Disclaimer: Elian e Sarasvathi sono miei e miei
soltanto. L’Otello, ahimè!, è di quel geniaccio di Shakespeare, ma sto lottando
per avere i diritti.
Credits: Alcuni
per il peccato s'innalzano e alcuni cadono per la virtù. (William Shakespeare)
Note dell'Autore: fanfiction prima classificata al concorso “Peccato”
indetto da Akane, che ringrazio tanto per avermi dato la spinta a scrivere
questa fanfiction e per la splendida recensione.
Oltre che per il tesserino meraviglioso ù_ù
Ora
vi lascio alla storia.
Un
ultimo grazie a Kei_saiyu che si è subita le mie paranoie sull’attinenza al
contest di questa fanfiction e, soprattutto, continua a sopportare le mie
uscite assurde (e idolatre XD), su Sarasvathi.
Ci
si può innamorare di un proprio personaggio?
«I messaggeri
caduti dal cielo continuano a chiedere agli uomini di ricordare questa rivolta
contro Dio, rinnovando l’esecuzione del brano del diavolo che celebra quel
tradimento.»
[Yoko Matsushita;
Yami no Matsuei]
La musica si diffonde dalla cima della cattedrale, in un
tortuoso ritornello di note cupe e penetranti che ora innalzano, ora
avviliscono l’animo degli abitanti del quartiere.
È nata una leggenda attorno al misterioso violinista
notturno: chi sostiene sia un artista fallito, chi un vagabondo solitario; chi
ritiene che la melodia sia talmente bella e malinconica da far pensare al
lamento di un angelo.
A tratti, muta.
Si fa dura. Agonizzante. Furiosa.
La sofferenza cresce, evocando nelle menti degli ignari
ascoltatori tutte le pene che paiono straziare il cuore del musicista.
La litania si ripete incessante ogni notte, tanto che è
entrata a far parte del piccolo mondo del quartiere che circonda la cattedrale
gotica, le cui guglie disegnano ombre confuse sulla pavimentazione della piazza
principale.
Tuttavia, è da un po’ di tempo che la musica - all’incirca a
metà nottata - si interrompe. A volte per dieci minuti, a volte per ore; a
volte riprende solo al mattino, più dolce e gioiosa che mai.
Elian ne conosce il motivo. E se ne strugge.
Elian, eterea figura dai boccoli rossi e grandi occhi d’oro.
Elian, che ogni sera si spoglia dell’impalpabile veste
bianca, sostituendola con pesanti abiti in lino.
Elian, che sale ogni notte sulla guglia più alta della
cattedrale, senza ricordarsi da quanto quella visita ha smesso di essere uno
spiacevole dovere imposto da Raffaele.
Si reca al centro della spirale musicale. Si fissa attorno.
Lo vede.
Depone le ali e si gode la notte, solo per pentirsene il
mattino seguente quando, libero dall’incantesimo delle note del violino, si
rammenta di essere un angelo.
«Sei qui anche stasera, Elian? A quanto pare Dio deve essere
diventato cieco, se non vede nulla.»
Beffarde parole scortano la musica che, all’arrivo di Elian
– quasi ad accompagnare la sua presenza – si fa più delicata.
L’angelo dirotta la propria attenzione sulla figura del
violinista.
Piccolo e sottile; sembra navigare nella camicia rosso
sangue, che lascia intravedere il torace efebico, e nei neri pantaloni da
concerto; i lineamenti affilati sono sottolineati dai riccioli scuri che
ricadono attorno al volto.
Ha la pelle candida, quasi trasparente. Ogni volta, Elian si
illude di poter scorgere le vene bluastre sotto quella sottile epidermide e,
ogni notte, si sbaglia, facendo sogghignare la creatura.
«Dio sa tutto.»
Risponde all’affermazione precedente con la sua voce da
contralto, cercando di ignorare le labbra sottili e ghignanti del violinista.
«Il che equivale a non sapere niente.»
Cinico fino alla nausea, Elian lo conosce e sa –
tragicamente sa – che non vale la pena discutere con lui.
Eppure, risponde. Sempre.
«Perché affermi queste cose?»
«Per lo stesso motivo per cui tu non lo fai.»
Abile dialettico; abile con le parole.
