“Non piangete mai ma lasciate invece che tutto vi renda più
forti, anche perchè quando penserete che il peggio è passato, magari, deve
ancora arrivare”.
Quando
montai per la prima volta su quella corriera ero eccitata: non vedevo
l’ora di arrivare a scuola e vedere la mia nuova classe. Ora ero alle
superiori, ma non me ne rendevo ancora conto, sinceramente. Era come se fossi
ancora alle medie, che avessi solo prolungato di poco il mio terzo anno delle
medie. Ricordo che quella mattina in corriera non mi sedetti. Tutti i posti
erano occupati da quelli di seconda, terza e quarta. Erano pochi quelli di
quinta, invece. Meglio così.
Ricordo
quando arrivai davanti alla mia sede. C’erano tantissime ragazze e pochi
ragazzi, al massimo erano dieci in tutto. Parevano messi lì per sbaglio. E
subito notai che si erano tutti ravvicinati e cominciavano a conoscersi.
Semplicemente, pensai, è questione di svantaggio. Sono obbligati dal numero
contenuto di esemplari maschili che offre il liceo di scienze sociali.
Ricordo
che la prima che conobbi tra le mie compagne di classe fu Alice. Mi sembrava
una tipa simpatica, ma durante l’anno mi accorsi della totale
impersonalità che ostentava. Vestiva firmata da capo a piedi e se avesse
potuto, si sarebbe fatta firmare anche i capelli. Ho sempre disprezzato quelli
che si nascondono dietro a firme per poter credere di essere qualcuno.
Beh, la verità è che nella vita si è qualcuno anche
se si è coperti di vestiti non firmati. Anzi forse si è di più
“qualcuno”, se si è vestiti così.
Comunque
quel primo giorno di scuole superiori è stato interessante. Eravamo in 26 in
classe.
In
meno di tre mesi ci eravamo ridotte a 23. Tre delle mie compagne cambiarono
scuola. Isabella perchè veniva da troppo lontano; Lara che non riteneva che
questa fosse la scuola adatta a lei; ed Elisa che andava male al liceo e ha
scelto un istituto professionale. Lì, ho saputo dopo poco, andava a meraviglia
ed era la prima della classe. Buon per lei, dicevo invidiosa, un filo solo,
visto che non ero certo una cima a scuola.
E
così, tra un percorso in autobus e un altro, lo notai. Era un ragazzo semplice,
un po’ sfigato, per la verità. Mi faceva letteralmente impazzire di
tenerezza. Giovanni.
Poi
lo conobbi di persona. E là mi cadde il palco, come dico spesso io.
Un
breaker sfegatato, un presuntuoso o un saputello? Boh, ai posteri l’ardua sentenza.
Fatto
sta che non piacque più. Beh, in realtà il processo fu più lento e un filino
più doloroso del previsto. Ma sapevo che era solo una semplice e dannata cottarella, per cui mi ci misi di impegno.
Fu
così che guardai per la prima volta il lui che mi avrebbe fatto star male per
due anni interi. Era bello, ma in modo diverso da come uno s’immagina.
Era bello in senso lato. Affascinante. Ammaliatore. Capace di stregarti, di
ucciderti con la sola sua presenza. Un sogno di ragazzo che brandiva la sua
bacchetta magica invisibile per prenderti e infilarti nel sacco, come trofeo
tra le sue tante adoratrici.
E
io scema che ci caddi dentro, senza nemmeno che alzasse la bacchetta.
Enrico.
Bel nome. Peccato avesse tutte quelle sue amichette..
Ma
la mia infatuazione per lui rimaneva, così vissi per un anno, piena di
tristezza e angoscia. Sì, perchè impossibile ma vero: la notte chiudevo gli
occhi e vedevo lui.
Era
un sogno dietro l’altro.
Una
cosa inimmaginabile.
Cosa
si può fare per amore? Cosa è veramente lecito fare per amore? Cosa è
umanamente possibile fare per amore? Fino a dove una ragazza può spingersi per
assecondare l’amore che prova per un ragazzo?
Se
la risposta fosse semplice...
Seppi,
non so più da chi, che Enrico frequentava la chiesa. Non so se mi spiego: dopo
ANNI che non assistevo ad una messa, sono andata SOLO per vederlo.
