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Victoria 1053
« Ma
perché lei che dì e notte fila,
non
gli avea tratta ancora la conocchia,
che
Cloto impone a ciascuno e compila… »
Divina
commedia, Purgatorio, Canto XXI
«Ringhiando al
cielo, anime randagie, angeli senza ali, divenuti uomini».
Il rumore metallico delle cesoie seguiva ritmicamente il dolce andare
della melodia, mentre lo stame della vita che sua sorella aveva filato
con tanta cura veniva freddamente reciso con il lento aprirsi e
chiudersi delle due lame argentate.
«Promesse
svanite, trascinate dai venti, che portano tempesta, ormai sono ricordi».
Atropo sorrise malignamente, soffiando sulla frangia bionda per
liberare la vista dai capelli troppo lunghi. Avrebbe dovuto tagliarli,
magari con quelle inutili forbici appese a una catena, messe
lì a penzolare tutto il giorno sopra la sua testa. Inutili,
stupide lame Fatae. Con un sospiro, la Moira inforcò la sua
arma e la fece scivolare lungo il sottile filo dorato che le si era
posato dinanzi.
«Lastrica di
veleno la tua strada migliore, inciampa volentieri in bocca alla serpe».
L’urlo dell’anima sopraggiunse senza lasciare al
filo il tempo di scomparire e la sala tremò, immersa nella
tetra oscurità dell’Ade. Eaco, il giudice, avrebbe
avuto da fare ancora per molto.
Il telefono sul tavolo a cui Atropo sedeva squillava di continuo, con
quel suo trillo metallico, pronto ad annunciare l’ora di
un’altra anima dopo che l’ultima vittima aveva
lasciato l’antro delle tre Moire.
«Prepara il
vestito della tua fine, devi essere pronto a rimanere senza sorrisi».
La ragazza si liberò delle cesoie. Quella canzone, quella
delle Anime Randagie, la cantava da tutta
l’eternità. Non ricordava di averne mai imparate
altre, durante i secoli che aveva passato al servizio della Morte. Le
sue sorelle filavano, annuivano, davano la vita e la coltivavano con
assiduità, con mani sapienti lasciate correre
sull’arcolaio di legno delle loro stanze.
A lei, invece, spettavano le cesoie. Le lame Fatae e
nient’altro. Nient’altro eccetto una canzone.
«Illudi le tue
speranze a rimanere vive, il demone si nasconde nel tuo buio
più bello».
Il vecchio telefono sul tavolo riprese a suonare. Senza indugiare,
Atropo afferrò la cornetta, portandola
all’orecchio con aspro cinismo.
«Lachesi», mormorò alla sorella
all’altro capo del filo. «D’accordo, ho
capito».
Abbandonò il ricevitore sul tavolo e si appese alla catena a
cui erano legate le forbici. La mano scivolò lungo il
metallo, arrivando a sfiorare l’impugnatura
dell’arma.
«Tra le dita
non ti resta che il tempo, polveroso carnefice delle tue bramosie».
Senza battere ciglio, si avvicinò allo strame della vita.
Trattenne il respiro e chiuse le lame, facendole stridere sulla poca
consistenza del filo dorato teso davanti ai suoi occhi.
* Ho trovato la poesia (i discorsi in corsivo) molto tempo fa,
girovagando su internet. Per quanto mi sia sforzata, però,
non sono riuscita a trovare la fonte. Se qualcuno sa chi è
l'autore di questo bellissimo scritto, me lo faccia sapere,
perché si merita una statua!
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