Giovanni aviatore pubbl2
Giovanni, aviatore
Oggi,
paesino nord Italia, 04
aprile 2009.
Giovanni
camminava lungo il
ciglio della stradina sconnessa che portava dall'abitato alla rete di
recinzione
dell'aeroclub in cui lavorava da tempo immemorabile. Immemorabile era
la parola
giusta perchè nemmeno lui avrebbe saputo dare una risposta.
Gli sembrava di
farne parte ormai, come i muri e i capannoni. Faceva molto freddo e
Giovanni si
stringeva addosso il giaccone con cui aveva coperto il leggerissimo
abito che
aveva deciso di indossare quella mattina di inizio primavera. Il sole
non era
ancora sorto ma egli sapeva che doveva approfittare di un brevissimo
intervallo
per fare ciò che si era ripromesso. Il cielo era comunque
rischiarato e c'era
già una buona luce. Ci aveva pensato e ripensato. Aveva
trascorso molte notti
insonni, al principio, solo per accettare l'idea di una simile follia.
Ora non
aveva più tempo per mettere meglio a punto il suo piano.
D'altronde aveva
cercato di prevedere tutto, di eliminare ogni possibile imprevisto.
Tutto,
salvo una cosa. La sua non verde età. Si, perchè
Giovanni contava la bellezza
di 88 anni! La natura era stata benevola con lui, dandogli un fisico
agile e
robusto che lo aveva assistito egregiamente, specie quando aveva avuto
il
terribile incidente che aveva segnato per sempre la sua vita. Aveva
lavorato sempre,
e così si era tenuto costantemente in forma. Non aveva vizi
particolari che gli
avessero debilitato l'organismo. L'unico suo cruccio, l'unica sua
ferita, era
dovuta alla perdita della sua amata moglie che lo aveva lasciato tanto tempo fa. Non si era
mai rassegnato
completamente alla sua perdita e solo, senza figli, si era dedicato
anima e
corpo al lavoro nell'aeroclub. Curava la manutenzione dei piccoli aerei
dei
soci e della scuola di volo. Conosceva quelle macchine bullone per
bullone. Era
capace di individuare un problema già prima che si
presentasse, solo ascoltando
il rumore del motore. Riparava di tutto, con soluzioni spesso geniali.
Non
c'era pezzo di motore o di aereo che egli non sapesse recuperare o
addirittura
fabbricare, se necessario. Era diventato pian piano insostituibile e
alla fine
nessuno faceva troppe domande sulla sua vita privata o
sull'età. All'inizio,
con brevi voli, testava l'efficienza delle macchine in aria ma poi, con
l'età
era stato messo definitivamente a terra e questo era stato un altro
pesante
colpo per lui, anche se non l'aveva dato a vedere. Giunse molto
infreddolito
alla recinzione, nella parte posteriore dell'aeroclub, nella zona dei
campi. Aveva
le ginocchia indolenzite e anche la schiena dava il suo contributo. A
quell'ora,
nella struttura era presente solo il guardiano che dormiva in una
stanzetta
nella parte posteriore degli uffici. Si chiamava Pietro ed era
scorbutico con
tutti. Non era giovane nemmeno lui ed aveva avuto il posto in quanto
raccomandato da un socio importante. Gli avrebbe fatto un brutto
scherzo ma non
gli importava niente, non era mai stato gentile con lui. C'era uno
strappo
nella rete che egli aveva scoperto alcuni mesi prima, quando aveva
sorpreso dei
ragazzini a curiosare attorno agli aerei e aveva indagato su come
avessero
fatto ad entrare. Giovanni lo aveva riparato alla meglio sapendo che
gli
sarebbe tornato utile, visto che proprio in quel periodo andava
prendendo corpo
il suo folle progetto. Ora ci si infilò, leggermente
impacciato dal giaccone.
Davanti a lui, a destra e a sinistra, a meno di trenta metri correva la
pista
di atterraggio. Il capannone verso cui era diretto si trovava sul
margine della
striscia di asfalto, lato nord. Giovanni attraversò la pista
e si avvicinò al
capannone facendo in modo che esso rimanesse sempre fra lui e la zona
degli
uffici. Purtroppo il terreno era completamente scoperto ed egli poteva
contare
solo sul fatto che Pietro a quell'ora dormiva di un sonno proverbiale,
propiziato anche dall'aiuto del contenuto di una bottiglia a cui l'uomo
faceva
ricorso piuttosto spesso, specie la sera. Raggiunse la parete del
capannone e
rimase appoggiato alla lamiera fredda riprendendo fiato e ripassando
tutti il
piano a occhi chiusi. Si sentiva tutte le articolazioni rigide e le
gambe erano
in preda ad un leggero tremito. Era la tensione dovuta
all'enormità del suo
progetto o al fatto che aveva sottovalutato i limiti della sua
età? Comunque
dopo circa 10 minuti sentì di essersi riposato a sufficienza
e stabilì di
proseguire e quindi, senza ripensamenti, iniziò la sua
avventura. Si sentiva
gelato dalla tensione ma nello stesso tempo esaltato per ciò
che nella sua
mente aveva provato e vissuto innumerevoli volte da quando il suo piano
aveva
cominciato a farsi sempre più concreto. Tenendosi aderente
alla parete, giunse
alla porta della costruzione e la aprì con la sua chiave.
Dentro, il silenzio
caratteristico dei grandi ambienti. Il rumore degli interruttori
sembrò a Giovanni
quello di due fucilate. Poi la luce inondò il locale ed
ecco, davanti a lui
l'oggetto del suo interesse, della sua ossessione. Ciò che
gli aveva tolto la
pace ed il sonno da innumerevoli notti. Davanti a lui, rimesso
totalmente e
perfettamente a nuovo, un esemplare di aereo Fiat C.R.42, il 'Falco'! Il suo aereo, quello con il
quale aveva volato
tante ore, vivendo gli episodi più salienti della sua vita!
O, meglio, non
proprio il suo aereo , perchè quello.....
Tratte:
1)
Torino Caselle (LIMF) - Roma
Ciampino (LIRA) Italia - 330
Mn
2)
Roma Ciampino (LIRA) - Catania
Fontana Rossa (LICC) Italia - 320 Mn
3)
Catania Fontana Rossa (LICC) -
Benina Bengasi (HLLB) Libia - 470 Mn
4)
Benina (HLLB) - Il Cairo
(HECA) Egitto - 670 Mn
5)
Il Cairo (HECA) - Marsa Alam
(HEMA) Egitto - 370 Mn
6)
Marsa Alam (HEMA) - Kartoum
(HSSS) Sudan - 700 Mn
7)
Kartoum (HSSS) - Asmara (HHAS)
Eritrea - 440 Mn
continua..........
Ieri,
14/06/1940, Asmara
Giovanni Dal Masso,
sottufficiale della Regia
Aeronautica, giunse ad Asmara nel pomeriggio del 14/06/1940 dopo un
viaggio
lungo e massacrante a bordo di un aereo Savoia Marchetti SM82, adibito
al
trasporto degli aerei Fiat CR42 che venivano spediti smontati
dall'Italia con
quel particolare mezzo, in qualità di passeggero
'occasionale'. Poco prima
della partenza era stato raggiunto dalla notizia che due giorni prima,
il 12
giugno, gli alleati avevano bombardato Torino ma che i suoi parenti non
avevano
subito danni. La lunghezza del viaggio lo aveva fatto riflettere su
quanto
fosse finito lontano da casa, dal suo paese. In aeroporto, l'ufficiale
che lo ricevette,
gli fornì il biglietto della ferrovia Asmara-Massaua che lo
avrebbe condotto,
il giorno seguente, alla sua destinazione finale, appunto Massaua, dove
sarebbe
entrato a far parte di una squadriglia di elìte, la mitica
412^. Uscito
dall'aeroporto, mentre si dirigeva verso l'albergo a cui era stato
indirizzato,
venne letteralmente investito dall'atmosfera dell'ambiente che lo
circondava.
La temperatura non era molto elevata, Asmara si trova su un altipiano a
2300
metri di altitudine, ma c'era tanta polvere. Durante il viaggio gli
avevano
detto detto che fino a due giorni prima aveva soffiato il khamsin, il
vento
caldo del deserto, che soffia fino al tardo inverno e che aveva
imperversato
per quattro giorni, ostacolando non poco le operazioni di volo. Si
sperava che
fosse l'ultimo per quell'anno, fino al successivo febbraio, inizio
della
cattiva stagione. Giovanni percepiva un ambiente totalmente estraneo.
Percepiva
diversi i colori, gli odori e l'atmosfera caratteristici di quel luogo.
Notò
invece che i palazzi avevano una struttura che sentiva molto familiare.
Effettivamente si costruiva da diversi anni seguendo lo stile
'razionalista',
all'epoca usato diffusamente in Italia e specialmente nella capitale.
Alcuni
colleghi che incontrò in albergo e che erano lì
da un poco,
cercarono di tirargli su il morale. Gli
dissero che si sarebbe abituato in fretta, che la vita lì
non era male come
sembrava ma soprattutto che l'attività, da qualche giorno,
era talmente frenetica
da non lasciare molto tempo per pensare a casa. La sera, dopo una cena
con
sapori esotici, strani, venne condotto a visitare i punti
più interessanti
della città, anche per fargli vedere come si era trasformata
dopo l'arrivo
degli italiani nel 1920. Si notava effettivamente una fortissima
influenza
italiana. Così gli venne offerto da bere al bar della
Vittoria, gli mostrarono
il cinema Impero, la Pasticceria Moderna, la Casa del Formaggio e, un
poco
distante dal centro, la famosa stazione di servizio Fiat Tagliero,
costruita
nel 1938 a forma di aeroplano. Scoprì quindi che per tutte
queste
caratteristiche, la città veniva chiamata anche la 'Piccola
Roma'. Dopo una
notte di sonno profondo ma molto agitato per via della stanchezza
accumulata,
alle 09.30 salì sul treno che lo avrebbe condotto a Ghinda e
successivamente a
Massaua con un percorso di 118 Km. Il convoglio era trainato da una
locomotiva
Ansaldo FS R440 che sbuffando ed eruttando un terribile fumo nero, il
quale
purtroppo riusciva a farsi strada nello scompartimento malgrado i
finestrini
chiusi, instancabilmente trascinava i quattro vagoni del convoglio
attraverso
un territorio sempre diverso. Il giovane sottufficiale vide passare dal
finestrino un paesaggio che mutava di continuo, mostrando zone brulle,
addirittura bruciate dal sole che si alternavano con spazi verdi di palme dum, di tamarischi
e talvolta, in
presenza di acqua, boschetti di acacie. Gli riusciva difficile non fare
un
paragone fra lo scenario che gli scorreva davanti agli occhi ed il suo
paese di
origine.......
Era
nato il 22/11/1921 a Lurisia,
provincia di Cuneo, ai piedi del monte Pigna, nelle Alpi Liguri, un
paesino che
all'epoca contava circa 200 abitanti. Il padre, minatore, lavorava a
quella che
è al momento, era, ancora per poco, la maggiore risorsa del
luogo ossia
all'estrazione di una pietra particolare, la 'iosa', ampiamente
utilizzata
nella costruzione delle case della zona, in particolare per i tetti.
Nel 1917
quattro anni prima, era accaduto un fatto destinato a influire
pesantemente
sull'economia del luogo. Era stata infatti scoperta per puro caso una
sorgente la cui
acqua
risultò possedere speciali caratteristiche
terapeutiche. Degli esperti
inviati dal governo di Roma per analizzare il fenomeno, individuarono
la
presenza di un materiale radioattivo, la 'autunite'. Si
pensò di sfruttarla in
qualche modo e per valutare le varie possibilità di utilizzo
venne invitata la
persona che in quel momento rappresentava l'autorità
indiscussa in merito,
ossia madame Curie. Essa giunse nella vallata nel 1921 e' dopo sei mesi
di
attento studio, arrivò alla conclusione che la percentuale
di materiale
radioattivo era presente nelle rocce con una percentuale troppo bassa
per
consentirne qualsiasi uso scientifico. A quel punto si fecero avanti
due
imprenditori, David Garbarino e Piero Sciaccaluga, che sfruttarono la
fonte
termale. Questa iniziativa, visto il suo successo, fornì
lavoro ad un gran
numero di persone sia del luogo che provenienti da fuori, favorendo lo
sviluppo
della zona. Il padre di Giovanni, uomo tutto d'un pezzo, decise di
continuare a
fare il minatore rifiutando di diventare un semplice operaio o, peggio
ancora
un inserviente o un cameriere. Non era però un retrogrado o
un ottuso. Anzi.
