Harry e i suoi castelli di sabbia.
Harry
aveva sempre pensato che farsi castelli
in aria fosse la sua vocazione personale.
Insomma
non aveva altre qualità se non quella di cadere e
far cadere le cose, nessuna qualità se non quella che lo
faceva sentire un tanticchio
migliore ogni tanto.
Qualche
giorno, pensava ancora, si sarebbe fermato a
pattinare lungo il ponte più lungo della sua
città, avrebbe visto il ghiaccio
dei suoi pensieri sciogliersi e finalmente avrebbe potuto creare sabbia
da
ghiaggio e poi di nuovo ghiaccio da sabbia.
Avrebbe vissuto sotto quel ponte ormai fatto di aria, ormai fluttuante,
in una
mega casa ripiena di ciottoli, avrebbe dormito su un letto di paglia
marina e
poi sarebbe andato a pescare con i pesci, tra i pesci, dei pesci.
Insomma
sarebbe stato predatore sovrano dei predatori,
debole sovrano dei deboli.
Sarebbe
stato invitato una volta alla settimana a cena dalla regina
Elisabetta in persona e le avrebbe portato la sua cacciagione fresca,
certo
questo se solo avesse posseduto una bellissima canna da pesca magica.
Gli
stavano antipatiche le bacchette.
Troppo
mainstream, troppo finte, troppo usate.
Lui amava
il mare, portarsi dietro quel lungo uncino con
tanto di vermiciattolo ancora vivo che stramazzava sotto le sue dita
delicate,
per poi sedersi quieto, un libro tra le dita lunghe ed affusolate e la
vita
leggera cinta da un giubottino pesante e sempre rigorosamente dal
colore perla che si confondeva tra le pietre bianche su cui
l’asciugamano, rosa,
poggiava.
E
così, mentre leggeva volava con la fantasia, nei suoi
mondi, su quel ponte scivoloso, sotto quel ponte scivoloso, nella sua
casetta
di ciottolini bianchi, nella sua cameretta di alghe di mare, nei suoi
pensieri.
Harry era
sempre stato fatto per i sogni, per quelle ville
fatte di vita così piene il sabato sera, così
vuote il resto della settimana,
ma così vuote che le parole finivano per confondersi in un
eco infinito tra le
varie stanze.
Harry era
uno di quelli che alla sera andava a letto alle
nove e alla mattina di svegliava, pigrone, alle dodici, solo per
pranzare, perché
alla mezzanotte si sarebbe fermato al porto, con la sua canna da pesca
che il
sabato si distendeva davanti alla distesa marina, che in settimana era
semplicemente profuga di una cittadina lontana e desolata.
Non aveva
nome la sua città.
Gli
piaceva girarla al pomeriggio, con quella raccapricciante
lucina con la quale avrebbe illuminato la sua pesca dalla mezzanotte
all’una.
Beh,
sì, Harry era un tipo strambo, fatto di propri come e
propri perché, uno nato e vissuto a modo suo, che viveva da
solo già da quando
aveva solo quindici anni, mentre il nonno gli mandava le provvigioni
settimanali
e la nonna andava a fargli le pulizie alla domenica e poi, poi si
fermava a
chiacchierare con lui, ad osservarlo disegnare i pesci che tanto amava
e a
vederlo svanire giorno per giorno nel corpo, sempre più
magro, sempre più
trascurato.
Per Harry
non esisteva spazio.
Non
esisteva tempo e forse non esisteva neanche lui.
Mangiava
solo al mattino quando si alzava a mezzogiorno.
Mangiava
quattro pesci alla griglia ed un po’ di verdura
cotta al vapore che il nonno, grande cuoco, gli mandava già
cotta, poche volte
da cuocere.
Per il
resto, per il resto preferiva guardare quelle
meraviglie marine ergersi dalle rive e allora pensava che forse, se
avesse
avuto davvero una canna magica, li avrebbe fatti abitare in uno di quei
magnifici castelli di sabbia che tanto amava.
Il mare
sarebbe diventato aria, così che avrebbero potuto
respirare e gli uomini avrebbero dovuto usare una scala per andare a
pescar.
Il cielo
sarebbe divenuto così il pavimento che avrebbe fatto
a botte con la terra e tutti avrebbero potuto vedere e toccare le
nuvole da
vicino, parlare a tu per tu con le stelle e crogiolarsi nel loro brodo
di
giuggiole, non cantando ad un amore poi così lontano, ma
solo a pace e quiete
vicine.
