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Ma quanto è santo
il venerdì sera? Grazie al cielo esiste il venerdì (che perle di saggezza che
lascio XD).
Capitolo Cinque
- Solitudine -
Si può morire di solitudine?
Se si scomparisse, se ci si potesse anche solo per un attimo dissolvere,
chiudere gli occhi e non pensare a niente e non ricordare nulla, tutto questo
potrebbe essere chiamato morte?
Aaron non lo sapeva. Guardava davanti a sé, dalla terrazza dell’ala Sud del
castello, con i suoi occhi che si perdevano in un azzurro terso.
Il cielo, così calmo di mattina, pareva dipinto con qualche pennellata qua e là
da un autore inesperto che macchia di bianco la tela. Le poche nuvole sembravano
sciogliersi nella brezza, e lui non poteva fare altro che guardarle ed
invidiarle.
Sospirò nel vano tentativo di sollevare dal cuore quel peso che ormai era così
radicato che sapeva esserne parte integrante.
Passò un uccello solitario che lui salutò con un gesto.
Tutto finito, in un attimo il cielo era di nuovo splendidamente e solamente
azzurro.
Si sedette su di una panchina in marmo e chiuse gli occhi, lasciando che i suoi
capelli venissero accarezzati dal vento. In lontananza poteva udire delle voci,
ma non riusciva a distinguere le parole. Sembravano un accavallarsi di suoni
che, anche loro portati dall’aria, scomparivano appena generati.
Anche loro, come tutto, se ne andavano, ma non lui, che rimaneva sempre in una
solitudine austera e assoluta.
Si può dunque morire di solitudine?
C’era un profondo senso di colpa in quella domanda, perché sapeva che offendeva
chi non c’era più. Pensò a suo fratello, al suo sorriso e ai loro giochi, agli
anni felici trascorsi insieme prima della loro malattia.
Nella sua memoria, Aaron divideva con meticolosa precisione la sua vita in due
parti: prima della malattia e dopo. Fra questi due periodi, poi, c’erano dei
giorni che non ricordava bene, che a volte pensava di aver scacciato e altre
volte invece riteneva solo di avere dimenticato.
In quei giorni aveva piovuto, di questo era sicuro.
Lui e suo fratello William avevano preso i cavalli nonostante il divieto del
padre e avevano galoppato a più non posso. Forse stavano gareggiando, Aaron non
lo ricordava. Né si ricordava esattamente il motivo per cui avessero disobbedito
agli ordini paterni, ma Aaron si ricordava però di aver detto qualcosa e di aver
persuaso il fratello più piccolo di qualche ora, a prendere il cavallo e
lanciarsi di corsa sui prati.
Come si era divertito, le goccioline d’acqua che gli picchiavano sui denti
mentre lui rideva! E anche William aveva riso, forse…
Tornati a casa, sgridati castigati, i due fratelli avevano iniziato a non
sentirsi bene. Un piccolo fastidio alla testa prima e la febbre poi…
Pioveva molto in quei giorni, Aaron era sicuro solo di questo.
Su quella panchina, quindici anni dopo, Aaron non riusciva ancora a ricordare
nient’altro…Oppure a dimenticare, non gli importava. Voleva solo che questo
sentimento di enorme colpa ed incredibile insicurezza gli fosse levato
dall’animo che invece, per tutta risposta, gli chiedeva se fosse giusto morire
e, finalmente arrendersi.
Le voci di quei giorni lontani erano confuse, la febbre gli aveva impedito di
stare vicino a suo fratello che gli dicevano indebolirsi sempre di più…
Su quella panchina, quindici anni dopo, Aaron poteva ancora sentire lo
scricchiolio della porta che s’apriva, la vecchia Dalia entrava con una candela
in mano ed un’aria greve in viso. Il piccolo Aaron era semi incosciente sul
letto, respirava affannosamente e non sentiva più le gambe.