Stabilì che il figlio avrebbe dovuto studiare per avere
buone opportunità. Così
finite le scuole elementari nella vallata, nel 1932, all'età
di 11 anni, lo
inviò dalla sorella a Torino per
iscriversi all'avviamento al lavoro presso l'Istituto Avogadro. Il
ragazzo si
appassionò alla meccanica e quando l'istituto, grazie al
grande impegno del suo
preside, prof. Plinio Luraschi, organizzò il corso di perito
meccanico, lo
frequentò con entusiasmo, mantenendosi con dei lavoretti che
trovava nelle
varie officine della zona. In quel periodo a Torino si respirava
un'aria di
grande entusiasmo per tutto quello che riguarda il mondo aeronautico.
Nel 1911,
nella zona sud della città, sorgeva l'aeroporto
Mirafiori. Nel 1912 vi venne istituito il 'Battaglione
Aviatori', al
comando del tenente colonnello Vittorio Cordero di Montezemolo, che
iniziò dei
seri e regolari corsi di addestramento al volo allo scopo di fornire un
valido
brevetto di volo ai partecipanti che così non avrebbero
rischiato più di
accostarsi ad un aeromobile senza le elementari conoscenze del volo, e
quindi
con maggiori garanzie di uscire indenni da tali esperienze. Fra i primi
allievi
ci fu anche Francesco Baracca. Nel 1915 Guglielmo Marconi, dalla torre
di
controllo condusse i primi esperimenti di comunicazione via etere fra
una
stazione terrestre ed
un aereo in volo,
un Caudron G3, della fabbrica AER di Orbassano. Nel 1926, la Fiat vi
costituì
la compagnia A.L.I. (Avio Linee Italiane) che poi sarebbe diventata Ala
Littoria, e che assicurò il primo collegamento passeggeri,
più o meno regolare,
fra Torino e Roma, aeroporto di Centocelle. Nel 1916, rispondendo alla
necessità di avere un posto adeguato per collaudare i tanti
prototipi di
aeromobile costruiti dalle varie officine della zona, la
società di costruzioni
aeronautiche dell'ing. Pomilio, nella
zona a nord di Torino, realizzò un aeroporto destinato a
tale attività. Dopo
essere passato per vari proprietari, fra cui anche l'Ansaldo, nel 1917
finì in
possesso della Fiat che lo chiamò Fiat Aeronautica d'Italia,
da cui Aeritalia.
Nel maggio dello stesso anno si inaugurò un servizio
postale, anche quì più o
meno regolare, fra Torino e Roma. Giovanni, in mezzo a tutto questo
fervore,
questo entusiasmo, non poteva uscirne indenne e così si fece
contagiare anche
lui dalla passione per gli aerei. Fattosi conoscere nelle varie
officine in cui
aveva lavorato per la sua precisione, tenacia e
affidabilità, trovò un buon
lavoro fisso presso la Fiat, in qualità di tecnico
collaudatore. Come tale.
malgrado la sua giovanissima età potè ottenere, a
spese della ditta, il
brevetto di volo per cui sembrava naturalmente e incredibilmente
portato grazie
anche all'incoscienza tipica dei giovani. In qualità di
meccanico partecipò
alle operazioni di ottimizzazione e messa a punto del Fiat G50 bis che
volò per
la prima volta sulla pista del Mirafiori il 26/02/1937. Poi, quasi
fosse un
segno del destino, venne assegnato al collaudo e messa a punto del FIAT
CR42,
detto anche 'il Falco'. Se ne innamorò, letteralmente. Lo
riteneva un aereo
fantastico, innovativo, in quanto costruito con diverse parti della
fusoliera e
delle ali in metallo, e in grado di superare tranquillamente la
velocità di 400
K/h. Verso la fine del 1939, quando pensò che fosse giunto
il momento, si
arruolò nella Regia Aeronautica e dopo un breve corso, visti
i suoi precedenti,
e una serie di 'spintarelle' da parte di personaggi influenti che egli
aveva
conosciuto sulle piste di aviazione, con il grado di sergente, venne
inviato in
un posto ritenuto importante e strategico, dove avrebbe potuto far
valere le
sue capacità. Ed ora era proprio dove voleva essere. Avrebbe
volato di nuovo
con il 'Falco' ma stavolta non sarebbe stato gioco,
non sarebbe stato per librarsi nel
cielo o per provare l'ebrezza del volo. Ora avrebbe dovuto combattere e
bene,
perchè l'avversario era in gamba, preparato e
determinato......
........
Senza quasi rendersene
conto, arrivò in stazione. Quì il caldo si
sentiva, e parecchio. Massaua è sul
mare e quindi è presente anche una forte umidità.
L'aeroporto a cui era
destinato si trovava verso l'interno, a un paio di chilometri. Nessuno
era andato
a prenderlo e quindi raggiunse la sua meta sudato e pieno di polvere.
Per
fortuna, prima di presentarsi al suo superiore potè
rimettersi in ordine.
Nell'ufficio del comandante della 412^ egli conobbe il suo superiore,
il
capitano Antonio Raffi, che lo ricevette in modo molto cordiale e un
giovanotto, che se ne stava seduto in disparte, il tenente Mario
Visintini, che
gli risultò subito antipatico, per l'aria di superbo
distacco che manteneva nei
confronti di un novellino. Il capitano gli spiegò per sommi
capi i compiti che
la squadriglia era per ora chiamata a svolgere. Le ostilità
erano appena
iniziate e ancora il quadro delle operazioni non era chiarissimo,
almeno per
chi non si trovava ai vertici del comando. Vista la notevole autonomia
del
CR42, 770 Km, gli era affidato il pattugliamento di una ampia zona che
andava
da Gadaref a 330 Km ad ovest, al lago Tana a 270 Km a sud e fino all'
isola di
Hermil dell'arcipelago Dahlak a 80 Km a est. Nel corso di questi
tragitti
sarebbe stato sempre più probabile incrociare velivoli
nemici in compiti di
ricognizione e talvolta di bombardamento. Il Tenente Visintini, il
giorno
prima, aveva abbattuto un aereo inglese, un Wellesley della 14^
squadriglia,
diretto appunto a bombardare Massaua. In caso di intercettazione, era
previsto
l'ingaggio in combattimento, sempre con un occhio al carburante per
assicurarsi
il ritorno a casa. La sicurezza dell'aereo andava anteposta a tutto per
la
scarsità di rifornimenti e piloti. Gli aerei che si
sarebbero potuti trovare di
fronte erano
essenzialmente di tre tipi.
Il caccia bombardiere Bristol Blenheim 1F, non molto veloce ma
piuttosto
manovrabile e soprattutto munito di 5 mitragliatrici. C'era anche il
bombardiere leggero Vikers Wellesley, piuttosto superato, non molto
veloce.
Montava solo due mitragliatrici ma una delle due era manovrata da un
mitragliere,
fatto che conveniva sempre considerare in un eventuale confronto.
Infine
venivano utilizzati parecchi aerei Gloster Gladiator, piuttosto lenti
ma manovrabilissimi.
Le ali di tela erano molto vulnerabili. Pochi colpi potevano
abbatterli. I loro
piloti erano però veramente abili e capaci di sfruttare
l'apparecchio al
massimo, cosa da non sottovalutare assolutamente.....
Oggi, paesino nord
Italia, 16 dicembre 2008
Tutto
era cominciato quattro mesi
prima. Durante il normale lavoro, era giunto al cancello dell'aeroclub
un TIR
con rimorchio sul quale era trasportato un grosso oggetto con una
sagoma
particolare, coperto da teloni. Si erano fermati tutti per capire cosa
stesse
arrivando, o meglio cosa si era inventato il direttore per farli
lavorare di
più. Non era insolito che questi, si presentasse con qualche
carcassa di
vecchio aeromobile da rimettere a posto per donarlo al vicino Museo
Aeronautico
per fare bella figura, e alimentare così le sue ambizioni
politiche. Più
curioso che altro, Giovanni si avvicinò al TIR per vedere su
che pezzo di
ruggine avrebbe dovuto lavorare. Ma quando i teloni furono rimossi,
egli sentì
una scossa elettrica che gli attraversò letteralmente la
spina dorsale. Seppure
in pessime condizioni e con le ali e l'elica smontati, aveva
immediatamente
riconosciuto un Fiat CR42 , un 'Falco' o quello che ne rimaneva. Senza
rendersene conto, quasi in trance, si avvicinò a quel
relitto e delicatamente
sfiorò quello che era il profilo di un ala. E
sentì.... sentì che quell'aereo
non era giunto lì per caso. Era arrivato a lui per
consentirgli di pagare un
debito, di chiudere un cerchio. E così, praticamente da
subito, era nato il suo
folle piano.
Oggi,
paesino nord Italia, 04
aprile 2009
Giovanni
la sera prima aveva
pensato a tutto. Con la scusa di voler pulire e lucidare a puntino
l'abitacolo,
aveva usato una scaletta che poi era rimasta 'casualmente' a terra,
vicino
all'aereo. Aveva procurato due blocchi d'arresto per le ruote per
rendere lo
scenario più verosimile e li aveva messi in posizione come
per provare
l'effetto definitivo. Con noncuranza li aveva collegati uno all'altro
con un
pezzo di corda e poi a quello di sinistra aveva anche collegato un
altro tratto
di fune lungo circa sei metri che aveva lasciato al suolo accuratamente
ripiegato.
Da giorni faceva cautamente sparire piccole quantità di
carburante che poi
trovava il modo di mettere nel serbatoio di riserva sotto il sedile.
Aveva
fatto orientare l'apparecchio verso la porta di uscita dicendo che
sarebbe
stato più agevole portarlo fuori e aveva fatto in modo che
davanti non ci fosse
parcheggiato nessun mezzo. Ora, sotto la luci che pendevano dal
soffitto, il
'Falco' era bellissimo, tutto colorato e verniciato nei colori
originali. Non
aveva avuto particolari problemi a farlo verniciare e rifinire con i
colori e
gli stemmi della 412^ squadriglia. Ogni particolare era stato ricreato
e messo
a punto, ci aveva pensato lui, con una cura maniacale. Nelle ore
libere, con un
piccolo aiuto, che non gli era stato mai negato da nessuno, aveva
letteralmente
smontato il motore e lo aveva, per quanto possibile, risistemato. Il
suo
entusiasmo era diventato contagioso e, alla fine, tutti cooperavano con
lui.
Perfino il direttore dell'aeroclub, verificato che il lavoro di routine
non
subisse ritardi, era contento di come andavano le cose. Non poteva fare
a meno
di pensare alla bella figura che avrebbe fatto, donandolo al museo
vicino. Per
quel lavoro, in realtà, era stanziata una modestissima cifra
ma Giovanni aveva
fatto l'impossibile. Per le parti meccaniche aveva pulito, lucidato,
scrostato,
recuperato. Aveva risistemato, rimontato, calibrato per quanto
possibile. Aveva
dovuto sostituire tutti i tubi e i condotti ma per quelli si era
arrangiato.
