Disclaimer:
questi personaggi non mi appartengono, ma sono proprietà di
Masashi Kishimoto; questa storia è stata scritta senza
alcuno scopo di lucro.
Rifiuto
di una costrizione
La guerra era finita. A Konoha, tra le macerie degli edifici e i boschi
ridotti a zolle di terra incolta, rimaneva un alone di distruzione, una
macchia di sporco incancellabile. I giorni passavano, quattro o forse
cinque dal termine dello scontro, ma la puzza di rancido e il tanfo
della decomposizione non sfumavano. Il tatuaggio della sofferenza non
poteva essere lavato. Sasuke Uchiha sentiva l'odore del sangue nelle
narici. Riempiva i polmoni, circolava sulla pelle, trasmetteva ai
pensieri un senso di inquietudine ben noto. Era una sensazione che si
portava dentro dallo sterminio del clan: il tentennamento,
l'esitazione, quel gioco di “fare o non fare” che
aveva cercato di non ascoltare nel corso dell'adolescenza, stabilendo
di volta in volta le sue priorità, promettendosi di non
deviare dalla rotta dei propositi, fino a che non li avesse compiuti.
E ora che li aveva compiuti – perché sì
suo fratello era morto, e Danzo era morto, e Konoha era stata
distrutta, anche se non da lui– Sasuke fissava i cadaveri sul
campo di battaglia, seduto su quattro sassi di cemento che un tempo
erano stati una cinta muraria. Studiava i ninja della Foglia, li
guardava mentre si trascinavano per il campo. Li teneva in piedi la
consapevolezza che quei cadaveri mutilati, coperti da terriccio, sudore
e sangue, marci per il tocco della morte, erano stati un tempo i loro
compagni. Consapevolezza che ogni caduto – fratello, amico, o
solo conoscente – meritasse di essere premiato con una degna
sepoltura.
Sasuke non muoveva un dito. Il dilemma lo aveva paralizzato: fare o non
fare? Aiutare o non aiutare? Scappare o non scappare? Konoha o non
Konoha? Il gioco delle possibilità presentava una
novità che Sasuke non riusciva a digerire.
Un futuro incerto. Niente obiettivi. Niente vendetta. Niente nemici da
sterminare. Niente villaggi da distruggere. Il vuoto.
Diventare Hokage. A pensarci bene sembrava un proposito detto tanto per
dire. Non gli era mai importato di anima viva che non fosse suo
fratello. Prima per ucciderlo. Poi per vendicarlo. Per assurdo, Sasuke
non sapeva nemmeno se Itachi potesse essere considerato
“un'anima viva”. Una parte di lui, sin
dall'età di sette anni, aveva creduto che fosse morto in
quella casa, con i loro genitori; che fosse sopravvissuto senza vivere,
con il ricordo di una famiglia di scheletri, con la speranza che un
giorno lui, Sasuke Uchiha, il più caro dei suoi cari,
riuscisse a crearne una nuova.
Restaurare il clan. Questa sì che era una certezza, ma solo
perché di certezza si trattava non significava che Sasuke
non conoscesse le implicazioni. Konoha non apprezzava gli Uchiha.
Konoha aveva
sacrificato
un Uchiha. Nel villaggio regnava il germe della corruzione. Era una
città marcia fino al midollo: le fondamenta di ogni
edificio, di ogni istituzione, di ogni persona non erano blocchi di
cemento stabili, sicuri, ma assi di legno corrose dalla pioggia, da
fiumi di odio e ripicche. Dopo la guerra le travi si erano
assottigliate, stuzzicadenti sul punto di spezzarsi. Ecco cosa restava
delle fondamenta di Konoha, un filo tirato, accarezzato dalle lame di
una forbice, pronto a essere reciso.
«Perché non te ne vai allora?»
Una sola altra persona, in tutto quell'affanno di salvare, sotterrare,
pregare, piangere, cercare, ringraziare, se ne stava seduta sul muretto
di Konoha a rigirarsi i pollici.
«Non sono affari tuoi, Nara.»
Era da qualche anno che Sasuke mancava da Konoha e si vergognava ad
ammetterlo: il suo cervello non aveva rimosso i nomi degli altri
ninja.
«Non sei costretto a restare» gli disse.