Poi
cominciai a frequentarla regolarmente, cantavo al coro parrocchiale.
Andavo
a messa per poterlo ammirare. Per poter covare quell’odio verso me stessa
che si rendeva conto di farsi del male da sola, che tanto lui non
l’avrebbe mai guardata.
No,
forse l’avrebbe guardata, per poi girarsi dall’altra parte e
dimenticarsi che lei esisteva. La cosa che mi faceva piangere di notte,
inondare il cuscino di lacrime amare; il motivo che mi faceva passare una notte
in bianco con mia sorella nel letto di fianco al mio che russava beatamente...
solo lui. Il fatto che non si sarebbe mai e poi mai interessato della
chiassosa, bruttina ragazza dai capelli indomabili (a parte se ci passava la
piastra, cosa che richiedeva tre ore secche per ottenere un risultato
decente)... io, la ragazza più insignificante... beh, la cosa mi fa stare
ancora male. Anche adesso.
Ma
quello che mi faceva stare più male era che non pareva nemmeno che esistessi
per lui.
L’amore
è la peggior arma contro se stessi, lo dico spesso tra me e me. Frase più
veritiera, non esiste.
Sì,
sicuramente. In ogni modo, Enrico era una persona criptica e imprevedibile, ma
un po’ moscio a volte, per la verità. Più di una volta lo guardai
bene, l’osservai a lungo, l’ascoltai con interesse.
Fu
quel ragazzo che mi aveva rubato le tre cose più importanti della mia vita (la
mente, il cuore e l’anima) a farmi un regalo inaspettato. Mi permise di
conoscere i Modena City Ramblers, un gruppo. Lui, era
un loro fan, e io incuriosita mi scaricai le canzoni e le ascoltai. Stupende,
dissi. E stavo ascoltando I cento passi. Poi ascoltai In un giorno di
pioggia e subito dopo Ebano. Sono ancora le mie preferite.
Lui,
ignaro del regalo che mi aveva fatto, ignaro forse anche della mia esistenza,
era la mia unica fonte di diletto. Mi piaceva starlo a guardare. I suoi capelli
tra il biondo e il castano chiaro, gli occhi scuri, due buchi neri sul suo viso
dalla carnagione molto chiara. Non era molto alto, ma nemmeno basso. E
sicuramente non un fotomodello.
Un
giorno mi sorpresi a pensare a come sarebbe stato baciarlo. Era una giornata
uggiosa e lui era lì, nella penombra della mattina invernale, le sette, in
corriera.
Fu
in quell’occasione che si girò verso di me e fece una faccia strana.
Impossibile leggere quell’espressione.
Né
in negativo, né in positivo. Forse mi vede attraverso, mi chiesi. Scesi
dall’autobus pensierosa. Quella mattina avevo assemblea d’istituto
e dunque ero in sede centrale. Lo precedetti dentro il cancello e lo vidi
entrare con i suoi amici: Moro, Tony, Siro, Pozzi e altri.
Moro
era il classico playboy, d’aspetto, solo di quello, perchè per il resto,
non si faceva notare, non tanto. Credo che tutte quelle della mia età in
corriera gli andassero dietro sbavando. A me, non sfiorava nemmeno
l’idea. Boh, scherzando dico spesso che ho una
passione per quelli che tutte definiscono “brutti”, ma non sarei
tanto sicura che sia una battuta solo. Moro era un ragazzo molto strano: aveva
un modo di guardare la gente, con la coda dell’occhio...
Tony,
a differenza di Moro, era il ragazzo camaleontico e serio, quello che ti
chiedi: Ma che cazzo starà pensando?
E
fa una faccia impassibile a qualsiasi battuta. Soltanto un paio di volte
l’ho visto proprio ridere. E mi pareva incredibile.
Ah,
dimentico: Tony è il fratello maggiore di Giovanni. Non si somigliano per
niente.
Poi
c’era Siro, anche lui Breaker, biondiccio-castano, occhi verdi. Beh, due mie compagne di
classe mi dissero, un giorno in assemblea: Ma chi è quel figo?