Tale era la sua foga, che i compagni avevano fatto finta di non vedere
quando
egli, con mossa meno rapida di quanto pensasse, aveva fatto sparire
qualche
piccolo pezzo, quà e là, destinato
ad
altro. E poi, il gran giorno. Aveva messo nel serbatoio del velivolo un
minimo
di carburante. Senza molte speranze, all'inizio, aveva dato il
contatto,
regolato la manetta e poi, appoggiate le mani sulle pale dell'elica,
dopo un
attimo di esitazione, le aveva dato una spinta, con tutta la forza che
aveva,
per avviare il motore. Aveva preteso di fare tutto da solo. Veramente i
compagni di lavoro avrebbero voluto aiutarlo, se non altro
perchè era molto
probabile che a quell'età, dopo la spinta di avvio, ammesso
che fosse realmente
riuscito a darla, si sbilanciasse e cadesse nell'elica in movimento
facendo una
gran brutta fine. In realtà erano convinti che il motore non
avrebbe girato mai
più. Inoltre erano molto dubbiosi che un uomo di
quell'età, seppure in buone
condizioni di salute, sarebbe riuscito in quel compito. Loro non
potevano
sapere quale energia muoveva le braccia di Giovanni. Non potevano
supporre la
potenza del sogno o meglio, della lucida follia di quel vecchio.
Naturalmente
quella prova andò a vuoto. Dopo quattro tentativi, con le
braccia a pezzi,
Giovanni capì che era inutile insistere. Qualcosa non andava
proprio e poi non
voleva rischiare di farsi male. Le
candele purtroppo erano quelle originali, pulite, regolate ma....
stesso
discorso per le fasce, per i cilindri, per i filtri. Insomma
quell'aereo aveva
volato e volato parecchio. Inoltre la messa a punto era stata fatta da
Giovanni
stesso che per quella mansione non era proprio il più
esperto. Ma per lui la
cosa non poteva finire lì. Semplicemente non lo poteva
accettare. Ancora si
accanì per due settimane migliorando le regolazioni, la
pulizia, la messa a
punto. E poi..... Una sera, all' improvviso, una serie di crepitii, un
motore
che tossiva, ma che
dopo una decina di
secondi di incertezza, cominciava ad avere un suono più
regolare, poi più
forte, più deciso, fino a trasformarsi in un rombo
più o meno costante. I
tecnici e gli operai presenti accorsero per veder con i propri occhi
quel
miracolo, quella scena impossibile.
Quell'elica che girava decisa e sicura e Giovanni, che si
era subito
inerpicato nell'abitacolo e ora regolava la
manetta con i lucciconi agli occhi,
rappresentavano uno scenario irreale, magico,
con i presenti che non riuscivano a distogliere gli occhi da quello
spettacolo.
Poi, qualcosa, un rumore qualsiasi, ruppe l'incanto di quel momento e a quel punto tutti
proruppero in un applauso
intenso, lungo, gridando per la gioia e l'entusiasmo. Alla fine, in
realtà ci
avevano lavorato un pò tutti. La bevuta che seguì
fu di quelle memorabili e
Giovanni fu ben contento di pagare di tasca sua. Perfino in paese si
parlò di
questo prodigio e qualcuno volle fare visita all'aereo per raccontare
agli
amici poi di esserci stato. Nei giorni successivi Giovanni aveva
terminato di
rimontare per bene la calandra del motore, aveva fissato e regolato con
attenzione gli impennaggi. Insomma aveva finito. Come anche il suo
tempo. Il
direttore dell'aeroclub, che non vedeva l'ora di fare bella figura (e
di far
fare bella figura) col politico locale, avrebbe fissato, a brevissimo
tempo, la
consegna al museo vicino. Ed ora Giovanni era in piedi, davanti al suo
'gioiello'. Adesso tutto doveva andare come un orologio. Nella sua
mente aveva
già pensato e visto la scena innumerevoli volte, eliminando
i tempi morti, le
azioni inutili e stabilendo la sequenza ideale. Non doveva perdere un
secondo
di tempo ma soprattutto non doveva sprecare energie, perchè
proprio non ne
aveva di riserva. Per cui andò alle porte del capannone e
con l'apposito
comando le spalancò. Per fortuna era stato installato un
sistema elettrico
abbastanza silenzioso anche se al vecchio pareva di udire il rumore di
una
cascata. Pietro, il guardiano, non si sarebbe certo svegliato per
quello. Il
passo successivo, lo portò all'abitacolo dell'aereo.
Recuperò la scaletta che
aveva lasciato la sera prima nei paraggi, la appoggiò al
fianco dell'aereo.
Prese il capo della fune di sei metri, attaccata a tutti e due i fermi
di legno
davanti alle ruote e, tenendolo ben saldo, salì fino ad
affacciarsi al bordo
dell'abitacolo. Legò la fune ad un anello che aveva montato
accanto al bordo.
Poi, sporgendosi, dette il contatto e regolò la manetta del
carburante a 'un
pollice'. Era in gioco e non si poteva più fermare, quasi
spaventato dalla sua
stessa audacia, dalla sua follia. Era come se i suoi occhi osservassero
le sue
mani e i suoi piedi che eseguivano una serie operazioni assurde. Appena
ridisceso dalla scaletta, fu colpito da un attacco di panico vero e
proprio. Un
tremito convulso scuoteva tutte le sue membra. Il respiro sempre
più corto e il
cuore che martellava in petto, gli fecero pensare che questa bravata
gli
sarebbe costata la vita e che, più tardi, nella mattinata lo
avrebbero trovato
così, e forse avrebbero capito l'enormità di
quello che si era riproposto di
fare e avrebbero avuto pietà di lui. Si era accasciato
piegandosi riverso in
avanti sul bordo dell'ala inferiore del 'suo' Falco. "Un povero vecchio
-
pensava - ecco quello che sei. Vecchio e pazzo. Ma che ti credevi di
fare. Dovresti
essere in un ospizio, altro che quì. Stupido!'. Dopo un
tempo che gli era
sembrato lunghissimo, riprese il controllo. Erano trascorsi solo pochi
minuti.
'Vecchio pazzo? Ospizio? Forse, anzi certo, ma dopo!'. Ora, quasi per
reazione
a ciò che era accaduto poco prima, una lucida rabbia lo
spingeva ad andare
avanti. Si strappò letteralmente di dosso il giaccone. Sotto
aveva indossato la
sua uniforme di sottufficiale della Regia Aeronautica che aveva
conservato con
venerazione assieme a tutte le decorazioni e gli stemmi. Per quanto
fosse
leggera, a causa della tensione si vedevano quà e
là delle chiazze di sudore.
Aveva alla cintura il suo caschetto di cuoio e degli occhiali da
motociclista
con i quali aveva supplito alla perdita dei suoi. Attorno al collo
aveva una
sciarpa bianca. Si portò davanti all'elica e
afferrò il bordo delle pale. Era
scosso da un tremito, la tensione era allo spasimo. Con una serie di
spinte
lievi, fece fare all'elica un giro completo. Con un'occhiata
controllò di nuovo
che i fermi di legno sotto le ruote fossero a posto e le funi a loro
collegate
messe nel modo giusto. Da quello dipendeva il successo o il disastro.
Con un
profondo respiro e un attimo di concentrazione, dette un colpo violento
spingendo le pale dell' elica verso il basso. Nulla! Di nuovo. Nulla!
Ancora
una spinta prima che il motore si ingolfasse e tutto andasse a monte.
Raccomandandosi, pregando, diede un'altra spinta con tutta la sua forza
residua. Era rimasto con gli occhi chiusi e quindi udì
semplicemente che
l'elica iniziava a girare, a girare, e non si fermava. Con la
velocità di cui
ancora disponeva, corse alla scaletta e si inerpicò stavolta
all'interno dell'abitacolo
pregando, raccomandandosi che le giunture delle ginocchia,
già molto provate,
non lo tradissero, che i muscoli delle braccia, maltrattati da quelle
manovre,
non lo abbandonassero proprio ad un passo dal suo successo. Verificato
che il
motore girasse con regime pressappoco regolare, diminuì di
un poco la manetta,
ma con attenzione. Al minimo, un colpo di tosse del motore, lo poteva
far
spegnere. All'interno del capannone il rumore era assordante ma ormai
il più
era fatto. Indossò il caschetto e gli 'occhialoni'.
Sporgendosi, tirò la fune
che trascinò via da davanti alle ruote i blocchi di legno.
Era fatta, ora
l'aereo era libero e in moto. Si assicurò con le cinghie al
sedile rendendosi
conto di non avere il paracadute. "E allora? Chi lo vuole? E per cosa,
poi?". Controllò di nuovo gli impennaggi regolandoli e
osservando se le
varie parti mobili obbedivano ai suoi comandi. Poi... diede manetta ed
il Falco
iniziò a muoversi.......
Per
seguire con più facilità lo
svolgimento del racconto, si consiglia di visitare i seguenti due link:
1)
Per vedere quali aerei sono
utilizzati dai protagonisti della storia:
http://i57.tinypic.com/oozvbq.jpg
2)
Per seguire le varie
operazioni descritte durante lo svolgimento del racconto:
http://i62.tinypic.com/2cp52m8.jpg
Ieri,
15/06/1940 Massaua.
Alle
ore 14.30, dopo il pranzo, il
sergente Dal Masso, seguendo gli ordini, si era presentato al capannone
dell'officina
e aveva cercato il sergente maggiore Alvaro Coniglio, capo meccanico,
al quale
erano affidati gli aerei per la normale manutenzione, le riparazioni e
le messe
a punto. Gli doveva mostrare l'aereo sul quale avrebbe volato. Lo
avevano
avvertito di stare attento. Il sergente maggiore era una persona un
pò
particolare. Considerava ogni aereo come se fosse una sua creatura. Ne
era gelosissimo
e se aveva il dubbio che un pilota fosse trascurato o malaccorto nei
confronti "del
suo velivolo", lo avrebbe affrontato cantandogliene quattro in malo
modo,
grado o non grado. Era indispensabile e lo sapeva e, forse, prima di
tanti
altri, aveva capito la serietà della situazione in cui si
trovavano. Combatteva
ogni giorno con la scarsa quantità dei ricambi di cui
disponeva e la difficoltà
di riceverne di nuovi, anche in quel momento in cui tutto stava appena
cominciando e il logorio delle battaglie non aveva ancora iniziato a
farsi
sentire. Il sergente maggiore lo squadrò a lungo, valutando
se quel ragazzino
che aveva di fronte era il solito raccomandato che se la sarebbe fatta
addosso
alla prima difficoltà. Alla fine invitò il
ragazzo a seguirlo e, dopo essere
passato davanti ad una fila di aerei in ottime condizioni, alcuni
addirittura
nuovi, gliene mostrò uno un po' in disparte, dicendo che non
essendoci il
pilota, non era stato ancora messo in linea ma che ora lo avrebbe
pilotato lui.
Giovanni non credette ai suoi occhi. Quel 'coso' volava davvero? Non
aveva mai
visto un simile cumulo di ferraglia, nemmeno fra gli scarti delle
officine in
cui aveva lavorato. Sembrava un insieme mal assemblato, di parti
recuperate da
un Ansaldo SVA5 e da alcuni alcuni
pezzi
di un Fiat R2 , con inserti quà e là di rottami
di un Macchi M9. L'insieme,
comunque, aveva un aspetto
grottesco.
Non poteva crederci. Fece presente che in quel coso avrebbe potuto
rischiare la
pelle solo a salirci. Dal prendersi il tetano a causa delle lamiere
arrugginite
all'andare arrosto perchè quell'affare, una volta messo in
moto sarebbe probabilmente
esploso. Il sergente maggiore, con aria quasi offesa, rispose che
quello era un
'signor' aeroplano, che erano in guerra, che era necessario arrangiarsi
e che
lui, come ultimo arrivato, era fortunato a trovare un aeromobile subito
disponibile. Il giovane sottufficiale, assai poco convinto, indossata
la tuta
di volo, seppure con molte riserve, alla fine salì
sull'aereo. Il suo occhio
esperto ed allenato, aveva notato diversi elementi che non sembravano
rassicuranti. Se però pensavano di metterlo in
difficoltà, gliela avrebbe fatta
vedere lui. Il sergente maggiore, a gran voce, chiamò un
motorista che, a passo
cadenzato, si avvicinò recando in mano una lunga manovella.
