Note d’inizio: Hola a
tutti! Mi credevate dispersa, vero? È da
moltissimo che non passo per questi lidi, ma purtroppo ho avuto, e ho
tutt’ora
un po’ di robe da fare…comunque, eccomi di ritorno
^^
Questa mia fan fic è il
mio piccolo e modesto tributo al
Royai Day. Per la verità è una mini raccolta di
due capitoli, uno raccontato
dal punto di vista di Riza e uno dal punto di vista di Roy, ambientati
entrambi
nel passato dei due ragazzi.
Premetto che la Riza presente in
questo capitolo ha poco a
che fare con la Riza che conosciamo in FMA; è un
po’ diversa, ma è così che me
la immagino nella sua adolescenza. Spero vi possa piacere e, in
alternativa,
vorrei ricevere commenti con consigli su come migliorarmi^^
Dedico questa fan fic a tutte le fan
del Royai,
Buona lettura
That
day, that night
A
Royai tribute by Irene Adler
Chapter 1: That day
Non ero che un’ombra.
Un’ombra delle tante che
infestavano quella casa vuota e
priva di vitalità, da cui non avevo forza di separarmi.
Ciò che mi circondava,
quell’involucro un tempo accogliente che m’aveva
protetta, era
diventato la mia gabbia, la mia prigione
dorata da mille ricordi ormai sfumati.
Ricordo ancora quel giorno.
Quel giorno uggioso, identico a mille
altri, in cui lui fece la sua
comparsa nella mia
vita.
Arrivò senza preavviso,
preceduto dall’incedere malfermo di
mio padre.
Varcò l’uscio di
casa con passo deciso, gli occhi d’ebano
che ispezionavano incerti quell’ambiente per lui nuovo e
affascinante.
Indossava una casacca scura lasciata aperta per i primi bottoni, una
sciarpa
antracite legata alla gola e sottomano una borsa di pelle un
po’ sgualcita,
dalla quale s’intravedevano fogli per appunti percorsi da una
calligrafia
fluida e sinuosa.
Il suo sguardo fissava con timore
quasi reverenziale ogni
parte dell’abitazione, studiando con attenzione le librerie
impolverate sulle
quali facevano bella mostra volumi e scartoffie di ogni sorta, i
suppellettili
e i quadri dalle cornici sbeccate appesi alle pareti ; di sicuro aveva
grande
stima di mio padre e l’idea di trovarsi a casa sua, nel luogo
nel quale creava
le sue potenti e per me sconosciute alchimie, doveva metterlo in
soggezione non
poco.
Ricordo ancora che rimasi incuriosita
dalla sua figura e lo
fissai per qualche istante dal mio riparo. Il suo arrivo, del tutto
imprevisto,
rappresentava un piacevole cambio di programma in quella giornata tanto
monotona e fece nascere in me un’insolita
curiosità. All’epoca non avevo idea
del perché mio padre avesse portato in casa uno sconosciuto;
non ricevevamo
molte visite e lui non era assolutamente il tipo da invitare gente. Mio
padre
non amava la compagnia, se non quella dei libri e delle sue assurde
ricerche
sull’alchimia; il suo lavoro era tutta la sua vita e tutto
ciò che suscitava in
lui sentimenti che non fossero apatia e disinteresse.
Continuai a fissare quel ragazzo che
sostava poco oltre il
ciglio della porta.
Anche
se ancora molto
giovane i lineamenti del suo viso cominciavano ad assumere una
marcatura più
adulta, gli occhi d’ebano erano profondi ed esprimevano
recondita curiosità, mentre
il suo atteggiarsi pratico, ma nel
contempo discreto, lo rendeva a prima vista una persona degna di
fiducia.
Rimase immobile qualche istante
nell’ingresso, cosicché ebbi
l’opportunità di osservarlo dalla porta socchiusa,
consapevole che il passare
inosservata era la cosa migliore in quel momento.
Dopo un attimo d’esitazione
cominciò a seguire l’ombra di
mio padre su per le scale che portavano al secondo piano.
Forse, ingenuamente, credevo che non
mi avrebbe nemmeno
notato, nascosta nella semi ombra della stanza, quindi lo fissai ancora
per
qualche istante, sporgendomi appena oltre il ciglio della porta.
Fu in quel momento che mi
notò.
Mi aggrappai d’istinto con
entrambe le mani alla maniglia
della porta, accostandomi impercettibilmente ad essa, mentre quegli
occhi
scuri, si specchiavano nei miei.
Arrossii, quasi fossi stata colta con
le mani nel sacco.
Mi fissò con un attimo di
curiosità e poi le sue labbra si
piegarono in un sorriso caldo e amichevole; portò la mano
sinistra ad altezza
del viso e, volgendo il palmo verso di me, mi fece un piccolo cenno di
saluto,
socchiudendo gli occhi.
In
quel momento un
calore piacevole, che partiva dal petto, si diffuse nel mio corpo.
Da tanto tempo nessuno mi fissava, mi
rivolgeva un sorriso.