E non aveva rimosso nemmeno i tratti peculiari del loro comportamento.
Così Sasuke si ricordava che Shikamaru Nara era pigro e
intelligente, e così Sasuke aveva avuto la conferma che il
corso delle stagioni e lo scorrere del sangue non avevano reso
Shikamaru Nara uno stupido.
«Non sono mai stato costretto a fare nulla nella mia
vita.»
Si pentì della risposta troppo educata, una sola frase che
ammetteva ciò che Sasuke non voleva ammettere, che Shikamaru
avesse colto il nocciolo della questione, centrato con una freccia di
cinque parole il bersaglio della realtà:
non sei costretto a restare.
Costrizione, dovere, obbligo, senso di lealtà verso Konoha,
verso i suoi abitanti, verso il ceto dirigente che aveva brindato alla
sua infelicità, al suo dolore.
«Fottuti. Vogliono incatenarmi» sussurrò
a se stesso.
Shikamaru al suo fianco teneva gli occhi chiusi e Sasuke
pensò si fosse addormentato. Un vantaggio per quanto lo
riguardava. Non cercava la compagnia di nessuno lui, voleva decidere in
autonomia, come aveva sempre fatto. Il suo nucleo familiare era
costituito da un unico individuo e quell'individuo era se stesso.
Motivo per cui non potevano esserci un Naruto, un Kakashi e tanto meno
una Sakura a corrompere le sue decisioni. Sasuke Uchiha rifiutava ogni
costrizione. Dagli sguardi taciti con cui la gente lo studiava, aveva
capito che cosa si aspettavano i superstiti di Konoha. Restare voleva
dire essere costretto a riconoscere Naruto un fratello, Kakashi un
padre e Sakura...
Restare voleva dire essere incatenato a un destino già
scritto e, per quanto potesse essere rassicurante rendere un futuro
incerto certo, restava un futuro deciso da altri. Stabilito a priori.
Non da lui. Per i cittadini di Konoha doveva accadere ciò
che era giusto.
Era giusto che Naruto non fallisse. Era giusto che mantenesse la sua
promessa. Era giusto che salvasse il suo migliore amico. Era giusto che
si sentisse degno di diventare Hokage.
Ed era giusto che Kakashi riavesse almeno questo
team. Era giusto
che potesse fingersi un padre. Era giusto che tornasse a dargli dei
consigli, pillole di saggezza, che Sasuke non poteva tollerare. Era
giusto che lo perseguitasse con l'odioso libretto arancione. Era giusto
che lo iniziasse al mondo delle “arti gentili” che
prima o poi ogni uomo deve conoscere.
E poi c'era Sakura. Sakura era la massima espiazione della colpa. Rendi
felice chi hai fatto soffrire. Dai a Naruto un fratello, dai a Kakashi
un figlio, dai a Sakura... un amico? Un compagno di squadra? Un amore?
Gli venne da ridere. C'era più amore in un sasso o in un
kunai di quanto se
ne potesse trovare nel suo cuore. In lui vigeva un talento naturale nel
quale non aveva rivali: ferire, uccidere, deludere. Con Sakura aveva
vinto il campionato, si era cimentato nella miglior prestazione da
“stronzo menefreghista”. Chiunque avesse tenuto un
minimo alla
kunoichi
avrebbe dovuto salvarla delle grinfie del vendicatore, dell'assassino,
del traditore. Eppure il villaggio parlava, raccontava, tesseva fiumi
di favole e di bugie, perché le favole non sono
verità, sono mera finzione, storielle inventate per
rassicurare gli infanti.
“E così la principessa sposò il
principe”, il motto preferito dalle vecchiette di Konoha,
dopo una settimana dalla fine della guerra era stato sostituito da
“E così la bella Sakura riottenne il suo Sasuke,
si sposarono e vissero per sempre felici e contenti”.
Il finale era scritto e Sasuke non possedeva una penna per cambiarlo.
“Konoha è pronta ad accettarmi” si
disse, “Ma per essere accettato, devo obbedire alla favola:
voler bene a Naruto, rispettare Kakashi, amare Sakura”.
Se per i primi due imperativi avrebbe potuto chiudere un occhio, Sasuke
sapeva di dover rifiutare l'ultima costrizione.