Io rimasi un filo scandalizzata. Vabbè, non era
brutto...
Però,
dai...
E
infine Pozzi. Un tipo... strano. Diciamo che non ti accorgi di lui. Nel senso
buono, ovvio. Mi spiego: è silenzioso, riservato, il classico tipo che se ne
sta per i fatti suoi, all’apparenza.
Questi,
almeno, sono i ragazzi che ricordo che facevano parte del gruppetto della
corriera.
Andai
alla Festa di Natale. La sede centrale era tutta un fermento. Sembrava un
formicaio sotto una lente d’ingrandimento. Beh, c’era anche un gran
casino. In cortile c’erano i metallari-rocchettari
che cantavano a squarciagola, con tanto di chitarre elettriche, stupende!
Io
andai in cerca per tutta la scuola di lui, Enrico. E lo trovai in una
stanzetta, dove facevano Breakdance. Stava guardando
Moro che si esibiva. No, sopirai tra me e me, anche quello fa Break!
Poi
guardai quell’altro, sogno di ragazzo. Possibile che Enrico ai miei occhi
appariva come una calamita luminosa? E anche se non capivo una mazza di Break
decisi di rimanere lì. Solo per lui. Solo per poterlo guardare. Solo per
sentire quella fitta acuta alla bocca dello stomaco che mi avvertiva: Dai, vai
via a divertirti, tanto così ti fai solo del male. Ma io rimasi. Finché
Cristina, che sia benedetta la mia compagna di classe, mi trascinò via. Eravamo
fuori e il mio cuore riprendeva i suoi battiti normali. Mi sembrava di essere
entrata in un frigorifero, fuori si gelava. E subito dopo nell’inferno:
La Saletta House. Era il mio peggiore incubo.
Io
ODIO l’House!
E
quando feci per entrare, seguendo Cristina, vidi Giovanni indeciso sulla
soglia. Allora mi avvicinai e lo invitai ad entrare. Rifiutò e si dileguò. Ci
rimasi malissimo. Vabbè, non così tanto. Alla fin
fine, non era di certo lui che affollava i miei sogni.
Così
tra una saletta House e un giro nel cortile per il concerto Rock-metal,
passò la mattina e tornai a casa. Il giorno dopo cominciavano le vacanze di
Natale. Che seccatura, non l’avrei più visto, dato che non uscivo quasi
mai per il paese. Poi dopo due settimane che mi disperai e feci preoccupare un
filo mia sorella, perchè a volte davo di matto, ritornammo a scuola. E ripresi
a vederlo. E ripresi vita. La scuola era solo uno sfondo sul mio personale film
di pessima qualità, che ogni giorno passava sotto i miei occhi.
Poi
conobbi Sonia. Era una sua compagna di classe, ma io non lo sapevo quando mi
sedetti in corriera affianco. Stava leggendo un libro. Le chiesi che libro
stesse leggendo. Si voltò e mi sorrise. Sollevò la copertina e mi mostrò. Il
giovane Holden. Bello, le dissi. Lei rispose solare
di sì. Così cominciammo a parlare. Non so come ma assunsi quell’informazione
che mi sconvolse: Era la compagna di classe di Enrico. Wow, quando si dice che
la fortuna è cieca! Però la sfiga si sa, ci vede bene, come dice la mia prof
d’inglese, che ha perfettamente ragione.
Comunque
cominciò un’amicizia, non molto continua, veramente, almeno il primo anno.
E
così arrivò anche la Festa dell’Ultimo Giorno di scuola. Beh, lo sapevo
già che i miei non mi avrebbero mai lasciato stare a casa. E nemmeno uscire
prima. Ed ero troppo brava ragazza per bruciare direttamente scuola. Così mi
avviai di malavoglia verso scuola. Quella mattina guardammo Sherek
in tedesco per le prime due ore (uau, che sballo!).
Poi ci avviammo a piedi verso la sede centrale. Mi ricordo che la prof
d’italiano ci disse: se qualcuno si perde per caso, amen, ci si può
chiudere un occhio. Ci aveva già avvertito che non ci sarebbe stato nessuno
alla festa. Infatti tutti quelli che si credono fighi,
sono andati in Prato S. Caterina, per bruciare.