Dialogare
col mondo
galattico per Harry non sarebbe mai stato così semplice come
nel momento in cui
il mare avrebbe preso il posto del cielo, ma sapeva in cuor suo che
sarebbe
servito uno shakerato fin troppo grande per creare un miscuglio simile
e allora
lasciava semplicemente il tutto al suo caldo inganno.
E si
perdeva nelle sue fantasie, giorno e notte, finchè alle
due, tornato a casa, si accasciava stanco sul letto.
E
sorrideva con quelle sue occhiaie umide che gli
costeggiavano la pelle chiara.
La sua
stanza, la osservava ogni sera, era un miscuglio del
suo mare.
Gli
piaceva fermarsi su quei piccoli dettagli, sul sapore
delle conchiglie, un piccolo pesce rosso imbalsamato sulla parete e
quelle
bretelle così poco da marinaio appese alla stampella sopra
la finestra.
Gli
piaceva soffermarsi poi sul piccolo modellino in legno
del castello di sabbia.
Sembrava
sabbia vera, eppure era solo misero e super curato
legno intagliato e dipinto a mano.
Lo aveva
intagliato suo nonno, lo aveva dipinto sua nonna.
A
quarant’anni di vita buttati davanti alla pesca notturna,
Harry Styles era sicuro che senza i suoi nonni non sarebbe stato nulla.
Una volta
l’anno si recavano insieme in montagna, in quel
paesino dal nome impronunciabile,sepolto lì tra quelle
montagne che non
sapevano poi così tanto dei suoi favolosi castelli come ne
sapeva il mare, ma
che erano candida neve, piste da sci e qualche ragazzina che gli si
avvicinava
di rado per parlare con lui.
Harry
Styles, però, faceva paura alle persone, nessuno
capiva la sua indole amorevole verso il mare, il suo intagliarsi di
spazi
infiniti in cui tuffare la sua fantasia, nessuno aveva capito quanto
fosse
importante vincere nella sua mente regalandogli un magnifico castello
di
sabbia.
Nessuno
capiva quel batticuore che gli saliva su per la gola
quando il cuore gli si fermava sull’immagine di un nuovo
gioiellino in sabbia,
con porte finestre che addirittura erano scorrevoli, con letti a
baldacchino i
cui fronzoli addirittura si muovevano, con gas di sabbia che riscaldava
davvero.
Solo un
giovane, nativo di quel paesino sconosciuto,
sembrava aver compreso quanto fosse bella e poco gelida la fantasia di
Harry Styles.
I capelli
gli ricadevano lisci sul volto.
Erano
castani e contornavano dei bellissimi oceani in cui il
piccolo, riccio, alto, dall’aria ancora di un ventenne,
Styles, si soffermava
ogni volta pensando magari di poterci costruire anche lì
qualcosa, ma quel
qualcosa non arrivava mai e non riusciva ad intagliare della sua sabbia
quegli
occhi soli che sembravano capirlo.
Gli occhi
di Louis Tomlinson sapevano così tanto di oceano
che forse sarebbero potuti cominciare a volare assieme ai pesci nella
mente di
Harry, eppure continuavano a rimanere ben radicati a terra.
Forse
erano quel ponte sul quale tanto avrebbe voluto
pattinare, un ponte che piano piano franava nel pensiero che la vita
invecchiava.
Un ponte
che si soffermava a volte sul ciglio di una strada ed
ammirava quello che l’uomo aveva costruito, creato,
distrutto,quello che
spostava.
Louis
Tomlinson era quell’oceano ghiacciato sul quale Harry
poteva pattinare indisturbato, ma nonostante tutto era chiuso da un
lucchetto e
sembrava essere impossibile penetrarlo ed entrarci dentro.
Louis
Tomlinson era come quella fortezza di legno che il
piccolo Harry teneva rintanata nella sua camera.
Aveva
maniglie in ottone come pensieri e piccoli gingilli in
oro alle orecchie, proprio come le finestre laccate della piccola
struttura.
Già,
Louis Tomlinson non poteva essere altri se non quello
che Harry Styles ricercava nel suo castello perfetto, eppure ancora non
ne
aveva la chiave.