*
Sasuke non odiava Sakura. Le malelingue lo credevano. Solo per un
kunai puntato alla
gola e un colpo di
Chidori
tra l'altro mai andato a segno. “In amore e in guerra tutto
è lecito” replicavano le nonnine dal mondo delle
favole. “Alla fine non l'ha uccisa. L'amore trionfa su
tutto”. Una visione alquanto distorta della
realtà, ma comunque non era questo il punto.
Sasuke non odiava Sakura. In passato l'aveva trovata irritante, con i
capelli rosa e quella vocina sottile sottile e la malsana abitudine di
squittire ogni volta che lo incrociava. Ma del resto, a parte Hinata
Hyuuga, che per trovare interessante il
Dobe doveva avere
qualche problema mentale, quale altra ragazzina all'epoca non
balbettava in sua presenza?
Poi Sakura era cambiata, cresciuta, aveva fatto quel piccolo passo che
trasforma un'infatuazione in ammirazione, in affetto e alla fine in
amore. Perché Sasuke non dubitava della sincerità
di quei sentimenti, non li riteneva l'ultimo stratagemma, l'asso nella
manica, per impedire la sua partenza. Ci credeva, un po' ne andava
fiero, ma il tempo era passato anche per Sakura, e lui non sapeva dire
se dopo il passo d'affetto che si trasforma in amore ve ne fosse stato
un altro, verso un sentimento non definito: disinteresse? Astio?
Indifferenza?
Quando Sasuke aveva incontrato Sakura, a fine battaglia, nella tenda
dei medici, aveva appurato che l'affetto era rimasto. Per lui affetto
significava tenere a una persona, alla sua salute e alla sua
felicità, proteggerla, apprezzarla, al di là di
ogni errore e di ogni sbaglio, nel caso di Sasuke al di là
di ogni tradimento. Durante il loro incontro, che più che un
incontro potrebbe essere definito una visita medica, non c'era stato un
“bentornato”, o un pugno nel naso. Non c'era stato
nemmeno un sospiro che potesse essere interpretato come un
“Sasuke-kun”. Sakura lo aveva curato per poi
passargli una mela sbucciata, tagliata a fettine, con amore. No, con
affetto. Se ne era andata, lasciandolo solo, con il piatto sulle gambe
e la forchetta nel piatto. Assieme a quella insolita compagnia, un
piatto e una forchetta, Sasuke Uchiha aveva trovato due conferme: non
odiava Sakura e Sakura non odiava lui.
*
“E allora perché mi evita?” si chiese,
sistemandosi sul muretto.
«Non ti evita» disse Shikamaru.
Due punti non tornavano. Come potesse Shikamaru Nara comprendere i suoi
pensieri e soprattutto perché si ostinasse a perseguitarlo.
«Faccio quello che farebbe Ino se fosse ancora qui»
disse lui, leggendo ancora una volta i suoi dubbi. «Quello
che vorrebbe fare.»
A Sasuke non sfuggì la nota di dolore. Una piccola
inclinazione nella seconda frase tradiva sofferenza, nostalgia, colpa.
Si ricordava di Ino Yamanaka. Se la ricordava perché
ricordava Sakura e quelle due erano amiche. Ino Yamanaka. Bionda,
rumorosa e piena di sé. Sasuke si ricordava anche della sua
morte. E se ricordava la morte della bionda, rumorosa e piena di
sé e non quella di altri ninja, era solo perché
si ricordava Sakura in ginocchio, accanto a lei, con il chakra verde
che fluiva sul corpo dell'amica, con Shikamaru che si lasciava sfuggire
una lacrime solitaria e le sfiorava la spalla, mentre le diceva che era
inutile: nemmeno l'apprendista dell'Hokage poteva resuscitare i morti.
«Il mondo non ti ruota attorno» riprese a dire
Shikamaru. «I medici non trovano il tempo manco per
riposare.»
Continuava ad avere gli occhi chiusi e allora Sasuke capì
che non era per provare a dormire. Era per non vedere. Il sangue. Le
macerie. Gli ultimi cadaveri. Ino.
“Però è successo” si diceva
Sasuke. “E' successo davvero e ti senti in colpa, Nara.
Perché l'hai lasciata morire.”.
Suo malgrado, si trovò a pensare che fosse giusto, sentirsi
in colpa. In un
team di
tre persone, una squadra, per due maschi c'è una femmina.
