Capitolo
2 – IL SERVITORE DEL CUSTODE
«Ancora tu!» sbraitò la capocuoca, osservando con occhio critico il
ragazzino ossuto fermo davanti a lei.
Erano nell’anticamera che dava alle animate cucine della villa.
«Sei incorreggibile Angelo! Ogni volta che il signore organizza
qualche convivio, tu te la svigni come un ladro!»
«Io…» prima di riuscire a parlare, la fantesca che lo aveva scoperto
gli rifilò uno scapaccione dietro la testa.
«Zitto! Non parlare se non sei interrogato!»
Il fanciullo, che non doveva avere più di tredici anni ma che a causa
della magrezza ne dimostrava molti di meno, si azzittì, chinando di più il
capo.
La capocuoca, dall’aspetto grosso e rubicondo, si piantò le mani sui
fianchi: «Non sei stato accettato qui per passare il tempo a far nulla!
Guardati! Invece di ringraziare il signore che ti ha accolto qui con
benevolenza malgrado fossi solo un orfanello lasciato allo spedale degli innocenti, non fai nulla! Sei solo un ingrato!»
Il ragazzino storse la bocca in una smorfia muta.
«Che c’è ora? Parla, avanti!»
sbuffò la rotonda donnetta, battendo un piede per terra.
Angelo alzò il viso, acceso dallo sdegno, e disse: «Io volevo solo
ascoltare la poesia!»
La cameriera dietro di lui rise: «Poesia! E che se ne fa un insettino
come te di ascoltar poesia?! Non sai che la poesia è per animi nobili?! E’ mica
per gente come noi!»
L’espressione del tredicenne
s’incupì ancora di più, mentre la fantesca continuava la sua predica su quello
che poteva e non poteva fare un servitore.
La capocuoca, nel mentre, studiò la figuretta davanti a lei.
Angelo, chiuso in una casacchetta logora, taceva.
Era davvero un bambino ostinato. Né la penitenza del digiuno, né la
frusta, né la solitudine sapevano togliergli dalla testa quest’idea di non
lavorare per seguire i convivi del loro signore, messer Lorenzo de Medici.
D’improvviso le venne un’idea e sorrise. Si chinò un poco verso
l’altezza del bambino. La sua pancia rotonda sporse verso il basso. «So io cosa
fare di te! Visto che ci tieni così tanto a seguire la poesia e i libri, ti
manderò dal nuovo custode che ha assunto ser Lorenzo per il suo palazzo dei
libri a Firenze!»
Angelo sgranò i grandi occhietti verdi dalla sorpresa. Lo avrebbero
mandato a lavorare alla biblioteca di ser Lorenzo?! Era una notizia… Bellissima!
«Da ser Goffredo de Belardi?!» esclamò la fantesca con una curiosa
voce allarmata.
Fissò Angelo, poi di nuovo la cuoca.
«Sei sicura?»
Le due donne si tirarono in disparte, confabulando in modo vistoso. Lo
ignorarono.
Quindi la cuoca decretò: «E’ deciso! Domani andrai a Firenze con gli
altri servitori. Stasera parlerò con il capo della servitù, e per domani tutto
sarà pronto!»
***
Angelo non sapeva se sorridere o piangere al lasciare quella bella
villa immersa nel verde della campagna toscana.
Da quando era piccolo non aveva visto altro che lo spedale degli
innocenti, dove era stato abbandonato, e poi la villa.
In fasce era stato abbandonato davanti all’ospedale fatto costruire
dai mercanti della seta, poi più nessuno era venuto a reclamarlo. Era stato
dimenticato. Così i buoni frati che lo avevano cresciuto, lo avevano fatto
diventare un servitore. Un mestiere qualunque, per poter sopravvivere anche da
solo. Così era finito in quella villa, e adesso se ne stava seduto in un angolo
di quel carretto saltellante, con le gambe sottili che penzolavano all’infuori.
Guardando davanti a sé, seduto con le altre decine di servitori,
poteva vedere la bella villa allontanarsi lentamente; e più avanti, dietro le
sue spalle, una lunga strada dissestata che si perdeva tra i colli, e che lo
conduceva a Firenze.
***
Un servitore di nome Bruno fece scendere Angelo dal carro, poco
lontano dal Duomo di Firenze, con la sua immensa cupola sospesa sopra al cielo.
Lo condusse lungo la via straripante di gente, costringendolo a seguire il suo
lungo passo deciso. Il ragazzino scansava a fatica la gente che si affollava
nelle strade.
In ogni angolo c’erano botteghe e mercanti che urlavano e mostravano
la loro mercanzia.
Ricordava vagamente la città di Firenze come un luogo caotico ma, non
lo rammentava così pullulante di vita!
Quanto era cambiata la sua Firenze!
Seguendo il cameriere, Angelo girò in piazza san Lorenzo, e poi entrò
in un piccolo vicolo laterale della chiesa dalla facciata semplice e spoglia
Il palazzo che si presentò davanti a lui, era incastrato tra le case e
il luogo sacro. Era un normale edificio nobiliare all’esterno ma, l’interno
invece era in netto contrasto con le animate e rumorose vie della città.