Mio padre era tutto ciò che avevo e tutto ciò che
rimaneva della mia famiglia,
eppure mai una volta in quei lunghi anni di convivenza mi aveva
guardata con
dolcezza, mai mi aveva sorriso -i suoi rari sorrisi, tirati e simili
più ad un
ghigno, erano riservati ai suoi successi in alchimia- mai
mi aveva rivolto un cenno amichevole.
Invece quel perfetto sconosciuto,
appena entrato in casa, mi
aveva rivolto il saluto come se fosse stata la cosa più
ovvia e semplice da
farsi in casi simili, mi aveva considerata più di una figura
nascosta nella
penombra.
“Roy!”
Il richiamo roco e severo di mio
padre mi scosse dal
torpore, facendomi arretrare di un passo.
Compresi che non era indirizzato a
me, nell’esatto momento
in cui il capo del ragazzo moro si alzò verso la cima delle
scale dove,
probabilmente, stava mio padre.
“Arrivo Hawkeye
sensei!”
Cominciò a salire i
gradini che conducevano al piano
superiore e io lo seguii con lo sguardo, quasi consapevole, o quasi
sperando,
che la sua prossima mossa fosse quella da me agognata.
Quando stava per scomparire oltre la
rampa di scale, i suoi
occhi mi cercarono ancora.
Tese le labbra nuovamente in un
sorriso discreto e io,
diversamente da prima, ricambiai con naturalezza, prima che lui non
potesse più
vedermi.
Una volta che i suoi passi non si
udirono più, mi appoggiai
contro la parete, gli occhi bassi.
Domande una
più assurda
dell’altra mi riempirono la testa, tanto da estraniarmi da
ciò che mi
circondava.
Non sentii
neppure il rumore di
passi provenienti dalla scala alle mie spalle, tanto meno vidi che il
ragazzo
di prima si stava avvicinando a me.
“Scusa…”
Sobbalzai a quel
richiamo per
poi ricompormi immediatamente e voltarmi verso di lui.
Il ragazzo mi
fissava,
passandosi nervosamente una mano dietro il collo.
“Scusa
se ti ho disturbato”
disse semplicemente.
Io scossi il
capo, imbarazzata.
“N-non
è nulla. Ha bisogno di
qualcosa?” domandai con formale cortesia, intrecciando
nervosamente le dita fra
loro. Ero brava a dissimulare il nervosismo o l’imbarazzo, ma
il fatto che quel
giovane mi avesse dato immediatamente del tu non mi era di certo
d’aiuto.
“Io
veramente mi chiedevo…”
Io lo fissai con
attenzione,
annuendo appena con il capo per incoraggiarlo a parlare, domandandomi
che cosa
mi volesse chiedere.
Pensai che
voleva chiedermi come
mi chiamassi; dopotutto prima non avevamo avuto il tempo per
presentarci.
“Sono
Riza” dissi dopo un attimo,
gli occhi bassi e le mani intrecciate al grembo.
Lui mi
fissò per un attimo
confuso, poi sorrise lievemente.
“P-piacere
miss. Riza” disse
cordiale, ma con un briciolo di esitazione nella voce.
“Mi
chiedevo…potresti indicarmi
dove si trova il bagno, per favore?”
Dire che ci
rimasi di sasso è un
eufemismo. Fortunatamente la mia capacità di ripresa fu
quasi immediata e
riuscii a nascondere lo sguardo imbarazzato e il rossore vergognoso che
m’imporporava le guance.
Mi voltai
rapidamente e
cominciai a percorrere il beve corridoio davanti a me, invitandolo a
seguirmi.
Proseguimmo in
silenzio, io tesa
come una corda di violino, ancora sopraffatta dalla vergogna per
ciò che era
accaduto poco prima, lui tranquillo e spontaneo, con lo sguardo che
percorreva
discreto ogni angolo della casa.
Arrivammo al
bagno, lo lasciai
davanti alla porta e mi avviai verso il salotto.
“Miss
Riza…?”
Mi fermai,
voltando appena il
capo nella sua direzione; aveva già aperto la porta del
bagno e la sua testa
era l’unica parte del corpo che sporgeva da essa.
“Si?”
Sorrise.
“Mi
chiamo Mustang, Roy Mustang.
Sono contento di aver fatto la tua conoscenza”
Annuii con il
capo, concedendomi
un leggero sorriso, poi senza, dir nulla, mi avviai silenziosamente
verso il
soggiorno; una volta che avvertii il cigolio della porta che si
chiudeva
socchiusi le labbra.
“Anch’io
signor Roy”
Quel giorno non
avevo idea di
aver conosciuto la persona alla quale avrei dedicato la mia intera
esistenza,
per la quale sarei stata disposta a rischiare l’onore e la
vita, per la quale
avrei nutrito un sentimento inconfessabile al quale, solo con il tempo,
sarei
riuscita a dare un nome.
Ero solo una
ragazzina rinchiusa
nella sua gabbia dorata, alla quale un ragazzo aveva dedicato un
gentile
sorriso.
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