Più delicata, più gentile, più
indifesa. Non debole. Semplicemente il corpo di un uomo è
più adatto a certe ostentazioni di forza, più
resistente. Shikamaru non aveva protetto Ino, a differenza di Sasuke
che quando era nel
team 7
aveva protetto Sakura, ne aveva fatto una priorità.
«Comunque mi evita» concluse lui.
Si alzò dal muretto e salutò con un cenno
Shikamaru, che non lo guardava per non affrontare l'orrore, la
distruzione, la morte. Avrebbe fatto due passi, in solitudine, cercato
di trovare tra le macerie il fiore della speranza, un suggerimento che
gli indicasse il futuro, la via da percorrere.
*
Trovò Sakura e si maledisse per averla trovata. Che fine
aveva fatto la sua intelligenza da prodigio? Se vai nel quartiere
medico, se cammini tra le tende dell'ospedale, le brande con i feriti,
le garze sporche, inutilizzabili, gettate al suolo, è ovvio
che trovi Sakura!
Sasuke l'aveva trovata in piedi, di schiena, appoggiata alla
staccionata che Shizune usava per stendere le lenzuola sporche, per
disinfettarle e prepararle a ospitare nuovi feriti. Sasuke la
trovò e sentì una morsa allo stomaco. Vedere
Sakura equivaleva a vedere i propri sbagli, equivaleva a sentire una
madre elencare gli errori di una vita, uno dopo l'altro. Tapparsi le
orecchie non serviva. Chiudere gli occhi, come faceva Shikamaru Nara,
non serviva.
“Non è vergogna” si disse Sasuke.
“Non è senso di colpa. Sarei in colpa se fosse
morta. Sarei in colpa se fossi stato al suo fianco e non l'avessi
salvata, ma sono stato al suo fianco. Ho combattuto contro Madara con
lei, con Konoha. L'ho salvata. Proprio come l'ha salvata
Naruto.”.
Ma più guardava Sakura, più i suoi pensieri gli
parevano un triste tentativo di auto-convincimento, una menzogna non
minore alle favole raccontate dalle nonnine. A proposito di favole, si
ricordò di una storiella che gli raccontava sua madre, di un
chiodo e di un legno.
“Quando ferisci una persona” gli aveva detto,
“conficchi un chiodo in lei, nella sua corteccia. Puoi
chiedere scusa, dire che ti dispiace. Lo fai togliendo il chiodo,
Sasuke, ma anche se nel legno non c'è più il
ferro, resta il buco ed è un buco che non si può
riempire porgendo delle scuse”.
Se ripensava al loro passato, suo e di Sakura, gli sembrava di vedere
nel corpo di lei, nella pelle lattea, morbida, una costellazione di
chiodi. Risaliva dai polpacci fino alle spalle, disegnava quadrati,
triangoli, figure che Sasuke avrebbe cercato di definire, se non gli
avesse dato fastidio guardare così a lungo. I chiodi le
bucavano le braccia, la testa, la schiena.
“Non girarti” la pregò Sasuke. Temeva
che avrebbe visto dei chiodi anche sul viso: sulle guance, sulla
fronte, al posto degli occhi. Aveva degli occhi verdi, Sakura. Davvero
troppo verdi. A Sasuke ricordavano il bosco attorno a Konoha, la
foresta dove il
team
7 aveva svolto le prime missioni. Erano così verdi che a
immaginarli poteva sentire l'odore stesso della foresta, il profumo
degli alberi. Sasuke non voleva che quegli occhi, così
verdi, diventassero dei chiodi, le fronde appassite di un albero morto.
Non voleva accettare quell'ondata di senso di colpa che lo stava
investendo, uno tsunami di rimorsi.
“Non sentirti in colpa” si disse.
“Perché dovresti? Forse non starai a Konoha. Non
sei costretto. Vattene e lascia che lei e Naruto si arrangino. Vattene
subito.”.
Si chiese però come sarebbe stato togliere un chiodo, uno
solo, non necessariamente tutti, da quell'albero di ciliegio, vedere
che effetto gli avrebbe fatto osservare il buco nella pelle di Sakura,
nella sua corteccia. Si ripeté che era solo un chiodo, che
male non poteva fare. Dopotutto sua madre gli aveva parlato del dolore
nel conficcare il chiodo, nel dargli un colpo secco con il martello,
non nel levarlo con la pinza.