Immerso nella quiete del chiostro della vicina chiesa, il palazzo sembrava
addirittura vuoto e isolato.
«E’ qui che dovrò lavorare?» domandò Angelo, non resistendo
all’impulso di interrompere il mutismo del suo accompagnatore. Il vecchio
servitore, sulla cinquantina, lo guardò con volto severo: «Esatto Sempre
ammesso che tu vada bene a ser Goffredo! E’un tipo molto difficile. Vedi di
fargli una buona impressione»
Angelo annuì, un po’ intimidito.
Dopo aver parlato con una serva, i due attesero, per un breve momento,
nel chiostro silenzioso.
Tutto era sereno e tranquillo, fin quando non udirono dei passi
risuonare lungo lo scalone che scendeva dai piani superiori.
Quel lento scandire di battiti fuori tempo, ingigantì l’attesa del
bambino, rendendolo ansioso.
Poteva notare la stessa emozione nel volto dell’anziano accanto a lui.
Ormai aspettava di vedersi comparire davanti un gigante, o un demone
dall’aspetto feroce. Invece emerse, dall’angolo del pianerottolo, un uomo
claudicante, dall’altezza normale.
Il ragazzo quasi sospirò.
Era solo un uomo. Aveva sulla quarantina d’anni. Indossava una lunga
tunica amaranto a coprire le gambe, probabilmente una più lunga dell’altra.
Camminava appoggiato ad un bastone nero e, malgrado questo, il suo aspetto non
appariva meno severo e imponente.
Squadrò i due di fronte a lui poi, appoggiandosi al bastone, chiese:
«Cosa mi hai portato, Bruno?»
«L’aiutante che mi aveva
chiesto per spostare i libri, ser…» balbettò l’anziano, togliendosi il cappello
in segno di deferenza.
Angelo osservò stupito il modo in cui l’anziano torceva il capello tra
le mani rugose. Benché fosse più anziano di Goffredo de Belardi, sembrava a
disagio. Sembrava averne paura.
«E mi hai portato, lui?!»
proseguì il quarantenne, indicando Angelo.
Questi sussultò, riscuotendosi dai suoi pensieri.
«Sì, ser. E’ giovane! Vedrete
che vi sarà di aiuto a…»
Goffredo si avvicinò con incredibile velocità, malgrado il bastone, ed
afferrò il braccio del ragazzino, mostrandolo al servo. «E’ un mingherlino
senza muscoli! Come potrà spostare i libri al mio posto? Me lo dici?!...»
Bruno tacque e Goffredo lasciò il braccio del ragazzino, sbottando:
«Tsè! Inutile!»
Il tredicenne che fino ad
allora aveva taciuto, osò aprir bocca: «Signore… Se sono libri… Posso farcela»
affermò.
Goffredo e Bruno si voltarono a guardarlo.
La parola libri aveva dato nuovo coraggio al giovinetto, scaldandogli
le gote e illuminandogli le iridi.
«Come?!» chiese il custode del palazzo.
«Se sono libri posso farcela» ripeté Angelo con più vigore.
I due, si guardarono negli occhi, e il Belardi vi lesse un ardore
sconosciuto.
Quel viso, che pochi secondi prima era alquanto anonimo e smunto, come
le pezze che indossava, ora brillava di nuovo calore, ravvivando la sua stessa
espressione. Rendendola intelligente. Bramosa. Ardente.
Goffredo si fece indietro,
pensieroso.
Si voltò, dando le spalle ai due e chiese: «Sai leggere?»
«Si»
«E scrivere?»
«Un poco…» tentennò. Era da tanto che non scriveva.
L’uomo voltò il viso, duro, e lo guardò da sopra una spalla. Simile ad
aquila che studia la sua preda. Il naso dritto e fiero; i capelli castani un
po’ stempiati sulla fronte decisa.
«E il greco?»
Angelo chinò il capo: «No, ser»
Un pesante silenzio fermò la scena in un attimo lunghissimo.
Il ragazzino, contrito per la sua ignoranza, taceva, chino. L’altro lo
studiava ancora. Quasi senza batter ciglio.
Fu Bruno a interrompere il silenzio: «Messer Belardi… Nessuno dei
servi conosce il greco! E molti neanche il latino. Abbiate da provarlo. Se non
vi aggrada ce lo rimanderete»
Il custode serrò la bocca in
una linea dura e sottile. Studiò ancora il ragazzino che gli avevano mandato.
Con il suo capo bruno e quegli arti smilzi, chiusi in stracci orripilanti, era
del tutto inadeguato a quel luogo!
«Va bene! Lo terrò!»
I due servitori sospirarono di sollievo.
«Ma se sbaglia qualcosa non
esiterò a cacciarlo! Fatelo sapere a messer Lorenzo! Se vuole che questo posto
funzioni, ci vuole gente che sappia il fatto suo!»
«Ma certo, ser Belardi! Lo dirò di sicuro al signore!» ansimò il
vecchio, profondendosi in ampi inchini, con ancora il cappello tra le mani.
«Tu! Con me!» ordinò Goffredo,
incamminandosi senza aspettare la risposta del ragazzino.
Angelo guardò per l’ultima volta l’anziano servitore, poi corse dietro
al suo nuovo padrone.
***