“Cucciolo” gli aveva detto la balia “non riesci a muoverti neanche tu?” e con la
mano callosa e dolce gli aveva scostato i capelli zuppi di sudore dalla fronte
“come William, anche lui aveva smesso di muoversi”.
Quell’aveva era lì, chiaro ma incomprensibile. Aaron fece la più ingenua delle
domande:
“E ora?”
Sapeva già la risposta, perché il volto di Dalia e le parole della nutrice
gliel’avevano già data, ma aveva bisogno di sentirla “E’ morto poco fa”.
Questa frase segnò nel cuore di Aaron una fine: il suo animo di bambino di dieci
anni scomparve.
Si dice spesso che fra due gemelli c’è una connessione speciale, una particolare
empatia che solo loro possono capire. E Aaron non sentiva il fratello morto,
avrebbe giurato fosse di là, steso sul suo letto, malato come lui.
“Ma non è…” vero, avrebbe voluto concludere, ma il volto di Dalia non lasciò
invece spazio ad obiezioni.
La disperazione che provò fu però soppiantata quasi immediatamente da un altro
sentimento. Nell’istante in cui Dalia gli asciugava il corpo dal sudore e gli
faceva bere quell’infuso che non aveva salvato il fratello, Aaron si era
rasserenato: anche lui presto sarebbe morto. Pensare di separarsi così
bruscamente da una parte di sè è difficile e il piccolo Aaron riteneva
impossibile, che lui e suo fratello vivessero separati. La servitù spesso
confondeva l’uno per l’altro, loro padre non li distingueva, persino Aaron
stesso non avrebbe saputo tracciare bene il confine fra se stesso e William,
come poteva pensare che non sarebbe morto anche lui?
Si era quietato quindi e aveva chiuso gli occhi, sdraiato sul suo letto, forse
aveva sorriso leggermente: era solo questione di tempo.
E così aveva aspettato. Non sentiva più male, né aveva più freddo. Placidamente
si lasciava maneggiare dalle sapienti mani di Dalia e cullare dalle sue canzoni.
Non doveva avere fretta, quella nostalgia sarebbe scomparsa di lì a poco.
Ma il tempo passava, giorni interi senza nessun cambiamento.
E poi era arrivata la notte che aveva segnato l’inizio del “dopo”.
Adulto e ormai consapevole di quello che era successo, Aaron tremò ancora al
ricordo, sul balcone dell’ala Sud.
Quella notte era illuminata da un piccolo spicchio di luna che emanava luce
azzurrina. Il cielo era terso, ma brillavano poche stelle. La vecchia Dalia,
sfinita, s’era addormentata sulla sedia di fianco al letto di Aaron, il suo
volto appariva ancora più vecchio e stanco del solito, appoggiato su una spalla
e con la cuffietta dei capelli leggermente slacciata e pendente da un lato. Era
spossata, la vecchia nutrice, dalle lacrime piante per un bambino e dalle cure
date all’altro, nella speranza di non dover dire addio anche a lui.
Aaron, però stava bene, meglio dei giorni prima, e aveva tentato quindi di
mettersi a sedere. Era riuscito, con enorme fatica, perché non sentiva più le
gambe. Le aveva guardate, immobili, e aveva provato a muoverle, ma loro non
avevano obbedito.
La finestra s’era aperta di colpo e una folata d’aria tiepida era entrata nella
stanza, avvolgendola di un intenso odore di rosa. Aaron aveva guardato in
direzione della finestra, non aveva visto niente se non un leggero bagliore. La
brezza all’interno della stanza non si quietava, e ad un tratto aveva
accarezzato il viso del bambino. I suoi capelli biondi si erano sparpagliati al
vento, come se fossero mossi da una mano invisibile e poi aveva sentito un tocco
dolcissimo sulla nuca, un bacio di una tenerezza mai provata prima. Era stato
allora che Aaron aveva creduto di sentire la voce del fratello:
Ci rivedremo, ma non adesso, ora vivi, perché io vivrò con te.