Si avvicinò, consapevole che Sakura, allieva dell'Hokage,
s'era già accorta della sua presenza. Si mise accanto a lei,
poggiò i gomiti alla ringhiera e scelse di non fissarla.
Guardò invece la sigaretta che teneva tra le dita. Si perse
ad osservare la scia di fumo che scivolava tra le sue labbra,
volteggiando nel cielo, disperdendosi nel grigio di quel tardo
pomeriggio.
«Non lo sai che il fumo uccide?» le chiese.
Il Sasuke di dodici anni si sarebbe atteso un “Sasuke-kun, ti
preoccupi? Che carino!”, il tutto pronunciato da una Sakura
squittente, saltellante e rossa come i capelli di Gaara. Il Sasuke di
sedici anni, invece, si attendeva un secco “Che ti
importa?”, al massimo il silenzio di chi resta senza parole.
Sakura rise e lui abbracciò l'incomprensione. Non era una
risata di gioia o di divertimento, ma un singolo suono, isolato,
composto, amaro. Era il riso di chi si prende in giro da solo, di chi
si rinfaccia la propria idiozia, di chi è consapevole di un
proprio difetto ed è disposto a prenderne atto.
«Deve essere una mia abitudine allora» disse lei,
staccando le labbra dalla sigaretta. Non la spense, anzi, prese un
altro tiro. «Un vizio.»
Non fece in tempo a chiederle spiegazione. Tsunade venne a cercarla e
lui dovette sorbirsi uno sguardo di rimprovero. Per aver avvicinato la
sua allieva, per non averle dato i suoi spazi.
«Ci sono due pazienti che-»
«Arrivo» la interruppe Sakura. Gettò la
sigaretta e Sasuke rimase a guardare l'ultima scia di fumo uscire dal
mozzicone a terra, sfumare nel cielo, prossimo alla notte, fino a
sparire nel nulla. Sakura sparì assieme a lei.
*
Il giorno dopo Sasuke tornò alla ringhiera e
trovò Shizune, tutta presa a stendere lenzuola e a spruzzare
disinfettante. Se ne andò, senza dire niente.
*
Il giorno dopo Sasuke tornò alla ringhiera e non
trovò nessuno. Attese dieci minuti e quando il sole
calò si risedette sul muretto e osservò le
fondamenta di Konoha, in attesa che lo stuzzicadenti si spezzasse.
*
Il giorno dopo Sasuke tornò alla ringhiera e
trovò Hinata. Lei gli chiese se avesse visto Naruto, con un
po' di imbarazzo, ma anche con una sicurezza di cui lui non la credeva
capace. Non le rispose. Se ne andò.
*
Il giorno dopo Sasuke tornò alla ringhiera e
trovò Naruto, un Naruto stanco, spento, eppure speranzoso:
ce l'avrebbero fatta, Konoha si sarebbe messa in piedi, il
team 7 sarebbe
tornato, suo fratello non lo avrebbe tradito. Naruto non si
stupì di vederlo. Sorrise a trentadue denti.
«Aspettiamo Sakura-chan, insieme?» Bastò
il nome di lei a riaccendere sul viso del
Dobe quella luce
che un tempo possedeva. La speranza che avrebbero potuto farcela
divenne certezza.
Sasuke non gli rispose, perché non voleva dargli una
sicurezza che non aveva. Non voleva fare una promessa che non avrebbe
potuto rispettare. Sarebbe stato un nuovo chiodo in un altro albero e
la storia sarebbe andata avanti, sempre uguale. Così attese,
ascoltando ma non troppo le chiacchiere di Naruto, il suo geniale piano
di avere un nuovo
Ichiraku,
per poterci andare insieme, come ai vecchi tempi. Loro due e Sakura.
Sasuke non lo contraddisse, né lo assecondò.
Rimase a braccia incrociate alla ringhiera, ad aspettare Sakura. Sakura
non arrivò.