Scambiò con il
superiore un saluto formale e poi, con movimenti precisi e ritmati,
inserì la
manovella nel foro praticato nel muso dell'apparecchio. Chiese al
sergente alla
guida di dare il contatto, dopodichè iniziò a
girare vigorosamente la
manovella. Il motore dette incredibilmente segni di vita e dopo un paio
di giri
dell'elica, altrettanto incredibilmente, partì. Dai tubi di
scarico uscì una
tremenda fumea maleodorante che, per fortuna, nel giro di una ventina
di
secondi, venne spazzata via dal vortice prodotto dall'elica. Giovanni
guardò il
sergente maggiore che sorridendo faceva segno col pollice alzato che
era tutto
a posto. Poi gli fece segno di procedere. Giovanni, con molta
attenzione,
giocando con la manetta che però faceva un po' di 'bizze',
riuscì a far muovere
l'aereo e ondeggiando a destra e a sinistra, a causa di un timone un
po'
riottoso, si avviò verso il punto attesa della pista.
Procedendo con tutta
l'attenzione necessaria per tenere sotto controllo quella macchina
pazzesca e
imbizzarrita, notò però che mentre avanzava,
molti soldati accorrevano a vedere
la sua prova. Altri ne venivano chiamati e tutti avevano
iniziato....... a
ridere! Si ripropose, se fosse sopravvissuto, di indagare sul motivo di
tanta
ilarità. Aveva inoltre notato che un'ala era addirittura
più bassa dell'altra.
Questo era veramente troppo. Giunto al punto attesa si fermò
in un bagno di
sudore. Voleva veramente decollare con quel 'coso'? Nonostante il
rumore irregolare
del motore, udì la
voce del capitano che
stava accorrendo. Il sergente Coniglio in quel momento era piegato in
due, con
le mani sulle ginocchia che stava ridendo fino alle lacrime, seguito da
tutti
gli altri, che indicandolo, si scambiavano manate e si tenevano la
pancia. Il
capitano, con un deciso gesto, gli fece segno di spegnere
immediatamente il
motore poi, a gran voce, chiamò il sergente maggiore che
accorse mettendosi
sugli attenti con gli occhi ancora rossi per le lacrime e con una
smorfia sul
viso che voleva essere seria e rispettosa ma senza molto successo. Il
capitano
'strigliò' per bene il sottufficiale dicendogli che dovevano
piantarla con
quello scherzo stupido a tutti i nuovi arrivati. Qualcuno,
magari meno sveglio degli altri,
poteva pensare di poter decollare davvero con quella 'baracca' e
lasciarci la
pelle. Intanto tutti gli altri, facendo finta di nulla si dileguavano
in fretta
continuando a ridere convulsamente. Poi, rivolto a Giovanni, vergognoso
e
impacciato per la figuraccia da babbeo che aveva appena fatto, il
capitano gli
intimò di scendere, che per quel giorno si era
già reso ridicolo abbastanza,
quindi se ne tornò verso il suo ufficio, permettendosi di
ridere a sua volta
ora che non lo poteva vedere nessuno. Che tipo quel sergente, non se ne
salvava
uno. Avrebbe voluto più persone come lui, capaci, gioviali
ed affidabili quando
necessario. Il giovane sottufficiale scese da quell'aggeggio e il
sergente
maggiore, prevenendo le sue parole, gli chiese scusa ma gli disse che
si era trattato
di una specie di cerimonia di accettazione e che non aveva mai corso
reale
pericolo. Non gli avrebbero mai permesso di decollare. Gli
spiegò che quella
macchina così stranamente assemblata serviva per far
esercitare i meccanici a
montare e rismontare le varie parti, per far acquisire al meglio la
manualità
necessaria in quel lavoro. Giovanni riconobbe che doveva essere stato
proprio
buffo a procedere con quel 'coso' cercando di domarlo, seppure con
scarso
successo. Poi avvicinandosi osservò che effettivamente nelle
attuali condizioni
non avrebbe potuto volare ed enumerò gli elementi che
sconsigliavano un
decollo. Il sergente aveva iniziato ad ascoltarlo con grande attenzione
e, facendo
delle domande, si rese conto che quel ragazzino ne sapeva quasi quanto
lui.
Rimase addirittura sconvolto quando l'altro iniziò a
indicare le modifiche e
gli accorgimenti che avrebbero consentito a quella macchina di
staccarsi da
terra senza ammazzare il pilota nel giro di pochi secondi. Infine il
giovane si
conquistò definitivamente la stima e il rispetto dell'altro,
invitandolo a bere
con lui ed estendendo l'invito a tutti quelli che avevano partecipato
alla
burla. In fin dei conti, da quello che era stato detto, l'avevano
accettato nel
gruppo! Fu una riunione riuscitissima tant'è che alla fine
intervennero gli altri
piloti che egli ebbe quindi occasione di conoscere e, alla fine, lo
stesso
capitano si fece vedere, con la scusa di controllare che non
esagerassero.
Giovanni notò però che Visentini non era
intervenuto. La mattina seguente ebbe
finalmente il suo aereo, quello 'buono'. Era un FIAT CR42, in ottime
condizione, sebbene non nuovissimo. Messo in moto, il suono del motore
era
eccellente e tutta la struttura appariva efficientissima. Giovanni
aveva
ricevuto precedentemente dal capitano le carte di navigazione della
zona che
avrebbe interessato l'attività della squadriglia. Ricevette anche alcune
informazioni sui luoghi
nei quali era probabile che incontrasse il nemico o minacce da terra.
Ebbe l'incarico
di studiarsele e nel frattempo gli fu ordinato di decollare con il suo
aereo
per prendere confidenza con lui e per fare un tragitto di routine in quota, allo
scopo di familiarizzare con il paesaggio
dall'alto. Vista la remota possibilità di incontrare qualche
ricognitore
inglese, gli fu affiancato un compagno, il tenente Rosmini, un giovane
simpatico e di bell'aspetto che, prima del decollo gli fornì
ulteriori
informazioni circa la conformazione
del suolo, i venti e le procedure di decollo e di avvicinamento
all'aeroporto.
Anche se non era previsto alcun tipo di contatto con il nemico, gli
aerei erano
comunque armati e pronti al combattimento. La consapevolezza di
controllare un
aereo che poteva dare la morte, faceva a Giovanni uno strano effetto.
Quel
potere di distruzione che egli avrebbe dovuto controllare gli dava una
sensazione di grande potenza ma nello stesso tempo anche di paura per
le
conseguenze delle sue azioni. E poi diveniva sempre più
consapevole che da
una parte egli era un cacciatore, e contemporaneamente
un bersaglio che
accettava
consapevolmente la condizione che ad ogni decollo avrebbe potuto
morire. Il suo
compagno di volo lo rassicurò sul fatto che difficilmente
avrebbero potuto
avere brutti incontri ma che, comunque, in caso di contatto con il
nemico
doveva più che altro cercare di rimanere lucido tenendo bene
a mente quanto
appreso durante l'addestramento. Gli raccomandò comunque di
rimanere sempre di
fianco a lui, leggermente arretrato per essere in grado di cogliere
immediatamente
eventuali comunicazioni effettuate con
gesti prestabiliti. Il fatto era che il Falco, malgrado fosse un
bell'aereo, e
relativamente moderno non disponeva di un apparecchiatura radio il che
rendeva lo
scambio dei messaggi fra piloti piuttosto problematico. Dopo il
decollo,
prendendo quota, eseguirono un giro sul campo per osservare come si
presentava
dall'alto. Quindi, fecero rotta verso l'isola di Nocra dell' arcipelago
Dahlak,
diretti per la loro meta finale, l'isola Hermil, limite nord-est della
zona di
competenza assegnata alla squadriglia. Lasciata la costa, salendo a
12000
piedi, si diressero verso l'isola di Nocra. Giovanni che era
attentissimo a
tutto lo scenario che lo circondava, consapevole che la sua conoscenza
poteva,
forse, un giorno, rappresentare la differenza fra la vita e la morte,
notò
sorvolando la piccolissima isola, della costruzioni. Seppe in seguito
che in
quel luogo era situata una struttura di cui si parlava poco volentieri.
Era un
carcere italiano in cui erano custoditi oppositori e rappresentati di
passati
regimi. In realtà da più parti se ne era chiesta
la chiusura. Procedendo, la
coppia di aerei raggiunse la grande isola di Dalhak, che dava il nome
all'arcipelago, e quindi continuarono per la loro meta. La giornata era
bellissima e la visuale era perfetta. Il giovane sottufficiale, sentiva
il
motore della sua macchina che ruggiva in modo fantastico. Raggiunta
l'isola di
Hermil su cui si trovava un piccolo contingente italiano, per lo
più con
compiti di vedetta e segnalazione di eventuali traffici aerei e navali,
virarono per tornare alla base.
Tratte
:
8)
Volo VFR Massaua (HMAS) -
Arcipelago Dahlak - Isola Hermil - Massaua (HMAS) Eritrea - circa 150
Mn
continua...
Era
stata veramente una bella
gita, un'ottima occasione per prendere dimestichezza con il suo Falco,
con il
quale ora si sentiva un tutt'uno. Improvvisamente si accorse che Il suo
compagno cercava di attirare la sua attenzione con gesti frenetici,
indicando
un punto alle loro spalle. Girandosi, sentì un brivido
gelato attraversargli
schiena. Giovanni vide tre puntini che si avvicinavano scendendo, dalla
direzione
del sole, molto probabilmente aerei nemici. Immediatamente Il suo
collega, virò
per intercettarli mentre Giovanni rimase incollato alla sua coda. In
coppia si
diressero verso quegli aerei che non tardarono molto a riconoscere per
avversari. Erano tre Gloster Gladiator inglesi che si precipitavano
quasi in
picchiata verso di loro. Giunti ad una adeguata distanza, Rosmini
aprì il fuoco
e, forse solo per spirito di emulazione, Giovanni lo imitò,
però rendendosi
conto con orrore che stava tentando di uccidere un altro uomo, sia pure
un
nemico. Queste considerazioni scomparvero nell'istante in cui anche
dall'altra
parte si cominciò a rispondere al fuoco con un numero
incredibile di colpi che
si incrociavano a mezz'aria. Si rese ben conto della situazione quando
alcuni
proiettili danneggiarono il bordo di attacco dell'ala inferiore
sinistra. Il
gelo della paura gli pervase le membra. Non era pronto per il
combattimento ed
una sola cosa gli martellava nella mente: scappare! Immediatamente
virò verso
destra, allontanandosi dal suo compagno il quale, notata la manovra,
con
amarezza e rabbia considerò che non lo avrebbe potuto
proteggere e che sarebbe
stato inesorabilmente abbattuto. Ora però doveva pensare a
difendere se stesso.
Rosmini notò con rassegnazione che uno degli aerei inglesi
si staccava dalla
sua formazione per inseguire il suo collega e con amara sorpresa
notò che sulla
sua fusoliera era disegnata una strega a cavallo di una scopa, simbolo
dell'asso inglese Milo Ward. Dal nome sembrava un attore del cinema ma
chi lo
aveva incontrato sapeva che forniva ben altro tipo di spettacolo. Un
avversario
terribile per un pilota esperto, figurarsi per un novellino. Con una
stretta al
cuore per non poterlo aiutare nell'immediato, si gettò sugli
altri due aerei
del gruppo deciso a tutto per toglierli di mezzo e soccorrere, se
ancora in
tempo, il suo collega. Giovanni si rese conto di avere un avversario in
coda.