E poi tutto d’improvviso era scomparso: il vento, la voce, il tocco del suo
collo e la luce sulla finestra. Era svanito tutto e Aaron, preso dal terrore, si
era coperto gli occhi con le lenzuola e si era rannicchiato il più possibile nel
letto, per quanto le sue gambe rimanessero immobili.
Il bambino si era svegliato tre giorni dopo, sfebbrato e guarito. Tre giorni di
cui Aaron non ricordava nulla, tanto che aveva pensato di essersi sognato tutto,
anche la voce di William.
Aveva guardato la finestra da cui era entrata la brezza e la voce di suo
fratello: era aperta, ma all’ esterno Aaron non sentiva nient’altro che il canto
degli uccelli mattutini. Solo allora aveva compreso che niente era stato un
sogno, perché gli era parso di sentire un “buongiorno” da uno di loro, un saluto
inframmezzato al canto. D’istinto si era portato la mano sulla nuca e aveva
sentito pulsare, laddove qualcuno l’aveva baciato. Si era sentito perso. Non
felice, non spaventato, solo perso e di nuovo si era accasciato sul letto.
Perché era stato risparmiato? Perché suo gemello, così identico a lui, era morto
e lui no?
“Vivrò con te” aveva detto William, perché? Non sarebbe forse stato meglio
andare via insieme?
Il piccolo Aaron voleva piangere, a dieci anni un’immensa solitudine aveva
conquistato il suo animo.
In che cosa William era diverso? Eppure ora, tutt’intorno a lui era cambiato, il
mondo in cui aveva vissuto e che aveva conosciuto era svanito.
Toccandosi la nuca, Aaron non aveva potuto fare altro che piangere.
Dalia non capendo perché il bambino fosse scoppiato in lacrime, s’era svegliata
di soprassalto. Scambiando il pianto per semplice tristezza, gli aveva detto:
“Piccolo mio, non rattristarti, William sarà sempre qui con noi”
Aaron era rabbrividito, perché sapeva che suo fratello non era scomparso, lo
sentiva ancora vivo. Scelto dal caso oppure da Dio, lui era stato abbandonato
sulla terra con le poche parole di William, completamente solo in un mondo che
ora gli parlava.
Perchè, si chiese quindi Aaron guardando ancora una volta il cielo terso di
fronte a lui, augurarsi di morire? Da quel giorno la sua percezione del mondo
era cambiata perchè sapeva che l’anima del fratello era viva. Forse quella
brezza dall’odore di rosa era davvero l’alito di Dio, ma di questo Aaron per
ora, non voleva occuparsi.
La solitudine di quel giorno quindici anni prima, era stata la sua più fedele
compagna da allora.
Sarebbe stato tutto più semplice se avesse potuto morire anche lui, William
forse avrebbe capito. Strinse i pugni e in un moto d’ira, colpì violentemente la
gamba malata. Non provò dolore, però, solo una lieve sensazione. Dal giorno
della sua malattia, la sua gamba era rimasta sopita. Dalia gli aveva detto che
era stato fortunato, perché avrebbe potuto imparare a camminare anche da zoppo.
Aaron aveva sempre pensato che quella sua gamba fosse così perché portava il
peso del suo cuore e di quello di William, ma non aveva cercato di spiegarlo
alla nutrice, che non avrebbe mai capito.
Si alzò a fatica dalla panchina gelida e raggiunse il parapetto in pietra. Prese
a muovere i piccoli sassolini grigi che vi erano sopra, senza un fine preciso,
solo per il piacere di sentirli fra le dita, e sospirò. Tutto quello che vedeva
e oltre, quei prati, quei boschi, le terre dei villaggi, tutto gli apparteneva.
La servitù lo riveriva e lo adorava, i paesani lo rispettavano e ammiravano.