Una sera di non molto tempo prima, Elian aveva constatato
che sapeva usare bene la lingua.
La replica del violinista era stata un malizioso:
«Non solo per parlare.»
E aveva passato voluttuosamente la lingua rosa sulle labbra
esili e carminie.
Elian, ancora una volta, si morde il labbro carnoso; studia
la creatura, specie il volto.
Il mento lievemente pronunciato poggia sul violino e le dita
sottili fanno danzare corde e archetto.
È sensuale, nel suo movimento ritmico; o, forse, un umano lo
avrebbe trovato tale.
Elian non sa che dire. Non sa se è bello o brutto; non
riesce neanche a capire se è maschio o femmina: il torace è piatto, ma i
pantaloni aderenti non mostrano forme ambigue.
In fondo, sa benissimo che non è nessuno dei due, in realtà.
È come sé: sono niente e possono essere tutto. Come dev’essere.
Tra loro c’è il tacito accordo di usare il maschile; eppure
ci sono delle serate in cui il violinista pare una donna, altre in cui è
palesemente un uomo.
È cangiante; volubile. Come la sua musica che ora si spande
ironica per la città.
Elian lo odia per questo.
Perché è mutevole; perché è beffardo; perché sa farsi odiare
e un angelo non dovrebbe farlo.
Ma Elian, piccola bambola dagli occhi d’oro, lo fa. E lo
odia talmente forte da amarlo.
E non dovrebbe fare neanche questo.
«Vieni qua, Elian.»
Il diavolo gli sorride, chiaro invito ad avvicinarsi. Elian
scruta per un attimo i magnetici occhi scuri, prima di obbedire.
Sa che alla luce non sono poi così neri, ma screziati
di sanguigno.
E anche la mutabilità delle sue iridi lo infastidisce,
perché quegli occhi sono così belli in confronto alla sua dorata staticità.
«Canta per me, Elian.»
Chiede il diavolo.
Elian getta indietro i boccoli rossi; inspira a fondo e
canta.
Il violino, tace.
Elian non ha mai capito perché al diavolo piace tanto
sentirlo cantare.
In fondo, la sua voce non è al livello di quella di un
Serafino o di un Cherubino. Anzi, non raggiunge neanche le trillanti tonalità
degli Arcangeli.
È semplicemente una voce. Bella, certo, ma normale.
Eppure, quando canta, Elian dimentica tutto. Si sente pieno
d’amore e di vitalità. Canta ed è felice. Canta e chiama quel Dio a cui il suo
cuore è devoto e che continua ad invocare incessantemente.
Sempre. E si sente libero, come solo un angelo può sentirsi
quando è consapevole di partecipare alla sinfonia d’Amore voluta dal Signore.
Le note vibranti che escono dalla sua gola riescono a far tacere
il violino.
Il diavolo si fa da parte; depone lo strumento e ascolta,
sognando un passato lontano di cui non conserva ricordo tangibile.
«Canti bene.»
Afferma al termine di ogni esibizione. Elian sorride e
arrossisce, umilmente.
«Canto nei limiti delle mie capacità.»
«Non essere umile. L’umiltà è la peggior superbia, non lo
sai?»
Rimprovera il violinista. E la magia è spezzata.
Il diavolo riprende il violino e ora la musica è furibonda;
struggente; cattiva. Mira ad offendere ed Elian la percepisce come una
bestemmia.
In effetti è così. E l’angelo lo sa. Sa che è un mezzo del
diavolo per offendere Dio, ma allo stesso tempo la melodia è così triste che
non riesce a rimproverarlo.
È un lamento, e come tale non può essere interrotto.
Sarebbe un peccato impedire ad una creatura tormentata il
proprio sfogo. Eppure ad Elian non sembra sofferente, né tantomeno angosciante.
È semplicemente un urlo. Un lento e prolungato grido che
spande la propria eco per tutta la città.
Lo inquieta.
L’angelo è spaventato e attratto da quel suono. Vorrebbe
confortare il diavolo, ma non sa come fare. Vorrebbe urlargli di smetterla, ma
le parole gli muoiono in gola.
Può solo ascoltare, Elian. Ascoltare e ammutolire di fronte
alla potenza di quella musica generata, non dall’amorevole vibrazione delle
corde vocali, bensì dal gretto legno di uno strumento umano.