Non c'era quartiere nè misericordia. Per un pò
dimenticando tutto ciò che gli
avevano insegnato, basandosi solo sul suo istinto, cercò
solo di fuggire. Il
Gloster era più manovrabile del CR42 che avrebbe avuto
vantaggio solo
procedendo in linea retta. Questo però avrebbe avuto come
conseguenza solo
quella di farsi abbatter in pochi secondi. Apparentemente le sue iniziative sembrarono
funzionare ma poi,
l'inglese, cominciò ad essere più preciso con le
raffiche della sua
mitragliatrice e il giovane aviatore italiano sentì
fischiare i proiettili
sempre più vicino. Poi alcuni di essi colpirono l'aereo in
punti per fortuna
non essenziali. Quanto sarebbe ancora durata la sua fortuna? Aveva
anche lui un
bell'aereo ed era anche lui ben armato. E allora? Voleva morire
così
stupidamente, stare lì a farsi fare a pezzi? Tanto valeva
allora che fosse
rimasto a casa sua, come tanti suoi amici, magari a fare il cameriere
alle terme
o a imbottigliare la famosa gazzosa! E che avrebbe detto suo padre?
Questo gli
fece tornare alla mente che lui era non solo un buon pilota, ma anche
un buon
collaudatore. Quante ne aveva viste e quante volte aveva rischiato la
pelle,
uscendo dai guai sfruttando al massimo le caratteristiche del suo
aereo? Doveva
a tutti i costi togliersi l'avversario dalla coda ma per quante manovre
facesse
lui era sempre lì, a mitragliarlo. Eseguì un
rapidissimo looping che per un
attimo lo portò in coda all'inglese. Facendo forza su
sè stesso per tacitare le
sue riserve ad uccidere, immediatamente fece fuoco colpendo, con una
breve
raffica, un'ala dell'aereo nemico. Questo sobbalzò sotto i
colpi ma fu solo
questione di un attimo. L'avversario riprese la posizione di coda e non
si fece
più sorprendere da quella manovra. A questo punto l'unica
cosa da fare era di
rallentare e farsi sorpassare. Pescando freneticamente nei suoi ricordi
di
collaudatore ricordò una manovra particolare.
Improvvisamente, 'incrociò i
comandi', giocando contemporaneamente su timone e alettoni, facendo
mettere
l'aereo di traverso alla direzione del moto e causando una rapida
decelerazione. L'avversario, sorpreso, si trovò a superare
suo malgrado l'aereo
italiano ed appena fu nella posizione precisa, Giovanni gli
scaricò addosso
tutta la potenza delle sue due mitragliatrici Breda-Safat da 12 mm,
crivellandolo di pallottole per la soddisfazione di tutta la rabbia, la
paura,
la frustrazione che l'altro gli aveva fatto provare. Il Gladiator
iniziò a
lasciare una densa scia di fumo, mentre il motore perdeva colpi ed il
pilota,
forse ferito, tentava disperatamente di controllarlo per evitare di
precipitare
in mare. Ora avrebbe dovuto infliggere il colpo di grazia ma invece
andò a
cercare con lo sguardo il suo compagno di volo per vedere cosa gli
fosse
accaduto e lo vide che si destreggiava contro i suoi due avversari,
indubbiamente anche quelli, due ossi duri. Senza pensarci un attimo,
fece un
gesto, come di saluto, verso il pilota in difficoltà che
magari si aspettava
una raffica fatale, abbandonandolo al suo destino e si diresse verso
gli altri,
sorprendendo tutti con delle raffiche
di
mitragliatrice che ruppero il cerchio attorno al suo collega che subito
colpì
ripetutamente un aereo avversario che esplose letteralmente in una
palla di
fuoco, senza scampo per il pilota. Il superstite inglese immediatamente
si
dette alla fuga verso est. Rosmini contento e sorpreso per aver rivisto
vivo il
suo collega, gli fece segno di lasciar perdere e tornare a casa,
considerato
che dovevano fare i conti con il carburante. Al ritorno al campo,
increduli
meccanici e piloti ascoltavano il racconto di Rosmini che forse, con
qualche
leggera esagerazione, raccontava di come il suo compagno aveva
praticamente
abbattuto 'la strega', ed alla sua prima uscita, e poi di come gli
fosse corso
in aiuto, consentendogli di abbattere un aereo nemico. Gli altri
ascoltavano
increduli e affibbiavano di quando in quando grandi pacche sulle spalle
del
giovane sergente, il quale, solo in quel momento, stava realizzando di
come
fosse andato vicino alla morte e di come tutto all'improvviso avesse
iniziato
ad accadere come in un sogno. A quel punto, lo stomaco, decise di farsi
sentire, costringendolo a lasciare il gruppo in fretta e furia per
trovare un
posto appartato dove liberarsi delle brutte sensazioni e non solo di
quelle. Solo
il sergente Coniglio non partecipava alla festa. Anzi, accanto agli
aerei
appena atterrati, valutava i danni riportati con un senso di rabbia e
disapprovazione per ciò che era accaduto e tremando al
pensiero di quello che
avrebbe potuto accadere, e protestando a voce alta per il fatto che non
si
mandavano dei ragazzini a fare lavori da grandi. Anche il capitano,
saputo ciò
che era accaduto, si era felicitato per come erano andate le cose. Ma
poi,
subito dopo, non aveva potuto fare a meno di chiedersi cosa ci facesse
in quel
settore Milo Ward che notoriamente era il braccio destro di un altro
asso dell'aviazione
inglese. Si trattava di Pattle Marmaduke che però in quel
periodo risultava al
comando della squadriglia 'B' dell 80^ squadrone di stanza a Sidi
Barrani. Che
gli Inglesi stessero preparando qualche attacco in quella zona? Avrebbe
informato immediatamente i superiori della cosa. Quella notte Giovanni
era
andato a letto ma non riusciva a prendere sonno. In cosa si era messo?
Uccidere
o essere ucciso e in
una sola volta era
riuscito a ficcarsi in una tale situazione. Chissà, poi, se
l'avversario era
sopravvissuto. Verso mezzanotte sentì bussare in modo
talmente discreto alla
porta che, se fosse
stato addormentato,
non se ne sarebbe nemmeno accorto. Chiedendosi chi fosse, si
alzò ed andò ad
aprire. Con vera sorpresa si trovò davanti il tenente
Visentini che con un
cenno di saluto entrò direttamente in camera e si mise a
sedere sull'unica
sedia disponibile, posta accanto alla piccola scrivania che, assieme
alla
branda ed un piccolo armadio costituiva l'arredo della stanzetta. Poi,
con le
braccia poggiate sulle gambe, le mani intrecciate e lo sguardo chino,
come a
guardarsi le scarpe, restò in silenzio, di certo per cercare
attentamente le
parole che avrebbe dovuto dire. Giovanni restò anche lui in
silenzio, seduto
sul letto, in attesa, curioso di sapere cosa aspettarsi. Poi l'altro
incominciò. Iniziò osservando che se, totalmente
inesperto di combattimento,
era ancora vivo, questo certamente si doveva al fatto che non aveva
seguito
quanto insegnatogli durante l'addestramento. Gli Inglesi conoscevano
perfettamente
le manovre consigliate ed addirittura si era visto in qualche caso che
le
avevano addirittura anticipate. Se poi aveva quasi abbattuto la
'strega', non era
stato per fortuna, che in quel caso proprio non c'entrava, ma
perchè in qualche
modo era bravo, ci sapeva fare, era un tutt'uno con il suo aereo. Gli
chiese
infatti la sua storia e quando apprese delle abilità
acquisite da Giovanni si
spiegò perchè lo scontro si era concluso con
quell'incredibile esito. Gli disse
che da tempo stava aspettando uno come lui, che gli desse una mano in
un
importante progetto. Poi, come cambiando discorso, iniziò a
parlare di sè
stesso. Il giovane lo stava a sentire con grande interesse,
comprendendo che
stava per essere messo a parte di fatti che non erano state narrati a
molti
altri. Raccontò che nel 1935 era stato rifiutato dall'
Accademia Aeronautica
Italiana ma tanto era il suo entusiasmo, che aveva conseguito il
brevetto di
volo privatamente, frequentando un corso a Taliedo, vicino Milano. Con
il
titolo ricevuto fu ammesso nella Regia Aeronautica Italiana col grado
di
sottotenente. A quel punto, nel novembre del 1937, si offrì
volontario per
andare a combattere nella guerra civile spagnola. Fu questa una
decisione che
aveva influito pesantemente sulla sua vita. Infatti si trovò
ad assistere e,
purtroppo, anche talvolta a partecipare ad azioni violente. La guerra
di Spagna
era stata una guerra spesso disumana, combattuta fra fazioni che si
odiavano
ferocemente. Erano state compiute vere atrocità da tutte e
due le parti in
conflitto. Aveva
veduto tanto sangue e
morte attorno a lui, aveva perduto tanti amici e compagni e questo lo
aveva
segnato. Tornato a casa, era stato riconosciuto come eroe di guerra e
decorato
con una medaglia di argento. Fu inserito come effettivo nella Regia
Aeronautica
con il grado di tenente. Purtroppo egli aveva conosciuto la guerra
sotto il
profilo peggiore. Lo scopo che si era prefisso era quello di far
sì di perdere
meno compagni possibile e per quello, occorreva che le scuole militari
di volo
e le accademie, aggiornassero le tecniche di combattimento che
insegnavano agli
allievi, adeguandole alle nuove situazioni e in particolare ai nuovi
apparecchi, capaci di manovre ben diverse da quelle tradizionali. Non
lo
avevano ascoltato e anzi, lo avevano spedito a 2500 miglia da casa,
dove
dissero che avrebbe impegnato meglio le sue risorse. Sapendo che
l'aspettativa
di vita dei suoi compagni, specie i novellini, sarebbe probabilmente
stata
brevissima, e proprio Giovanni era il più adatto a
testimoniarlo, aveva scelto
di non fare amicizia con nessuno, per non dover soffrire in caso di
perdita,
così come era stato diverse volte in Spagna. Passava quindi
per antipatico,
superbo, lunatico, scontroso ma era solo un modo di difendersi.
Giovanni si
sentiva in qualche modo lusingato da quelle confidenze ma ancora non
capiva
dove l'altro volesse andare a parare. E l'altro glielo disse. Con il
permesso
del capitano avrebbero fatto vedere agli altri cosa potevano fare due
aerei
come i loro, in combattimento, simulando nello spazio aereo sopra il
campo una
scena di combattimento simulato fra di loro, cosicchè gli
altri potessero
vedere come attaccare e difendersi in modo più moderno
efficace e sicuro.
Giovanni, con grande entusiasmo accettò e per l'emozione,
anche quando l'altro ormai
se ne era andato, faticò molto a riprendere sonno. Il
mattino seguente alle ore
06.00 precise, Giovanni e il tenente erano seduti negli abitacoli dei
loro
aerei, pronti per una sfida che si sarebbe svolta nello spazio
sovrastante il
campo. Tutto il personale interessato era presente ai bordi della pista
per non
perdersi quello spettacolo. Fra gli altri c'erano il capitano Raffi
che,
fumando la sua pipa era curioso di vedere cosa sarebbe uscito fuori
dallo
scontro simulato fra il suo miglior pilota e quel ragazzino. Si era
fidato però
del giudizio del suo tenente. C'era pure il sergente maggiore Coniglio
che si
guardava intorno inquieto, come a cercare rassicurazioni circa quello
che
sarebbe accaduto. Non aveva ben capito lo scopo di quella esibizione ed
era
sempre molto nervoso quando i 'suoi' aerei venivano coinvolti senza
valido
motivo in eventi non strettamente necessari. Scambiatisi un cenno
convenuto i
due piloti decollarono per raggiungere la quota stabilita. Appena
questo avvenne,
Visentini si mise subito 'in caccia', incollandosi alla coda del
compagno.