Dopo
un’ora passata prigioniera della festa che di festa aveva solo il nome,
cercammo una via d’uscita. E la trovammo. Un portone che dava sulla via
principale e non era sorvegliato. Ci infilammo io e la benedetta Cristina.
Vagammo
un po’ per le strade e ci dirigemmo verso il famigerato Prato. Volevo
proprio vedere chi c’era. Così entrammo. Oddio, pensai. C’era un
mare di gente sdraiata sulle collinette puntellate d’alberi, verde
smeraldo. Il sole era piacevole. Poi c’erano quelli con le pistole ad
acqua che sembravano usciti fuori da, che ne so, Star Wars,
per capirci. Oppure c’erano quelli che riempivano dei preservativi con
l’acqua e lanciavano le “bombe” addosso alle ragazze che poi
si accorgevano di quello che era arrivato loro addosso e scandalizzate
strillavano. Fu a quel punto che vidi un camion appostato lì affianco. Mi prese
un colpo al cuore. Mentalmente mi chiesi: dove andava oggi mio padre? Beh, mio
padre è un camionista, dunque, ebbi il terrore di essere sgamata
a “quasi-bruciare”, così mi infilai
veloce verso l’uscita del Prato e me ne andai, di corsa, con una Cristina
tra l’incazzata e la confusa, trascinata per
dietro.
Finalmente
presi la corriera, ma era quella prima della solita, per cui scesi alla prima
stazione e attesi quella che normalmente avrei dovuto prendere. Il sole era
cocente, nemmeno un filo d’ombra alla stazione. Finalmente la corriera,
arrancando, cigolante arrivò e mi portò a casa.
Appena
entrata in casa mi buttai sul divano, a mo’ di pesce. Ero stufa morta.
Davanti a me si prospettava una lunga estate senza mare e vacanza. E... senza
di lui.
Per
cosa avevo fatto tutto quel casino l’ultimo giorno di scuola? Solo per
lui. E perchè io non ne venivo affatto appagata? Infatti non l’avevo
visto quel giorno. Esisteva davvero Dio? A quel punto me lo chiedevo tra le
lacrime. Ero davvero al tappeto. Mancava solo il colpo di grazia finale.
Per
quanto mi sembrò impossibile, quell’estate passò, lenta e dolorosa, ma
passò. Ma io ero ancora innamorata di lui. E lo riconfermai a me stessa il
primo giorno di scuola della seconda, quando lo vidi salire l’autobus in
stazione. Incrociai il suo sguardo e il sottile strato di vetro che avevo
creato quell’estate per potermelo dimenticare, andò fragorosamente in
frantumi.
Il
mio cuore era ferito da una delle schegge di quel vetro così faticosamente
costruito in tre duri mesi. Sono una sciocca, mi ripetevo. Come mai non
riuscivo a dimenticarlo?
E
lui. Dio solo sa quanto l’ho odiato quando ha preso a salutarmi. Odio
ammetterlo, ma sperai. Non so in cosa. La speranza è un sentimento che nasce
sempre in queste situazioni, ma bisogna atterrirlo subito, perchè altrimenti
rischi di finire male scoprendo che gli fai davvero schifo.
E
rialzarti è più dura dopo una caduta del genere.
Mi
accorsi che mi salutava solo quando eravamo soli, che non c’era nessuno a
poterci sentire ed era sempre lui a dirmi quel “Ciao” incolore,
anzi, no, un colore ce l’aveva ma era incredibilmente indecifrabile. Quel
maledetto “Ciao”, tanto agognato a cui davo risposta con la voce
strozzata, la gola secca e lo sguardo abbassato: evitavo infatti di guardarlo
negli occhi. Avrebbe capito che ero ossessionata da lui.
Ma
fissarlo era più forte di me. E più di una volta se ne accorse. E io stupida,
lo fissavo ancora, incapace di togliergli gli occhi di dosso, lasciando che una
freccia trapassasse il mio cuore alla sua vista, tutte le volte, facendomi
male. C’era qualcosa di magnetico, inspiegabile che faceva convergere i
miei occhi verso di lui. Era il mio polo magnetico. Anzi era il punto dove la
forza centrifuga è nulla, tutto gira intorno a lui. Sembra quasi la pubblicità
della Vodafone, amaramente lo pensai più di una
volta. Ma perchè? Perchè m’innamoro delle persone sbagliate?