*
La rivide una settimana dopo, quando sul campo non c'erano
più cadaveri, solo le tracce di quelli che un tempo erano
stati uomini. Ancora il sangue. Sempre il sangue. E poi brandelli di
vesti, armi spezzate, targhette con lo stemma della Foglia imbrattate
dalla polvere. Sasuke bazzicava ancora per Konoha, calpestava i resti
di quelle fondamenta marce, lo stuzzicadenti pronto a spezzarsi, non a
diventare più forte. Bazzicare non era un verbo che Sasuke
utilizzava. Proveniva da Shikamaru, seduto al solito muretto, con gli
occhi un po' più aperti dell'ultima volta, curiosi, ma non
pronti a scoprire quel nuovo mondo. Senza Ino.
«Quanto a lungo bazzicherai da queste parti per capire che
non è una costrizione di nessuno, se non di te
stesso?» aveva detto.
Era una domanda troppo difficile e sicuramente una risposta l'avrebbe
meritata, ma Sasuke non la diede. Shikamaru stava dicendo, e non in
modo implicito, che era Sasuke Uchiha stesso a imporsi di diventare il
fratello di Naruto, il figlio di Kakashi e il qualcosa di Sakura ancora
da definire. Una teoria spiazzante.
Trovò Sakura e dove trovò Sakura trovò
anche la sigaretta. Alla ringhiera. Sembrava che una non potesse
esistere senza l'altra. Senza Sakura, la sigaretta non sarebbe stata
accesa, non avrebbe fumato di vita propria. Senza la sigaretta, Sakura
non si sarebbe tenuta in piedi, sarebbe crollata sotto i chiodi nella
sua corteccia che, ora Sasuke lo aveva capito, non erano stati piantati
tutti dal suo martello.
“Un po' sono miei, un po' della guerra” si disse.
Fu preso dalla voglia di chiederle dove fosse stata, ma lei che cosa
avrebbe detto? Sembrava che si divertisse a dargli risposte
enigmatiche, a non parlare, a lasciare che il silenzio creasse un muro,
ad ogni parola taciuta sempre più alto.
«Mi sembrava di averti detto che il fumo uccide»
ripeté.
Non gli scocciava il fatto che Sakura fumasse. Molte persone fumavano.
Sasuke aveva perfino visto Shikamaru Nara cercare un brandello di carta
tra le macerie, per farsi una sigaretta. Immaginava che aiutasse a
rilassare i nervi, a soffiare fuori, assieme al tabacco bruciato, la
rabbia, il rancore, la tristezza. Certo prendere a pugni qualcosa
sarebbe stato più salutare, ma non restava molto da
distruggere nei paraggi. Era un altro il punto che infastidiva Sasuke.
Lui aveva fatto notare un particolare a Sakura, cioè che il
fumo uccide, e Sakura, sebbene lo avesse sentito, aveva scelto di non
ascoltarlo. Si era accesa un'altra sigaretta e chissà quante
altre nei giorni in cui l'aveva evitato. La guardò gettare
il mozzicone a terra, spegnerlo con il tacco dello stivale. Ogni
singolo gesto senza voltarsi verso di lui, con il capo abbassato.
«E io ti ho già detto che deve essere una mia
abitudine, un vizio.»
Non rise e Sasuke non colse il senso di quell'affermazione che gli era
stata già fatta. Le sue parole erano di una chiarezza
imbattibile. Sakura le aveva scandite bene, una dopo l'altra, con
tranquillità, senza mangiarsi una vocale o una consonante.
Le aveva pronunciate con un'intonazione piatta, senza un accento
sbagliato o una “o” troppo aperta o troppo chiusa.
Le aveva pronunciate alla perfezione, come la miglior attrice di
teatro, eppure il loro significato non era per niente chiaro.
«Che vuol dire?» Pose una domanda, atteggiamento
che agli estranei sarebbe potuto sembrare fuori dal personaggio, ma
Sasuke in quel momento lo voleva davvero. Capire.
«Desiderare quel che uccide» rispose Sakura.
«Deve essere una mia abitudine, un vizio, un
difetto.»
“Desiderare quella sigaretta è come desiderare
me” pensò Sasuke. Si immaginò con il
kunai alla gola di
lei, la
katana
conficcata nel petto, il
Chidori
pronto a colpire il bersaglio. La sua amata madre gli aveva mentito e,
se non mentito, aveva omesso: togliere il chiodo dal legno faceva male
quanto metterlo. Sakura si era rivelata brava più di lui a
inchiodare ferite.