Giovanni rispose immediatamente cercando di invertire le posizioni,
Seguì da
parte di tutti e due una serie di manovre ritenute incredibili e rese
possibili
solo dalla approfondita conoscenza del CR42 e anche dalla sua grande
robustezza. Il personale a terra non riusciva a staccare lo sguardo da
ciò che
avveniva nel cielo sopra il campo e tutti erano lì con il
naso in aria quasi
rapiti da quello spettacolo di indiscussa bravura. I piloti, in
particolare,
non perdevano nulla di quella scena e addirittura spesso mimavano,
senza
accorgersene, per quanto possibile, i gesti con cui controllare i
comandi per
ottenere quegli effetti particolari. Visentini era un asso ma Giovanni
stava imparando
in fretta e poi aveva conoscenza di alcuni trucchi che potevano tornare
utili
in simili frangenti. L'importante, e quì aveva ragione il
tenente, era che
quelle manovre diventassero automatiche per poter essere utilizzate
quando
necessario senza dover andare a pescare nella memoria scappatoie quando
si è
sotto il fuoco nemico, alterati dall'ansia e dalla tensione. Dopo una
mezz'ora
di quelle acrobazie, Giovanni non riusciva più a togliersi
l'altro dalla coda e
allora a tutta manetta, iniziò a salire repentinamente.
Appena raggiunta la
posizione verticale, tolse completamente la manetta. L'aereo, dopo aver
rallentato, si ribaltò e iniziò a precipitare
capovolto. Il tenente sorrise
valutando l'ingenuità di quella manovra. Si sarebbe messo
immediatamente in
posizione per sorprendere il giovane sergente quando si fosse rimesso
in linea.
Invece con raccapriccio si avvide che l'altro, perso il controllo,
forse per
aver voluto esagerare, era entrato in una vite incontrollabile. Subito
si
diresse verso di lui per cercare di capire cosa era successo. Da terra
vedevano
attoniti quell'aereo che veniva giù come una foglia morta,
senza più controllo
nè speranza. Il sergente Coniglio, letteralmente
paralizzato, osservava quel
bell'aereo, quasi nuovo, che stava per essere distrutto stupidamente
per un gioco
andato storto. Giunto a poco più di un centinaio di metri
dal suolo, Giovanni
che aveva costantemente tenuto d'occhio sia il terreno che il suo
compagno,
manovrò in tono deciso i suoi comandi. Tolse manetta,
ruotò il timone in senso
contrario a quello della vite, picchiò leggermente e poi,
quando l'aereo smise
di ruotare, richiamò in modo deciso impostando tutta
manetta. Si trovò a circa
venti metri dal suolo ma soprattutto sotto la 'pancia' del velivolo del
collega. Se fosse
stato in combattimento, l'altro
aereo non avrebbe avuto scampo. Visentini, più meravigliato
che risentito, non
aveva capito subito cosa era accaduto, ma presto capì di
aver visto qualcosa di
incredibile ma che, sopratutto, avrebbe potuto essere usato in
battaglia. Fece
all'altro un cenno di assenso e poi gli segnalò di
rientrare. Appena atterrati,
il tenente andò incontro al compagno e gli strinse la mano,
complimentandosi
per la maestria con cui aveva affrontato la prova. Era proprio quello
che
cercava per mostrare agli altri, cosa avrebbero potuto fare con
quell'aereo
oltre alle solite 'striminzite' manovre classiche insegnate nei corsi
che non
servivano più a nulla. Gli altri che da terra avevano
seguito con il fiato
sospeso la conclusione di quella prova, ora li circondavano
complimentandosi
con entrambi e iniziando subito a fare mille domande su ciò
che avevano visto.
Mise termine a quella particolare atmosfera di entusiasmo il sergente
Coniglio
che irruppe in mezzo al gruppo urlando come un ossesso, con gli occhi
rossi e i
pugni stretti, dicendo che non si poteva giocare così con i
motori che curava
tutti i giorni. Che i 'suoi' aerei non erano fatti per giocare e che se
fossero
precipitati, gliela avrebbe fatta pagare. Come, poi, non si sa!
Giovanni, che
si sentiva in qualche modo responsabile e che forse aveva esagerato un
po',
cercò di placare il sergente, asserendo di avere avuto la
situazione sempre
sotto controllo. E vista la scarsa convinzione dell'altro gli disse che
quando
si collaudava un prototipo in grado di giocare qualsiasi scherzo, dalla
'piantata'
del motore alla perdita di un'ala, come di parte della fusoliera, si
imparava a
tirare fuori dalla macchina ogni risorsa per riprendere il controllo o
addirittura semplicemente per salvarsi la pelle.
E lui aveva partecipato proprio ai collaudi
del CR42. Il sergente però non intendeva ragioni e rivolto
al capitano che era
intervenuto disse chiaro e tondo che non avrebbe più
permesso un uso
tale delle 'sue' macchine. Il capitano con
toni bruschi lo congedò e gli disse che loro erano
lì per fare il proprio
dovere e tutti dovevano fare la propria parte senza storie. Stavolta il
sergente aveva esagerato anche se da come erano andate le cose, non gli
si
potevano dare tutti i torti. Quella manovra aveva spiazzato e
affascinato un pò
tutti e il capitano temeva seriamente che qualche pilota, magari meno
abile di
quei due matti che si erano 'esibiti' ci lasciasse realmente la pelle
nel
tentativo di eseguirla. Fu molto esplicito con i due ragazzi. Allenare
e
aggiornare i colleghi, andava bene, ma senza elementi estremi che
avrebbero
potuto mettere in serio pericolo uomini e macchine. Purtroppo egli
sapeva bene
che, se pure era vero che alcuni dei componenti della squadriglia erano
elementi di gran valore, gli ultimi rimpiazzi si erano rivelati
piuttosto
modesti. Così nei giorni seguenti, con il beneplacito del
capitano Raffi e
l'assicurazione al sergente Coniglio che non avrebbero più
eseguito certe
manovre estreme, i piloti si esercitarono con grande entusiasmo e
serietà per
eseguire le varie manovre in modo quasi automatico. Purtroppo il loro
allenamento non potè durare molto a lungo perchè
la mattina del 3 luglio,
arrivò una pressante richiesta di intervento da Metemma, una
località a 270
miglia a est del loro campo, dove gli Inglesi avevano iniziato a
sferrare un
serio attacco. Partì un gruppo di 5 aerei guidati dallo
stesso capitano.
Giovanni venne lasciato a Massaua con il compito di continuare ad
istruire i
piloti che ne avevano più necessità. Era chiaro
che di lì a poco, gli impegni
sarebbero divenuti sempre più pressanti e tutti avrebbero
dovuto dare il
meglio. Il ragazzo non fu affatto dispiaciuto di rimanere
perchè ancora non
riusciva ad entrare nella parte del combattente, non per vigliaccheria,
ma
ancora l'idea di uccidere, seppure in battaglia, gli procurava seri
problemi di
coscienza. La sera tutti gli aerei
rientrarono alla base. Per fortuna erano tutti illesi ma
avevano
esaurito tutte le munizioni ed il carburante era agli sgoccioli. Gli
Inglesi
erano stati fermati dalle azioni combinate fra terra a e cielo.
Oggi,
paesino nord Italia, 04
aprile 2009
Uscì
dall'hangar a velocità
moderata. Doveva fare molta attenzione che l'emozione non gli giocasse
brutti
tiri. Sarebbe stato grottesco che tutto il suo folle piano fallisse per
aver
urtato qualcosa al suolo. Osservando le maniche a vento,
stabilì che sarebbe
dovuto decollare dalla pista 09 e quindi si diresse con l'apparecchio
al punto
attesa previsto. Ora era completamente scoperto e, peggio ancora,
avrebbe
dovuto passare proprio davanti alla casa di Pietro, il guardiano. Ma
non aveva
più paura, sentiva che il suo scopo stava per realizzarsi e
tutto il resto
poteva andare all'inferno. Passando davanti all'alloggio del custode,
vide che
questi usciva per vedere chi fosse ad utilizzare un aereo a quell'ora.
Giunto
sulla porta e realizzato cosa stava osservando, Pietro non sapeva che
fare. Più
che altro non aveva capito cosa stesse accadendo. Quello che aveva
appena
veduto era semplicemente impossibile. Aveva appena visto due fantasmi
passargli
davanti. Giovanni lo vide rientrare nel suo alloggio, di certo per
chiamare
qualcuno al telefono. Ormai era prossimo al suo ingresso in pista. Data
un'
occhiata intorno, se non altro per abitudine, visto che a quell'ora
certamente
non erano previste operazioni di volo, entrò in pista e si
fermò un attimo per
fare gli ultimi controlli. Non esisteva più nient'altro,
solo lui, il suo
apparecchio e il cielo che lo aspettava. Non più freddo,
stanchezza, vecchiaia.
La cloche fra le sue mani, l'odore del motore caldo, il contatto con il
sedile
che lo fece sentire di nuovo un tutt'uno con il suo aereo. Diede tutta
manetta
e dopo una breve corsa, tirò a sè la cloche come
aveva fatto un numero
incalcolabile di volte. L'aereo rispose immediatamente. Le ruote si
staccarono
dalla pista e Giovanni fu di nuovo libero nel cielo.
Massaua,
05 luglio 1940
Il
mattino successivo venne
richiesto di nuovo l'intervento della squadriglia. Infatti le colonne
celeri
corrazzate italiane che avevano difeso Metemma, notando una apparente
vulnerabilità nelle forze inglesi in seguito alla sconfitta,
decisero di
incalzarle nella loro
ritirata e per
fare questo avevano bisogno di nuovo di un adeguato aiuto dall'aria.
Questa
volta il capitano, memore dei problemi che c'erano stati con il
carburante, decise
che per avere una effetto più incisivo, il gruppo impegnato
avrebbe dovuto
essere formato almeno da 10 aerei che per l'occasione erano stati
muniti ognuno
di due bombe da 50 kg montate sotto le ali. Stavolta era stato
reclutato anche
Giovanni. Le colonne inglesi, ritirandosi si diressero a Cassala col
doppio
scopo di trovare rifugio e rinforzare le difese di quella base. Il
primo
obiettivo della squadriglia era proprio intercettare e fermare queste
truppe. Le
intercettarono nelle immediate vicinanze di Gallabat. Al primo
passaggio gli
aerei sganciarono le loro bombe producendo gravi problemi nella colonna
britannica che si dovette arrestare. L'azione successiva fu quella di
mitragliare i superstiti i quali, ripresisi in un tempo incredibilmente
breve,
frutto della loro notevole preparazione, si erano immediatamente messi
al
riparo iniziando un terribile fuoco con
le loro mitragliatrici messe velocemente in linea. Giovanni non gradiva
quel
tipo di combattimento. Una delle sue bombe cadendo con precisione aveva
centrato in pieno un piccolo tank che era sparito in una palla di fuoco
ed egli
si era sentito enormemente dispiaciuto per quell'equipaggio, che non
aveva mai
visto e che ora, per sua mano, non c'era più.
Tornò all'attacco estremamente
riluttante a far fuoco su quelle figure a terra. Fu il fischio delle
pallottole
che gli venivano sparate contro che lo costrinsero a cancellare i suoi
scrupoli. Come in un sogno, si vide mitragliare il nemici al suolo.
Vide uomini
cadere, vide postazioni che venivano distrutte e questo con un distacco
che lo
sorprese. Alla fine del combattimento, tornando verso casa si rese
conto che
qualcosa stava cambiando dentro di lui. Stava facendo un lavoro che
andava
fatto con la massima attenzione e accuratezza, pena la morte. Non
poteva avere
esitazioni o scrupoli. La parte della sua mente preposta all'istinto di
conservazione, lo stava trasformando, gli faceva accettare le loro
azioni, come
ineluttabili, inevitabili. Ed egli lo capiva, ma non significava che
gli
piacesse e gli lasciava in bocca un gran senso di amaro. Giunti alla
loro base,
furono raggiunti da un messaggio che riferiva che le forze inglesi,
fortemente
decimate, lasciati sul campo numerosi caduti e molto materiale bellico,
erano
riuscite a raggiungere la base di Cassala. Si ordinava
perciò di fare
rifornimento di carburante e di bombe e quindi di ripartire senza
indugio.