Ricordava
la prima volta in cui lo aveva salutato con un
timido “ciao”.
Ogni
volta si soffermava sul mare in cui cominciava
inspiegabilmente a pescare e perdendosi, si perdeva anche la risposta
per poi
ritrovarsi con un subdolo “scusa, devo andare” tra
le mani e finire per
intrecciare i piedi timidi tra di loro, pensando di aver sbagliato,
come con gli
altri, ogni cosa.
Eppure
riusciva sempre ad incontrarlo e lui non lo evitava,
anzi.
Harry
ricordava ancora la prima volta in cui con un sorriso
lo aveva azzittito.
Quel
giorno aveva deciso di portare la sua canna da pesca a
prendere un po’ d’aria tra la neve.
I suoi
nonni erano al caldo nel focolaio della piccola
casetta che ormai da tempo avevano affittato per le vacanze di Natale e
l’aria
sembrava davvero pesante quella mattina, così tanto da far
pensare ad Harry che
prima o poi sarebbe caduta una valanga intera di neve sulla sua povera
testa.
Invece
l’unica cosa, proprio nel momento in cui stava per
rientrare, che gli era caduta addosso era Louis, con quel suo raggiante
campo
di ossa perfetto tra i denti e quell’abbagliante mare tra gli
occhi.
Quella
mattina il cielo era così cupo fuori, ma Harry era
sicuro che non avrebbe mai più visto qualcosa del genere
brillare.
E quello,
beh quello fu l’inizio dei giochi.
E
così, gli anni passavano e con loro passava anche
l'età, il desiderio, le rughe che si appiattivano sempre di
più sul volto e l'amore sempre sfuggito e mai incontrato.
Così
gli anni passavano ed Harry si soffermava sempre di più sui
suoi "ciao" lasciati a campare per aria ogni santissimo anno
nell'attesa che diventassero qualcosa di più definito e
nuovo.
Gli anni
passavano e anche le figure cominciavano a passare con esse.
Eppure
ci potevano essere quell'anno dopo e quell’anno
dopo ancora in cui, benché quelle ossa
cominciassero ormai a cadere a pezzi, Harry non la smetteva mai di
trovare comunque quel sorriso così
splendido.
Nell'arco
di tempo in cui aveva passato dai suoi appena quarant'anni, ai suoi
ormai assestati ottanta, infatti, non aveva mai smesso di sperare che
rimanesse sempre intatto e ancora e ancora e ancora, finchè
qualche pala non vi avrebbe scavato dentro il suo nome, il suo nome che
ne agognava il posto ancora e ancora.
Ed era
ormai arrivato ad ottant’anni, solo e senza i suoi
nonni.
Solo e
senza poter più pescare perché le braccia erano
deboli e la sua canna da pesca non riusciva a reggere il confronto
nemmeno con
un misero verme.
Erano
passati tanti anni, eppure l’unica cosa che non era
cambiata era la voglia di Harry Styles di vivere in un castello di
sabbia che fluttuava
nell’aria.
E forse
finalmente c’era riuscito.
Certo non
era da tutti dare il primo bacio ad ottant’anni,
ma in quel momento, nel momento in cui per l’ennesima volta
gli disse “ciao”,
Louis lo vide illuminarsi e finalmente la chiave per il suo castello
aprì il
lucchetto tanto agognato.
Harry
aveva sempre pensato che farsi castelli
in aria fosse la sua vocazione personale
ed ora con quella sedia a dondolo che si muoveva tra le costole,
pungendole,
forse aveva capito quanto avesse agognato e vissuto a pieno con i suoi
castelli
di sabbia.
Harry
aveva sempre pensato che farsi castelli in aria fosse
la sua vera vocazione personale, così, quando chiuse gli
occhi quella
mattina,una lacrima gli scivolò il viso, mentre volava per
quel suo immenso e
amato mare.
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Buona
sera ragazzi.
Ho
scritto questa os tutta di un fiato in un pomeriggio intero.
Spero
possa piacere a qualcuno e che possa darmi la sua opinione al
riguardo o, in caso contrario, non piacere e dirmi cosa ci sia che non
vada ( tipo il testo incomprensibile e cose del genere),
così che io possa migliorarmi, perchè ne ho
davvero tanta voglia.
Vi voglio
bene.
Un
bacione.
Vostra Cilyan.
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