“Desiderare me uccide” si ridisse. Il grande Sasuke
Uchiha non era meglio di Shikamaru Nara, che aveva lasciato morire Ino
Yamanaka. Shikamaru non l'aveva salvata, ma non l'avrebbe uccisa. Lui,
al contrario, aveva protetto Sakura, ma non si era trattenuto
dall'annientarla.
«Non chiedere scusa» gli disse lei. «Non
a me.»
Donna malvagia. Spietata. Senza cuore. Naruto lo diceva che Sakura
sapeva far paura, che tirava pugni peggio di uomo. Lui stesso l'aveva
vista in azione, ma mai avrebbe pensato che le sue parole fossero
più mortali dei suoi pugni. Impedirgli di chiedere scusa
restava una mossa bassa, perché Sasuke aveva capito, merito
di sua madre, che domandare il perdono non guariva, non chiudeva il
buco lasciato dal chiodo, ma sapeva che rimaneva il primo passo per il
sentiero della redenzione. A Naruto e a Kakashi, per orgoglio, non
avrebbe mai chiesto scusa. Loro erano uomini e gli uomini hanno un
codice segreto, fatto di cazzotti e di insulti. Ma a Sakura aveva
creduto di poter dire “scusa”, proprio come in
passato a lei aveva potuto dire “grazie”.
«Non metterla sul personale» la sentì
dire. «Non ti capivo all'epoca, ma adesso è
diverso.»
Alzò lo sguardo da terra e lo portò lontano fino
alla linea dell'orizzonte, fino al sole che correva a nascondersi
dietro il campo di battaglia, tramontava, mimetizzava con le sue
sfumature rossastre il sangue nella terra. Fuggiva dalla luna, sua
eterna inseguitrice. Li condannava all'ombra. Sasuke pensò
ai cadaveri di Ino, Neji, Tenten e Shino. Capì che Sakura
capiva, almeno in parte. Sperava non lo facesse.
«Al tuo posto sono certa che l'avrei fatto anch'io»
continuò a dire lei.
Alla fine lo guardò. Sasuke studiò i suoi occhi.
Li ricordava verdi, verdissimi, troppo verdi. Verde foresta, verde
bosco, verde alberi. Alberi vivi. Quelli che vide, invece, erano occhi
spenti, di un verde tendente al grigio, al colore della cenere. Si
disse che era impossibile. Gli occhi di una persona non cambiano a
seconda delle emozioni. Si disse che non funzionava così. Si
ripeté che gli occhi di Sakura erano condannati ad essere
verdi e che quel velo di opacità che si trovava di fronte
era uno scherzo della luce, un effetto del sole scomparso dietro
l'orizzonte.
«Te l'avrei impedito» le disse. Suonava come una
promessa alla Naruto, e Sasuke se ne vergognò.
«A parole.» Sakura pareva determinata a vincere il
duello di sguardi, una competizione che era iniziata senza un
“via”, ma che Sasuke sentiva in ogni fibra del suo
corpo.
«A fatti» giurò lui. «A ruoli
invertiti, io te l'avrei impedito.»
«Mi stai accusando di non avere fatto lo stesso?»
E questa da dove l'aveva tirata fuori quella strana donna? Il grande
Sasuke Uchiha ammise di essere confuso. Non era sua intenzione giocare
al giudice e all'imputato e, anche avessero voluto fingere un processo,
sarebbe spettato a Sakura lanciare le accuse, a lui cercare delle prove
per sostenere la sua difesa. Prove introvabili. Gli venne in mente
un'unica frase da usare come risposta: “Qual è il
tuo problema, Sakura?”. Sapeva però che tale
domanda avrebbe portato fiumi di insulti e di parole, meritate, ci
mancherebbe, ma non era sicuro di essere pronto ad ascoltarle.
«Ti ho detto che ti capisco, Sasuke» lo
rassicurò lei. Perse la gara e staccò lo sguardo
per prima, lo riportò all'orizzonte, in cerca di nuovi
cadaveri tra le zolle e la polvere.
“Sei cresciuta troppo, Sakura”. La vide frugare
nella tasca e tirare fuori un'altra sigaretta.
«Capisco tutto. Quello che ti passa per la testa. Ti ho dato
il tuo spazio.»