Questo era il prezzo da pagare per essere considerati fra i migliori
del
quadrante e soprattutto quando le forze non erano così
numerose da garantire un
adeguato ricambio. Quando giunsero a Cassala, videro che le forze
italiane di
terra, costituite da due colonne di artiglieria leggera e fanteria,
sostenute
da quattro carri, si erano schierate in posizione ed attendevano solo
che gli
aerei, bombardando le zone strategiche per la difesa, consentissero
loro di
attaccare senza subire gravi perdite. Le bombe, sganciate con grande
precisione
fecero il loro lavoro. I piloti per abbassarsi a sufficienza in modo di
avere
più possibilità di successo, sfidavano una
grandinata di pallottole che dal
basso li prendeva di mira. Per fortuna nessun aereo subì
gravi danni. Dopo
un'ora di aspri combattimenti, fra azioni terrestri ed aerei che, fino
a che lo
consentì la riserva di carburante, continuarono a dar man
forte mitragliando
dall'alto, gli inglesi cedettero il campo e trovarono il modo di
fuggire ,
ritirandosi a Gadaref a circa 50 Km a ovest. Tornando verso la base si
imbatterono in un ricognitore inglese, un Vikers Wellesley, che sulla
zona di
Decamerè stava fotografando il territorio. Visintini, uno
dei pochi che aveva
ancora proiettili nei caricatori facilmente lo abbattè.
Atterrati, il capitano
Raffi richiamò l'attenzione dei suoi uomini sul fatto che
non solo dovevano
controllare sempre il carburante, ma che dovevano essere sicuri di
avere, per
il ritorno, una minima scorta di munizioni per far fronte ad ogni
evenienza.
Tratte:
9)
Massaua (HHAS) - Cassala
(HSKA) Sudan - 270 Mn
10)
VFR Cassala (HSKA) - Gadaref
(HSGF) Sudan - 120 Mn
11)
VFR Gadaref (HSGF) - Metemma
(HAMM) Etiopia 120 Mn
12)
Metemma (HAMM) - Massaua
(HHAS) Eritrea -
290 Mn
13)
VFR Bahar Dar (HABD9 - Sawara
- Gorgora - Koga - Baha Dar (HABD) Etiopia - 145 Mn
continua.......
Nei
giorni seguenti, mentre la
squadriglia riprendeva il suo normale volo di pattugliamento, le forze
di terra
continuarono la loro avanzata conquistando il forte inglese di Gallabat
e poi i
villaggi di Kezzan, Gurmur e Dumbode. Le colonne corrazzate celeri
italiane,
galvanizzate dalle continue vittorie, sembravano inarrestabili.
Attaccarono la
forte guarnigione inglese di Mojale, conquistandola dopo quattro giorni
di
aspri combattimenti. Il successivo tentativo degli Inglesi di
riconquistarla
andò a vuoto e anzi essi furono costretti ad abbandonare
anche Debel e Buna. La
evidente difficoltà britannica, invitò gli
Italiani ad agire per cacciare gli
inglesi dalla Somalia e più precisamente dal territori
definito 'Somaliland'. Allo
scopo vennero organizzate
tre colonne
militari, costituite da carri e artiglieria leggeri e numerosa
fanteria. La
prima si diresse a Zeila, posta circa a 80 Km a sud del golfo di
Tadjura. La
seconda verso
Adlek, a circa 250 Km a
sud/est del primo obiettivo e la terza si diresse verso Aducina a circa
40 Km a
sud di Adlek. Come supporto a tutta l'operazione, il comando italiano
previde
un'efficace azione di intervento aereo. Fra i corpi prescelti, anche
considerate
le forze disponibili sul territorio, ci fu la 412^ squadriglia, nota
per la
fama che si era guadagnata nelle precedenti azioni combinate con le
forze
terrestri. Per
questo tutto il gruppo,
con sufficienti dotazioni di munizioni, materiali ed aerei, fu
trasferito
d'autorità a Balbala, un sobborgo a sud est di Gibuti,
presso il fiume Ambouli.
La cosa avvenne malgrado le vibrate proteste del capitano Raffi e
soprattutto
del sergente Coniglio il quale tremava al solo pensiero delle 'sue'
macchine e
del 'suo' prezioso materiale a spasso nel deserto, per uno spostamento
di 400
Km in mezzo al nulla. Malgrado ciò, il 1^ agosto ebbero
inizio le operazioni di
trasferimento, lasciando a Massaua un piccolo contingente per la difesa
e la conduzione
dell'aeroporto e si concluse senza particolari incidenti il giorno 3
dello
stesso mese.
Tratte:
14)
Massaua (HHAS) - Gibuti
Chabelley (HDCH) Somalia - 380 Mn Tp
L'aeroporto
consisteva in una
polverosa striscia di terra battuta.
Per gli alloggi si dovettero allestire in fretta delle tende per
proteggere gli
uomini e i materiali dai tremendi raggi del sole di giorno e dal gelo
della
notte. Inoltre poichè le colonne sarebbero partite il giorno
4 agosto, occorse
agire con la massima sollecitudine per mettere gli aerei in condizione
di
combattere. Il giorno
6 la prima colonna
raggiunse e conquistò Zeila senza bisogna di particolare
aiuto. Per la seconda
colonna le cose si dimostrarono molto più ardue. Infatti per
raggiungere la
meta prefissata, Adadlek, doveva superare il passo di Kerain che gli
Inglesi
avevano notevolmente fortificato,
decisi
a difendere a tutti i costi l'obiettivo degli Italiani. La squadriglia
fu
impegnata quasi in continuazione per battere le postazioni nemiche con
bombe e
mitragliamenti a bassa quota. Erano ogni volta missioni difficili e
pericolose
perchè a quell'epoca anche un semplice colpo di fucile ben
assestato poteva
seriamente danneggiare un aereo, specialmente considerando che per
avere
precisione nelle loro operazioni, i piloti erano costretti a volare a
bassissima quota, con velocità relativamente basse. Infatti
nel corso delle
loro azioni, Giovanni ed i suoi compagni, avevano subito diversi colpi,
per
fortuna senza serie conseguenze. Il sergente Coniglio era
però seriamente
preoccupato. Dirigeva la sua squadra di meccanici con puntiglio e
ininterrottamente.
Amava le 'sue' macchine, ma voleva soprattutto che i 'suoi' ragazzi
andassero
in missione senza rischiare per un bullone lento o un particolare
tralasciato.
Il sergente era però in ansia anche per un altro motivo.
Egli, meglio degli
altri aveva notato infatti che, dopo un iniziale rifornimento di
carburante,
munizioni e quant'altro, non era arrivato più nulla da Addis
Abeba, compresi i
ricambi promessi ma mai consegnati. Anche il capitano Raffi si era reso
conto
della situazione. Aveva cercato di fare pressione sul comando locale e
non
avendo ricevuto soddisfacenti risposte, sfidò la corte
marziale dicendo che se
non fossero arrivati rifornimenti, la squadriglia, armi e bagagli, se
ne
sarebbe tornata alla base con il carburante restante, prima di essere
costretta
a terra per il suo esaurimento. Alla fine, vista la determinazione del
capitano, che non si fece intimidire dalle minacce nè scese
a compromessi, giunsero
i sospirati rifornimenti ma in misura
estremamente ridotta. Quel tanto per andare avanti alcuni giorni.
Durante una
riunione molto informale e riservata che Raffi ebbe con i suoi colleghi
del
posto, venne fuori una realtà sconcertante. Prima
dell'inizio della guerra era
stato fornito quanto necessario in buona quantità ai
depositi posti in
corrispondenza delle principali basi italiane (Massaua,
Mogadiscio e Addis Abeba). Iniziate
le ostilità era abbastanza evidente che loro erano
praticamente tagliati fuori
dalla Patria poichè gli Inglesi controllavano le vie di
accesso dove avrebbero
dovuto passare i rifornimenti, ossia il Canale di Suez e lo stretto di
Gibilterra.Ed effettivamente dopo l'inizio delle operazioni, si era
capito da
vari segnali che ulteriori integrazioni sarebbero state molto difficili
e
improbabili anche per la grande distanza dalla Patria, per la
vastità delle
zone di battaglia e infine per la quantità di operazioni in
corso. Di
conseguenza ogni presidio tentava di salvaguardare le proprie scorte a
qualsiasi costo. Il giorno 11/8 il passo venne preso e gli Inglesi si
videro
costretti a ritirarsi a Berbera, decisi a resistere a tutti i costi. A quel punto le due
colonne italiane, la
seconda e la terza, unite insieme, con il determinante contributo
dell'aviazione, il 19/8 conquistarono Berbera, raggiungendo il proprio
obiettivo.
Tratte:
15)
VFR Gibuti Chabelley (HDCH) -
Zeila - Adadlek (Adadley Somalia) - Berbera (HCMI) Somalia - 220 Mn continua...
Due
giorni dopo la 412^
squadriglia lasciava il campo per tornare a Massaua. Poco prima di
partire
furono informati che da un campo di prigionia vicino Addis Abeba era
riuscito a
fuggire il pilota inglese
Milo Ward il quale, guarito dalle sue ferite, con un gruppetto di
colleghi, era
riuscito a far perdere le proprie tracce, di certo aiutato dalle
popolazioni
locali che per vari motivi non vedevano gli Italiani di buon occhio.
Durante il
lungo viaggio, nella colonna di terra, il sergente Coniglio con i suoi
meccanici era abbastanza soddisfatto. Non avevano subito perdite e gli
aerei
erano usciti piuttosto bene dai combattimenti in cui erano stati
impegnati. In
aria i piloti, osservando il territorio che scorreva sotto di loro,
ripensavano
alle varie operazioni che avevano svolto. Non erano particolarmente
soddisfatti
malgrado l'ottimo lavoro compiuto. Quelle azioni di attacco contro le
forze
terrestri infatti non li esaltavano particolarmente. Abbattere tutte
quelle
figure lontane che al loro passaggio cercavano di nascondersi o
ripararsi
conoscendo l'effetto terribile e letale delle raffiche di
mitragliatrice che si
abbattevano su di loro, o peggio, delle loro bombe, non era ritenuto da
loro particolarmente
onorevole, pur considerando che stavano combattendo una guerra e quegli
uomini
al suolo, appena ne avevano l'occasione, rispondevano agli attacchi con
un
fuoco micidiale. Giovanni, fra gli altri, osservava con scarso
interesse il
terreno quasi sempre uguale che sorvolava e rifletteva con grande
amarezza sul
fatto che ora uccidere non gli faceva lo stesso pesante effetto delle
prime
volte. Le operazioni di quei giorni che all'inizio gli avevano creato
seri
problemi, legati alla sua sensibilità, alla fine venivano
svolte con una certa
indifferenza, stando attenti per lo più a non farsi
ammazzare. E intanto il
terreno continuava a scorrere sotto di lui, ........
Oggi,
paesino nord Italia, 04
aprile 2009
Con
le mani strette attorno alla
cloche ed i piedi saldi sui controlli del timone, Giovanni osservava
con gioia
e trepidazione il suolo che passava sotto di lui, il campo, ormai
lontano, il
corso del fiume che si stava avvicinando e l'abitato, poco distante di
cui si
distingueva il profilo delle case della periferia. Quando l'altimetro
arrivò a
segnare 1000 piedi rimise l'aereo in assetto orizzontale faticando non
poco
perchè quella macchina resisteva a scalciava peggio di un
mulo e risultava
difficile farla volare mantenendo costanti rotta e quota. Giovanni
faceva
ricorso a tutta la sua esperienza che gli consigliava di assecondare
piuttosto
che combattere le bizzarrie di quella assurda macchina resuscitata.
Così con
oscillazioni larghe e lente, arrivò a sorvolare l'abitato.
Sapeva che non
avrebbe dovuto farlo ma la tentazione era troppo forte. Dall'alto
notò le strade
quasi deserte, vista l'ora, ma chi era fuori non potè fare a
meno di alzare il
viso per osservare quello strano uccello alto nel cielo. Era chiaro che
quell'aereo era solo una vecchia baracca che per qualche miracolo si
reggeva in
aria, ma Giovanni si sentiva il padrone del mondo ed il vento sul viso,
la
vibrazione del motore più o meno regolare, gli risvegliarono
antichi
ricordi.......