Come
quando in seconda media un certo Dennis mi chiese di
mettersi insieme a me e io non gli risposi. Due giorni dopo era insieme ad
un’altra. Allora destò la mia curiosità e finii col farmelo piacere.
Poi
tutto, come era iniziato, finì, per fortuna.
Ma
non senza una buona dose di sano masochismo, la mia caratteristica distintiva.
Sì,
sono una masochista incredibile.
La
mia massima aspirazione è far felici tutti. Cerco sempre d’essere io,
piuttosto che qualcun altro, a soffrire. Piuttosto di veder soffrire, soffro io.
Patetica,
e scema. Sì, lo so.
Un
giorno decisi di rivelare a Sonia che ero pazza di Enrico. Lei reagì bene.
Credo. Non lo so. Fatto sta che comunque ero sicura che lei era una persona
fidata per cui le chiesi consigli. Lei si mostrò gentile e accondiscendente a
darmi informazioni su di lui. Seppi abbastanza, ma la mia ferita sul cuore la
diceva lunga sul mio masochismo. Sembrava un rapporto di proporzione.
Più
ne sapevo e più mi piaceva. E di conseguenza, più stavo male.
Poi
conobbi sua sorella, Anna. Era una ragazza simpaticissima. Era al secondo anno
d’università. Sotto Natale, confessai anche a lei di essere innamorata di
suo fratello. Ci perdemmo di vista per un po’. Non so dire se fosse
collegata la cosa, ma a me parve che un pochino c’entrasse.
Anche
quell’anno andai alla Festa di Natale.
Ero
decisa a tutto: dimenticalo, pensavo. Così, ingenua passai nei corridoi
sbirciando svogliata un po’ qua e un po’ là. E lo vidi. In Sala Giocolieria. Si stava esibendo con le palle da giocoliere
in mano. Il mio cuore ebbe un tuffo. Dio, che carino che era, tutto concentrato
com’era. Mi arrestai di botto sulla porta affascinata. Con me c’era
Sofia, un’altra compagna di classe. Carino, mi fa, ma non è il mio tipo.
Io, triste a dirlo, ma subito la ignorai. Le toccò ripetermi dopo quel che
aveva detto. Ovviamente non per cattiveria, ma perchè lui mi aveva visto sulla
porta e si stava avvicinando con le palle in mano (sembra brutto da dire, ma
non è!). Lo guardavo fisso nei suoi occhi. C’invitò ad entrare.
Sorrideva. Se fossi stata una caramella, sarei stata una Mou,
sarei stata sul termosifone e mi sarei velocemente sciolta.
Beh,
visto che ero una schiappa con tre palle, provai con due e mi disse: un buon
inizio. Poi entrò altra gente e si dedicò ai nuovi arrivati. Sofia mi guardò e
mi disse: Hai gli occhi che luccicano, si vede che ti piace. Ma lui è un tipo
troppo complicato, sa il fatto suo...
Lei
è così, ti dice le cose come le vede realmente. È una vera amica.
Ti
da sempre un punto di vista che a volte ti chiedi: ma come fai a cogliere
l’essenza di questa situazione?
Lei
è l’unica persona che conosco che sappia farlo. Ti dice esattamente
quello che pensi trasformando in parole i tuoi sentimenti.
Il
fatto è che quel giorno che mi disse quella frase è lo stesso in cui mi resi
conto che non stavo veramente vivendo.
Mi
stavo facendo condizionare la vita da lui. Se perdevo la corriera del ritorno
diventavo apatica; se alla mattina non c’era, non spiccicavo parola con
nessuno, e se non lo vedevo per due giorni di fila ero nervosa e irritabile.
Tra tutte le persone a cui potevo chiedere aiuto non ne scelsi nemmeno una.
Tanto
il cuore era mio e se non voleva ascoltarmi, prima o poi, con le buone o le
cattive, l’avrebbe fatto.
E
quell’anno entrarono in scena altre due ragazze. Giulia, del liceo
classico e Tamara, del liceo linguistico.