Alla fine, trova il coraggio di parlare; vano tentativo di
far cessare quell’offesa non verbale a Dio.
Ad una creatura dannata non dovrebbero essere concessi suoni
tanto belli.
«Smettila, Sarasvathi! Smettila!»
Urla. Il diavolo ride; sguaiatamente ride e risponde.
«Non nominare il mio nome invano, Elian!»
«Il tuo nome… tu non sei degno di un nome, demonio!»
Il violino abbassa i toni. Gli occhi scuri del diavolo si
portano sull’angelo.
Lo scruta.
Elian si sente penetrato da quello sguardo serio e
sprezzante.
Sarasvathi è triste. Lo ha offeso.
«Dio disse ad Adamo di dare un nome ad ogni creatura
dell’Eden. I suoi discendenti mi hanno dato un nome e, in quanto possessore di
questo, io esisto nella sua funzione e di esso sono degno.»
La voce è bassa, come la musica.
È un sussurro, ed Elian lo percepisce a malapena, in quanto
coperto dalle note.
Però ricorda quella melodia, così come la prima delle tante
domande poste al diavolo.
«Chi sei?»
«Mi hanno dato molti nomi. Sono stato chiamato Hathor
dagli egizi; ho indossato le vesti dorate di Apollo per i romani e i panni
della musa per i greci. Sono l’aspirazione di ogni essere umano. Vogliono
assomigliare all’Altissimo, ma non vi riescono e possono raggiungere soltanto
me. Sono il desiderio; sono l’appagamento… sono tutto ciò che si ambisce e il
suo contrario. Sono tutto e niente, ma tu puoi chiamarmi Sarasvathi.»
«Come mai Sarasvathi?»
«È il nome che più mi aggrada tra quelli che mi sono
stati dati. Ma puoi abbreviarlo in Sara.»
«Mai sentito di un diavolo che si chiama Sara.»
«Sarasvathi è troppo lungo da pronunciare.»
Era così che tutto aveva avuto inizio.
Era così che tutto sarebbe continuato.
Elian arrivava. Sarasvathi suonava.
Elian cantava. Sarasvathi ascoltava.
Elian faceva domande. Sarasvathi rispondeva.
Elian lo ammirava col candore di un angelo. Sarasvathi lo
uccideva con la sua presenza ingannatrice.
E di questo, rideva.
Dell’angelo; della sua ingenuità; della sua confusione.
Rideva. Con la bocca, con gli occhi, col suo violino.
Sarasvathi rispondeva – gentile e sibillino – alle domande
e, nel frattempo, lo distruggeva.
«Perché suoni?»
«Tu perché canti?»
«Per partecipare all’armonia divina; per esprimere la mia
gioia e per parlare con Lui.»
«All’Inferno si viene privati della voce. Ogni suono che
produciamo è stonato. Il nostro canto è il verso stridulo della cornacchia, ma
privo della naturale armonia di questa. Abbiamo costruito il violino per poter
cantare ancora.»
«A che scopo?»
«Perché Lui ci senta. Le nostre note, forse, non arrivano
fino al cielo, ma vivono negli uomini. Saranno loro a portare a Dio il nostro
pianto, affinché non si dimentichi mai dei Suoi figli Rinnegati.»
«E se il violino si rompe?»
«Allora lo ripareremo una volta, ed un’altra ancora. Le
nostre lacrime non andranno perdute, ma rammenteranno sempre a Dio il suo più
grande fallimento: noi.»
«Dio non vi sente.»
«L’uomo sì.»
Elian fissò il violino con i suoi occhi dorati.
Adesso la melodia era triste e malinconica. Proprio come
l’umore del diavolo.
L’angelo gli si avvicina. Sale sul cornicione e gli siede
accanto.
Qualche nota più allegra esce dal violino, mentre Elian, con
le sue belle labbra, pronuncia un sentito:
«Mi dispiace.»
«Sei pieno di rabbia, Elian.»
«E tu di dolore.»
«La rabbia non è angelica.»
«Esiste l’ira santa.»
«Che differisce dall’ira normale solo per il nome.»
Sarasvathi sorride di fronte all’espressione imbronciata di
Elian.
Quando è irritato, l’angelo tira in fuori il labbro
inferiore, lasciandolo lievemente sporgere.