Tutto quello era suo, perché ormai il padre non aveva più le forze per possedere
niente. Tuttavia questa opulenza non lo aveva mai reso felice. Sorrise e si
sentì un viziato. Se avesse osato dire qualcosa del genere a chi faceva un solo
pasto al giorno sarebbe stato accusato di arroganza e presunzione , lui però
avrebbe ceduto tutto quello anche solo per qualche momento senza la sua perenne
compagna: la solitudine . Per un’amicizia. Perché in fondo, quello che avrebbe
potuto sollevarlo ed allietargli l’animo era semplicemente questo. Ma nessuno
gli era veramente amico, delle mille persone intorno a lui, nessuno lo
considerava tale. Era il padrone, il figlio, il medico o il proprietario, ma mai
un eguale. La malattia di suo padre, poi, l’aveva obbligato a rimanere nelle sue
terre e a spostarsi raramente, molto meno di quanto avrebbe voluto.
L’essere un figlio devoto non gli pesava particolarmente, Aaron amava il padre
per quanto burbero e scontroso questo fosse. Però inevitabilmente, dopo la
partenza della sorella, andata in sposa a Suffolk, lui era rimasto nelle terre
dei Thurlow.
Sollevò le dita dal parapetto e le strofinò fra di loro per liberarsi dei
granelli che si erano appiccicati alla pelle. Li guardò ricadere sulla pietra e
saltare via, rotolare e allontanarsi. Gli sembrò un’immagine quanto mai adatta
alla malinconia di quel giorno.
“Avete dei possedimenti meravigliosi” La voce fece trasalire Aaron che, perso
nei suoi pensieri, non aveva sentito nessuno avvicinarsi.
“Mi dispiace, non volevo spaventarvi”
“Non vi preoccupate, ero solo soprappensiero” Sorrise a Nero non girando però lo
sguardo, spaventato dall’eventualità che dal suo viso trasparisse tutta la
fragilità di quel momento.
“Anche a detta dei muratori, la cura che avete per le vostre terre è rara.
Questo ha portato grande prosperità.” Sorrise “ho sentito più elogi in poche ore
oggi, di quanti sia solito sentirne in un anno”.
“Non date loro troppo peso, gli uomini spesso esagerano coi complimenti nei
confronti di coloro che danno loro da mangiare”
“Al contrario, direi io” Nero si avvicinò anche lui alla balaustra guardando un
punto non definito dell’orizzonte “E’ così facile per un padrone rovinare o
rendere piacevole la vita di un servo o di un lavoratore, che è proprio
l’opinione di questi che deve essere tenuta conto. Ho visto così tanti padroni
sfruttare il loro rango e la loro ricchezza a discapito di altri… Di certo,
nessuno aveva parole buone nei loro riguardi”. Nero fece una pausa, lasciando
che il vento gli scompigliasse leggermente i capelli e spostando lo sguardo su
Lord Aaron
“Inoltre, ho personalmente visto come vi siete presi cura di Forgia, quando per
voi non era altri che uno sconosciuto…”
A queste parole, anche il Lord staccò gli occhi dal cielo e si strinse nelle
spalle per schernirsi, imbarazzato.
“Non vi ringrazierò mai a sufficienza”
”Non è ancora guarito…”
“Lo so, ma senza le vostre cure sarebbe di sicuro già morto”.
Aaron annuì impercettibilmente “Gli siete molto legato, vero?”
“Lo sono, sì. Come a tutti i membri del mio gruppo, che ormai rappresentano la
mia famiglia”.
La famiglia pensò Aaron mentre i suoi occhi si velavano di malinconia.
Di nuovo cercò rifugio nell’orizzonte per paura di essere un libro aperto e che
la solitudine di quel giorno fosse troppo pesante per essere nascosta. Sentiva
il cuore battere nel petto, lentamente come se tutto fosse calmo e naturale, un
rumore ritmico e monotono. D’istinto vi mise una mano sopra, per accertarsi che
quel suono fosse suo. Lo era, solo e lento come tutto il resto, batteva non
ascoltato se non dal proprio padrone.