“Mi hai evitato. Alla tua faccia, Nara. Avevo ragione
io”. La vide passare un fiammifero sulla ringhiera di legno,
accendere la sigaretta.
«E voglio dirti che devi sentirti libero di stare a Konoha.
Di fare quello che vuoi. Senza curarti di me, Naruto o Kakashi. A meno
che tu non lo voglia.»
“Lo fai sembrare come se voi tre foste la peste, la varicella
e il morbillo”. La vide prendere una boccata, liberare una
nuvoletta di fumo, grigia, come grigi stavano diventando i suoi occhi,
non più verdi.
«Non devi essere costretto» continuò a
dirgli.
“A fare cosa, Sakura?” le chiese in silenzio.
Più le parole uscivano dalla bocca di lei, assieme al fumo
della sigaretta, più gli sembrava di vedere strati di chiodi
spuntare sulle braccia, e più chiodi distingueva sulla
pelle, più sentiva le mani prudere, in cerca di un kunai o
di una pinza, di un qualsiasi attrezzo che gli permettesse di toglierli
tutti, non solo uno, come all'inizio aveva desiderato.
«A fare cosa, Sakura?» le chiese ad alta voce.
Lei prese un altro tiro, probabilmente chiedendosi se rispondere fosse
la cosa giusta oppure no. Pronunciò le parole con la
sigaretta sulle labbra. Questa volta il suono uscì confuso,
non scandito o contraddistinto da quella chiarezza imbattibile che era
tipica della nuova Sakura. Uscì schiacciato, con le vocali
appena abbozzate e le consonanti pronunciate a stento, tanto che un
orecchio non attento avrebbe percepito solo la “a
accentata” della seconda parola. Sasuke invece aveva sentito
e ascoltato e compreso. In tutta la sua vita, nulla aveva avuto
più significato di quelle due parole: “ad
amarmi”.
Accorciò la distanza tra di loro e sfiorò con il
braccio il gomito di lei. Non indietreggiò sotto la minaccia
dei suoi sguardi, due armi che potevano rivelarsi mortali, ma
portò le dita alle labbra e le accarezzò.
Rapì la sigaretta senza trovare resistenza.
“Ad amarmi” ripeté in silenzio. Gli
sembrò che gli occhi di Sakura ripetessero quella frase:
“Non devi essere costretto, Sasuke, ad amarmi”.
Sasuke, con decisione, gettò la sigaretta oltre la
ringhiera, la gettò dove era giusto che stesse. Sul campo di
battaglia, tra i morti, perché il fumo uccide, e lui e
Sakura avevano già pianto troppe morti. Lui e Sakura erano
vivi, in un modo o nell'altro, e Sasuke ora lo sapeva. Un giorno, a
Konoha, tra fondamenta che da stuzzicadenti sarebbero diventate travi e
da travi blocchi di cemento, stabili e indistruttibili, un giorno
sapeva che avrebbe imparato ad amarla. Davvero. Senza
costrizioni.
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Buona notte a tutti!
Ci sono momenti in cui si dovrebbe fare una cosa e invece non la si fa.
Nel mio caso dovrei
1) dormire;
2) riposare così da essere scattante domani mattina e
visitare la bellissima città di Brema, millimetro per
millimetro.
Ci sono però dei momenti in cui ti viene da scrivere
qualcosa e non puoi proprio farne a meno. E' la classica idea che non
si sa bene da dove nasca, né tanto meno dove
andrà a finire. Nel mio caso
1. l'idea so da dove è nata: dalle chiacchiere di un mio
compagno di viaggio che ha passato il tragitto a raccontare gli ultimi
capitoli di Naruto (lo fa in media una volta alla settimana,
ripetendosi) e da grandi discorsi di vita in una birreria tedesca;
2. tuttora non mi è chiaro cosa volessi dire e dove volessi
andare a parare.
Spero quindi che voi, miei cari lettori, riusciate a trovare un senso
in questa “cosa” che è venuta fuori e
che non vi risulti un delirio abbozzato a casaccio in fretta e furia
(ciò corrisponderebbe al vero. Forse sarebbe stato
più corretto rileggere domani mattina). -.-' Detto questo,
vi saluto e vi auguro la buona notte. E giuro di dormire,
così non sforno più cavolate!
Odiblue <3