aveva finora tenuto per sé. (*)
«Akira?» mormorò il
ragazzo quando la sentì emettere un flebile suono dalle labbra, schiuse
affinché potesse riuscire a respirare meglio. Non ricevette risposta. «Cosa
credevi di poter fare da sola?» la rimproverò poi, bonariamente, baciandole
la fronte. «Sciocca… sciocca…» ripeté in un sussurro sommesso, la voce rotta
dall’angoscia. La vita della sua Otome era ora appesa ad un filo, e,
nonostante ella non avesse avuto neanche il tempo di riflettere sul da farsi
quando, dopo una gloriosa impresa che l’aveva vista avere ragione su un
largo numero di avversari, era stata accerchiata e colpita quasi a morte,
Akira aveva avuto la prontezza – o forse l’istinto – di risparmiare quella
ferita, quel dolore e, con tutta probabilità, la morte al proprio
Imperatore.
Takumi spostò lo sguardo
sul Peridoto incastonato sull’anello che portava al dito medio della mano
sinistra, la stessa pietra che anche Akira aveva indossato fino ad un attimo
prima di essere trapassata da parte a parte e di cadere priva di conoscenza
fra le braccia dei nemici. Quella pietra sembrava essere stata creata
apposta per loro due: si diceva infatti che portasse vigore al corpo,
calmasse il sistema nervoso e rinforzasse quello immunitario. Non avevano
saputo appurare se fosse dovuto ad un caso o meno, ma da che Akira aveva
smesso i panni della semplice guardia del corpo per diventare la sua Otome
ed indossare così quella piccola pietra verde, Takumi XIII, da sempre
costretto su di una sedia a rotelle per via del suo precario stato di
salute, aveva iniziato a sentirsi meglio, riuscendo persino a lasciare il
proprio palazzo imperiale per intraprendere dei viaggi che potessero
portarlo al di fuori dei confini di Cardair. Soprattutto, però, si diceva
che il Peridoto aiutasse a trovare il coraggio dei desideri del proprio
cuore. E Akira lo aveva appena dimostrato.
«Credevo che, diventando
una Otome, avresti fatto più attenzione a te stessa» riprese il giovane,
senza però tornare a guardare la ragazza, immobile sul letto su cui
l’avevano adagiata dopo i primi soccorsi. «Confesso di aver puntato molto, a
tua insaputa, su quell’affetto che sapevo provavi per me. Mi ero convinto
che, temendo di fare del male anche a me, avresti evitato in qualunque modo
di ferirti.» La sua voce, roca e provata dal dolore che la vista della Otome
ferita gli procurava all’animo, era quasi irriconoscibile. Erano cresciuti
insieme, avevano condiviso gioie e dolori, ed il destino li aveva poi voluti
allontanare per via dello stato sociale: l’uno erede dell’Impero di Cardair,
l’altra come sua guardia del corpo, prima, e come sua Meister, dopo.
Ciononostante, la loro unione aveva continuato a rafforzarsi di giorno in
giorno, portandoli ad un punto di esasperazione tale che a loro non bastava
più il semplice stare l’uno accanto all’altra, seguitando a recitare quel
ruolo che era stato imposto ad entrambi senza ch’essi potessero gridare al
mondo cosa avrebbero realmente voluto fare, senza che potessero dar sfogo a
quei desideri repressi nei reconditi abissi del proprio animo perché
considerati tabù fra un Master e la propria Otome.
«Sono stato uno stupido,
perché mi sono fidato della tua devozione senza neanche rendermi davvero
conto di quanto essa fosse immensa.» Gli occhi azzurri di Takumi ripresero a
cercare il minimo movimento nei lineamenti del viso pallido della fanciulla,
sul quale facevano spaventosamente contrasto i capelli scuri, madidi di
sudore ed in parte incrostati di sangue. «Akira…» mormorò ancora
l’Imperatore quando la sentì gemere di nuovo. Le labbra gli tremarono per le
violente emozioni che, impetuose, si rincorrevano e si attorcigliavano
all’interno del suo cuore. Strinse la pietra della ragazza nella mano
sinistra per farsi coraggio quando lei schiuse gli occhi purpurei. «Sei
stata fantastica» fu la prima cosa che riuscì a dirle.
Sul volto di lei si
disegnò una smorfia sofferta che voleva essere in realtà un debole, incerto
sorriso. Annaspò a vuoto per qualche istante prima di riuscire a sibilare:
«… Siete… ferito…?»
Fu a quel punto che il
giovane crollò, e la mano della Otome che lui teneva ancora nella sua fu
dolcemente baciata dalle lacrime che iniziarono a grondare dai suoi occhi.
Scosse il capo per tranquillizzarla, ed infine tornò a poggiare la fronte
contro la sua, cercando di regolare il respiro e di riacquistare padronanza
di sé. «Sto bene grazie a te» le assicurò, inspirando con morbosa adorazione
l’odore del sangue rappreso. «Tuttavia… d’ora in avanti ti faccio divieto
assoluto di usare ancora i tuoi poteri.» La sofferenza dell’espressione di
Akira si acuì nell’udire quelle parole, ma non riuscendo a trovare la forza
per piangere o per ribattere, la guerriera si limitò a muovere le dita fra
quelle del suo signore, forse per comunicargli la propria contrarietà al
riguardo. Takumi si impose di ignorarla e, forte dell’appoggio dei poteri di
quella pietra che aveva già fatto più di un miracolo, continuò: «Non voglio
più una Otome, Akira. Non se poi devo vederla in queste condizioni.» Tacque
per cercare le parole più adatte per condividere con lei i propri desideri,
e quando fu in procinto di tornare a parlare, scorse una lacrima all’angolo
dell’occhio della ragazza. L’asciugò con un bacio. «Non ti scaccio dal tuo
posto, sta’ tranquilla» riprese allora con una sfumatura di tenerezza
nell’intonazione, carezzandole il dorso della mano con le dita. «Continuerai
a restare al mio fianco, te lo giuro.» La vide piangere più di prima, e
questa volta non per il dispiacere. «Ma prima che questo accada, anch’io
voglio una promessa da te: devi riprenderti del tutto. Ho bisogno di te.»
Akira cercò di ritrovare
la voce, venutale meno a causa del respiro accelerato, e di reprimere le
lacrime, ma l’oppressione di quell’infermità fisica e delle forti emozioni
dovute all’ansia di essere abbandonata e alla paura di morire – timore che
sempre l’aveva accompagnata da che era diventata una Otome, pena la
contemporanea morte del suo signore – le impedivano di farsi obbedire dal
suo corpo. Fu solo dopo vari, disperati tentativi che le riuscì di
sussurrare un appena percettibile: «… Grazie… Takumi…»
(*) Sfortunatamente non ho
la più pallida idea di che cosa possa essere realmente accaduto, ma chissà
che in futuro io non tragga spunto da questa shot per creare un qualcosa di
più vasto che coinvolga l’intero universo di Mai Otome (manga).