La famiglia era una parola vuota, parola che Aaron non poteva riempire con il
suo passato. William se l’era portata con sé, la sorella l’aveva stemperata
nell’apatia e suo padre non l’aveva mai voluta ascoltare. Forse prima dei suoi
dieci anni quella parola aveva avuto un senso, un bel significato che a volte
riscaldava l’animo di Aaron, ma che con sé portava anche l’aria gelida del
ricordo dei giorni in cui tutto era finito. E il tempo trascorso dopo quei
giorni, più lungo e più lento, sembrava nascondere e schiacciare i rimasugli di
ricordi felici che anzi, in giornate come quella, non lo lasciavano stare,
ritornavano e ritornavano ancora a ricordargli cosa non avrebbe mai più avuto.
“Non dovete cercare di nascondere il vostro stato d’animo” .
Aaron si girò di scatto verso il Nero. Che insolente! Come poteva un uomo
sconosciuto pronunciare una frase di sufficienza come quella appena detta? Con
che diritto un ospite si permetteva di essere così impertinente da schernirlo e
soprattutto, da non passare sotto silenzio di cui non sapeva né conosceva nulla!
Il padrone del castello lo guardò irritato, ma di colpo fastidio e rabbia si
dissolsero
Perché di solitudine si può morire.
Furono le parole che sentì subito dopo, intrise di malinconia. Non le aveva
pronunciate Nero, ma Lord Aaron le sentì ugualmente e, sbalordito, spalancò gli
occhi in cerca di un perché. Si guardarono, stupiti da un qualcosa mai detto ma
che toccò entrambi così profondamente che passarono minuti, probabilmente,
immobili e increduli. Una semplice frase non detta ma percepita aveva trapassato
la superficie di quel dialogo per approdare nel profondo dell’animo.
Chi aveva pronunciato quella frase? O forse l’avevano pensata? O non era mai
esistita? Non era insolenza, quella del Nero, né superficialità, tutt’altro,
perchè anche lui sapeva che di solitudine si può morire.
***
Stateira:
Che bellissimo! Sono felice che ti piaccia, davvero *_* /me offre una birra per
ricompensa ^_^ Se Cleto davvero avesse parlato, sarebbe stato molto poco
poetico, per me. Il falco comunica, ma pochi possono sentirlo. Per quanto
riguarda le donne del capitolo... eh eh anche se non riesco a creare
protagoniste avvincenti (perciò mi butto su uomini belli. Ma il mio è puro
interesse scientifico, sia chiaro XD), sono felice che le comparse siano
simpatiche. Un bacio
Michan_Valentine: Eh eh eh l'ombroso e il buono sono, in effetti, gli
stereotipi da cui sono partita. E' il primo impatto che i protagonisti
dovrebbero avere, e che poi vorrei cambiare (smontare, rifare, ricreare? Un po'
tutto ''^_^ Dici che è troppo?). Per quanto riguarda Aaron, uno scorcetto lo si
ha in questo capitolo, ma è un'infarinatura generale (la "torta" sarà chiara
quando sarà finita...oh cielo, che sia un pasticcere invece che una che
racconta-storie? °_°''' Cencio apprezzerebbe di certo XD). Mi piacciono tanto le
tue recensioni (sempre così dettagliate *hug*). Contentissima di risentirti. Un
baciotto (offro una birra anche a te? O te e biscotti?)
Sid1981:
Ciao! Grazie per la recensione. Dici che è scritta in modo insolito per una fic?
M'incuriosisci (del resto sono un'avida lettrice, ma da poco ho avuto il
"coraggio" di pubblicare le mille ed una storie scritte da me...No, non tutte
insieme, per carità, rischierei il ban dal sito XD). Un bacio
BiGI:
HAHAHA Cencio. Il ragazzo miete vittime *_* Mi ha molto divertito scriverne la
storia. Il nostro fanciullo imperverserà XD Bacibaci
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