Effettivamente, lo ha già di natura sporgente e, per il
diavolo, quel piccolo difetto di fabbrica lo rende solo più bello.
L’imperfetto, in fondo, esiste solo per far risaltare ciò
che non lo è.
Come la virtù sussiste solo in funzione del peccato stesso,
né può esimersi da esso per uscirne più pura e innocente che mai.
Elian sa di essere arrabbiato. Ne è pienamente cosciente e
sa, anche, che tutto ciò è sbagliato.
Così cerca un motivo per la propria rabbia. Lo cerca e non
lo trova, se non in ipocrite giustificazioni mandate a memoria dal giorno della
Creazione.
Sarasvathi è un diavolo.
Il diavolo è il Male.
Dio odia il Male.
Gli angeli devono odiare il diavolo.
Elian deve odiare Sarasvathi.
Semplice come bere un bicchier d’acqua, anche se l’angelo
non ha mai gustato il liquido refrigerante che Dio ha concesso agli umani.
Elian, quindi, si perdona per quest’odio cieco.
Bonariamente, si da l’assoluzione per il sentimento corrotto che alberga in
lui.
Perché non lo sopporta, perché lo vorrebbe uccidere, perché
la sua musica è talmente bella da far male.
Perché non è giusto che un essere corrotto crei melodie cosi
belle.
Perché è così, e così deve restare.
Lui è il Bene, l’altro il Male.
Lui è il Bianco, l’altro il Nero.
Lui è l’Immutabile, l’altro la Variazione.
E ciò che muta costantemente, che fa della propria vita una
continua danza orgiastica irretendo gli uomini, corrompendo le anime e
alterando le percezioni con la propria lingua sottile, non può essere buono.
«Sarasvathi non ti si addice come nome.»
Commenta, riflettendo sulla divinità della musica indiana,
di cui il diavolo prende in prestito il nome.
Sarasvathi si ferma; lo scruta; indi sorride e riprende a
suonare.
«Allora come mi chiamo, Elian?»
«Jago.»
Risponde; gli occhi dorati improvvisamente seri.
Sarasvathi non smette di sorridere.
«Jago: “Io non sono quello che sembro.”… – riflette.
– Sì, mi si addice. Ma, se io sono Jago, tu sei Otello, piccolo angelo.»
«Perché dovrei?»
«Perché sei mio contrario e mio simile; perché “Servendo
lui servo me stesso”; perché siamo figli della stessa mano Creatrice da cui
tu prendi ordini e, “Dio m’è testimone che non lo faccio per amore o per
dovere ma per un mio scopo particolare.”. – respiro. Note. Movimento. Elian
lo guarda e ne è ammaliato. – Perché tu sei Elian. E io anche.»
«Non ti capisco.»
«Sarebbe strano il contrario.»
Elian si irrita. Scuote il capo. I boccoli ondeggiano.
Respira a fondo e si calma, facendo appello alla sua
presunta pazienza angelica. Come sempre, d’altronde.
«Spiegati.»
«Sono le facce di una stessa medaglia. Otello è passione;
Jago è freddezza. Otello è azione; Jago è parola. Non sussistono senza l’altro
e, come Jago confonde Otello con le proprie parole – e non riuscirebbe mai nel
suo intento, se il Moro non fosse disponibile a lasciarsi trarre in inganno. -,
io attiro te con la mia musica da cui tu sei ben disposto a lasciarti
accalappiare.»
Parole e altre parole. Niente di nuovo.
Un inganno sopra l’altro eppure, proprio perché rivestito
dell’innocua apparenza della trappola conosciuta e, quindi, facile da evitare,
ancora più temibile.
«Io non sono come te.»
Elian/Otello è agitato. Sarasvathi/Jago lo sa e se ne
compiace.
«Allora perché sei ancora qui, Elian?»
Preso in fallo.
Il bel volto dai lineamenti femminei si trasmuta in una
maschera addolorata; Elian si irrita, si infuria e se ne va, chiedendo perdono
con la coscienza che, la notte seguente, sarà di nuovo lì a sentirlo suonare.
La musica continua;
la sinfonia di un parodico canto angelico non si ferma. Non tace.
È il diavolo che
innalza il proprio lamento ad un Dio incapace di ascoltarlo