Giulia
era la ragazza saggia, matura e responsabile. Tamara, l’eterna ragazza
che ti fa spanciare dalle risate e che sa prendere la vita sempre col sorriso
stampato in faccia. Tamara lo conosceva bene, Enrico. Facevano tennis assieme.
E lei sapeva come farmi ridere, raccontandomi le figuracce che si era fatto lui!
Invece
Giulia sapeva ascoltarmi, capirmi. È stata la mia psicoanalista, praticamente.
Io le raccontavo i miei sogni, quello che succedeva, come mi sentivo e lei me
li trasformava e li “winzippava” in un
consiglio o un paio di parole che avevano l’intento di consolarmi. E
spesso ci riuscivano.
Fu
dopo Pasqua che l’avvistai. Per caso lo incrociai nei corridoi.
Bellissimo. Terza Classico. Assomigliava ad uno dei Red
Hot Chili Peppers: capelli abbastanza lunghi per
essere un maschietto, bel viso, bel corpo (mmmhhmmm!
Non fatemici pensare!). Simone. Un metallaro.
Non
lo conobbi di persona. Non ne avevo il coraggio. No, mi correggo, io ho sempre
avuto il coraggio di fare tutto, ma avevo paura di trovarmi ancora in una
situazione pessima come con Enrico. Beh, non sono una tipa tranquilla, come si
è già capito. Ma io amavo davvero Enrico, e Simone era solo un bel ragazzo di
cui sapevo poco niente. E a dire la verità non ci tenevo a conoscerlo.
Comunque
sia stata la faccenda di Simone, io stavo male. E riflettevo sul mio dolore.
Una
volta su una pagina del mio diario scrissi:
“Le
persone sbagliano ed io sono una di queste persone. Ho sbagliato a fidarmi di
alcune persone, ho sbagliato ad amarne altre e tuttora sbaglio ad amarne. Le
persone non si smentiscono mai, ti giudicano dalle apparenze. Io ho sempre
detto che le persone che ti stanno vicino devi amarle, ora non solo non lo dico
più, ma nemmeno mi viene in mente un pensiero più scemo.
Tutti
sono dei bugiardi alla fine e nessuno ti dice mai la verità.
La
verità?!
È
lei stessa una bugia detta talmente bene che non ti accorgi neppure che è una
bugia.
Se
quello che la gente sa di me è solo apparenza e l’apparenza è la realtà
per loro, la realtà per conseguenza è verità. E visto che la verità è bugia,
anche la realtà lo è, come anche l’apparenza.
E
qualcosa che è bugia, non è forse irrealtà?
E
se non esistessero né bugia né verità, ma solo un’unica cosa chiamata
irrealtà?
Allora
nulla esisterebbe realmente e anche il mio dolore sarebbe irreale, forse
persino io stessa.
E
non c’è niente che mi fa più paura e mi da più conforto di questo.”
Non
persi mai il controllo della mia vita, in realtà ero più forte di quello che
credevo. E per tirarmici fuori senza danni enormi mi
aiutai con lo scrivere.
Sì,
perchè l’avrete capito già che le cose che sono scritte qui sono tutte
successe, sono vere e quando le ho scritte non mi ero resa di aver provato così
tanto dolore, visto che soffocavo tutto. Le ho rilette dopo aver buttato giù
tutto sul mio scassato computer che adoro tanto, e non pensavo che il mio cuore
si sarebbe aperto così facilmente e dolorosamente. Mi è costato tanto scrivere
le mie emozioni. Se adesso il mio cuore è aperto, non vuol dire però che sia
guarito.
Dubito
che adesso Enrico possa far qualcosa...
Ma
la colpa non è sua. È solo mia, che mi sono innamorata di lui senza nessun
motivo. L’amore più irrazionale che abbia mai provato.
E
sono contenta dopotutto perchè lui non saprà mai quanto l’abbia amato.
Anche perchè non saprebbe che farsene del mio amore.
Due
domande solo continuano a rimbalzare nella mia mente chiedendo attenzione:
Quando
potrò mettere la parola fine a tutto questo?
E,
soprattutto, chi sarà a metterla?