Massaua,
settembre 1940....
Dopo
il loro ritorno alla base,
l'attività era ripresa regolare e senza
sorprese. Lungo la linea del fronte non si svolgevano
importanti
operazioni e l'aviazione inglese, impegnata in quel periodo per lo
più in
Libia, non dava praticamente segni di attività. Solo durante
il pattugliamento
era frequente trovare fotoricognitori inglesi, che venivano
frequentemente
abbattuti o comunque seriamente danneggiati. Il capitano Raffi si
chiedeva
perchè tanto interesse per quella zona. Anche il comando,
che riceveva
regolarmente i rapporti dalle varie unità, si era posto
quell'interrogativo.
Alla fine arrivò alla conclusione che gli Inglesi stessero
preparando qualcosa
da quella parte e così decise di spostare diverse
unità a nord e a sud di
Massaua allo scopo di prevenire sorprese. Raffi, temeva invece che
tutta quella
attività servisse solo per creare un diversivo. Ma ci fu un
fatto accaduto il 6
novembre approssimativamente sopra Agordat che rafforzò i
suoi dubbi. Mentre
Raffi con un gruppo di 8 aerei era di scorta
a sei bombardieri Caproni CA 133, appartenenti alla 65^
squdriglia,
momentaneamente distaccata a Massaua, venne improvvisamente attaccato
da 8
aerei inglesi Gloster Gladiator spuntati dal nulla. La sorpresa
produsse
diversi danni agli aerei italiani ma non gravi. La reazione fu
immediata e
tremenda. Fra l'azione dei caccia, fra cui si distinguevano Giovanni e
Visintini,
e le difese dei bombardieri, forniti di quattro mitragliatrici Lewis da
7.7 mm
ciascuno, furono colpiti 5 aerei nemici. Due, li abbattè da
solo il tenente Visintini
ed uno lo danneggiò gravemente Giovanni che lo vide
precipitare distruggendosi
completamente al suolo. Il tenente Rosmini, che poteva vantare anche
lui una
vittoria e che, come al solito, era sempre al centro dello scontro,
anche
stavolta, a causa dei danni subiti, riuscì
a malapena a raggiungere la base. C'è
da dire che se era vero che spesso 'le prendeva' era anche vero che restituiva colpo su colpo i
proiettili con gli
interessi e gli avversari avevano imparato a temere il suo aereo.
Considerata
la comparsa di quella squadriglia, era ora evidente che gli Inglesi si
apprestavano a preparare qualcosa a occidente del lago Tana e che
quindi, da
qualche parte, avevano stabilito delle basi di cui nessuno sospettava
l'esistenza. A riprova di questa ipotesi, il 30 settembre cinque
Blenheim I
attaccarono i depositi Italiani a Gura. Produssero diversi danni ma
dalle
difese antiaeree ne vennero abbattuti tre perciò gli altri
decisero di
interrompere l'azione scomparendo verso ovest. Il giorno 16 ottobre, in
seguito
a segnalazioni, in parte fornite da gente del posto, la squadriglia
ricevette
l'ordine di partire al completo entro 24 ore, armata di bombe, alla
volta di
Gadaref, dove erano stati segnalati grossi movimenti di truppe inglesi.
L'obiettivo si trovava quasi al limite dell'autonomia degli aerei. Una
vera
follia! Se fosse andato tutto bene, giunti sull'obiettivo, avrebbero
avuto
dieci o quindici minuti al massimo per agire. Bastava un vento
contrario, un
minimo di resistenza da terra o peggio, un duello in aria con qualche
aereo
nemico, e sarebbe stato impossibile tornare a casa. Purtroppo le bombe
avrebbero dovuto prendere il posto di eventuali serbatoi supplementari.
Per sfruttare
al massimo la sorpresa avrebbero dovuto avvicinarsi a bassissima quota
e
iniziare immediatamente a mitragliare eventuali obiettivi. In seguito,
vista la
situazione, prendere quota e bombardare gli obiettivi principali.
Praticamente
una tattica suicida. Giovanni si propose al capitano Raffi per andare
in
avanscoperta ed effettuare una ricognizione dei luoghi. Si fecero avanti anche altri
piloti dicendo di
volerlo accompagnare. Il capitano in realtà non gradiva
molto l'idea. Il volo
in solitaria sarebbe stato pericoloso. Per un lungo tratto in
territorio nemico
e senza possibilità di aiuto da parte di nessuno. Si faceva
sentire sempre più
pesantemente l'assenza della radio. D'altronde un solo aereo avrebbe
potuto
avere maggiori possibilità di passare inosservato. Alla fine
Giovanni la
spuntò. Era giovane, abile e pieno di risorse. Il sergente
Coniglio gli montò
un serbatoio supplementare da 500 Kg che sarebbe stato sganciato appena
vuoto.
Partì nel tardo pomeriggio calcolando di giungere in serata
sull'obiettivo con
luce sufficiente per prendere visione dei particolari. Le tenebre che
sarebbero
poi calate all'improvviso, come accade nel deserto, avrebbero nascosto
la sua
fuga perchè una volta scoperto, se non abbattuto dalla
contraerea sarebbe di
certo stato inseguito. Il sergente Coniglio per dargli maggiori
possibilità
aveva modificato gli scarichi dei motori, allungandoli, per renderlo
invisibile
al buio. Partito, si diresse ad ovest salendo alla quota di 12000
piedi. Non
avrebbe seguito la rotta più breve, almeno all'andata ma
quella che più
facilmente l'avrebbe condotto alla sua meta considerato che, da solo,
avrebbe
avuto maggiori facilità a perdersi. Dopo trenta minuti di
volo, discese a 5000
piedi, una altezza sufficiente a intercettare il suo riferimento, il
fiume
Atbarah. Quando lo ebbe raggiunto, seguì il suo corso verso
sud finchè il
grande corso d'acqua si divise formando anche il fiume
Tekezè. A quel punto il
suo obiettivo si trovava a circa 30 miglia per rotta 246°. Allo
scopo di vedere
meglio il terreno sottostante, si era abbassò ulteriormente
e individuò la sua
meta già da una discreta distanza. Gli Inglesi probabilmente
si sentivano al sicuro
e non lesinavano
l'illuminazione. Prima
di partire gli avevano descritto approssimativamente la pianta del
luogo. Si
trattava di una cittadina di circa quindicimila abitanti, per la
maggioranza
arabi. Le case per la maggior parte erano poco più che
capanne. Era una zona
ricca grazie al commercio di sorgo, sesamo e arachidi. Nel periodo
delle piogge
la popolazione aumentava per i molti allevatori che giungevano con il
bestiame
per sfruttare i verdissimi ed estesi pascoli che si trovano sulle
colline
circostanti. La popolazione locale subiva la guerra cercando di non
farsi
coinvolgere più di tanto e per questo non parteggiava
apertamente nè per una
fazione nè per l'altra. Proprio a causa di ciò,
in caso di necessità, non
sarebbe stato prudente prendere contatto
con loro perchè la loro condotta era imprevedibile. La zona che gli
interessava era posta a
sud-ovest dell'insediamento. Pareva che gli Inglesi avessero stabilito
lì il
loro quartier generale e le loro principali installazioni, compreso un
aeroporto. Ciò non significava che non avessero disposto
altrove difese di
vario tipo, oltre a quelle
antiaeree. Si
avvicinò da est salendo di quota per avere una visione
d'insieme. Il suo aereo,
ora che era sceso il buio della notte, non si poteva scorgere essendo
anche
stato dipinto di nero nella parte inferiore. Si sarebbe però
udito il rumore se
non fosse stato abbastanza in alto. Ciò che vide,
confermò in parte le sue
informazioni. Ma la presenza inglese era maggiore alle aspettative.
Notò un
gran numero di automezzi e di baraccamenti nella parte sud della
cittadina. Di
certo sarebbero stati ben difesi e l'aeroporto era stato realizzato ad
est
dell'abitato, ad una distanza di circa due km. Era di adeguate
dimensioni e si
notavano tre grossi hangar con molti aerei di vario tipo, parcheggiati
all'esterno. Notò in varie zone dell'abitato ed anche
intorno, alcune strutture
recenti che spiccavano rispetto alle altre, probabilmente torrette o
quant'altro destinato alla difesa. L'architettura delle capanne non si
prestava
certo ad ospitare unità antiaeree. All'improvviso il cielo
si riempì di fasci
di luce provenienti da molti riflettori puntati verso l'alto. Per ora
non lo
avevano individuato ma di certo lo avevano scoperto e lo stavano
cercando. Si
meravigliò che i riflettori restassero immobili nelle loro
posizioni. Poi capì
che erano stati accesi per guidare l'arrivo di un certo numero di aerei
che
giungevano da ovest a rinforzare il contingente. Era stata una fortuna
perchè
se anche qualcuno da terra aveva avvertito il rombo del suo motore,
magari lo
aveva considerato come emesso dagli aerei in arrivo. Giovanni che aveva
scrupolosamente annotato tutto ciò che era riuscito a
notare, stabilì che era
ora di tornare a casa anche perchè avrebbe potuto incontrare
qualche avversario
in aria. Il ritorno,
eseguito alla quota costante di 12000 piedi fu abbastanza tranquillo e
gli
diede il modo di ragionare su quali fossero le migliori strategie per
intervenire in una situazione come quella. Prima che se lo aspettasse,
aveva
raggiunto la costa appena a nord di Massaua e dopo poco atterrava
indenne,
atteso con ansia da tutti i suoi compagni. La soddisfazione per la
missione fu
grande quando egli espose al capitano ed ai suoi compagni la
situazione,
soffermandosi sui particolari più importanti e rispondendo a
quasi tutte le
domande dei suoi colleghi. Alla fine, stanco e provato dalla fatica e
dal
freddo della notte, se ne andò a dormire lasciando agli
altri il difficile
compito di mettere a punto una valida strategia. Il mattino del 18
ottobre,
alle ore 05.00 gli aerei, riempiti i completamente i serbatoi,
decollarono alla
volta di Gadaref. Sarebbero giunti da sud, avrebbero bombardato i
baraccamenti
allo scopo di eliminare più inglesi possibile, magari i
piloti, e la stazione
radio, per poi concentrare il massimo sforzo sull'aeroporto cercando di
evitare
che gli aerei inglesi decollassero. Il tragitto per l'avvicinamento era
stato
studiato per evitare al massimo le difese di cui conoscevano
l'esistenza.
Purtroppo la deviazione a sud avrebbe ulteriormente accorciato il tempo
a
disposizione per l'intervento ma sorvolare la cittadina avrebbe
significato
rischiare di essere abbattuti, dando inoltre il tempo alle difese
dell'aeroporto di organizzarsi. Spuntarono praticamente dal nulla,
all'alba, a
bassa quota, per ottenere la massima precisione dei bombardamenti. I
primi
aerei sganciarono i loro ordigni sui baraccamenti la cui posizione era
ben
nota. Poi proseguirono verso l'aeroporto mitragliando gli aerei a terra
e
cercando di fare il massimo danno possibile con le bombe rimaste a
disposizione.
Mentre compivano la loro missione erano rimasti meravigliati per la
grande
quantità di materiale che era stata ammassata in quel posto.
I piani degli Inglesi
dovevano essere di certo molto ambiziosi e senz'altro si trattava di
qualcosa
di grosso. La pioggia di bombe che colpì l'aeroporto
provocò danni tremendi.
Gli hangar vennero distrutti, così come il deposito di
carburante. Sulla pista,
danneggiata, ventuno aerei nemici bruciavano e altri erano comunque
inutilizzabili. Il tutto in circa dieci minuti. Purtroppo le difese
antiaeree
in quel lasso di tempo avevano avuto modo di reagire ed avevano colpito
seriamente uno degli aerei italiani che bruciando iniziò a
precipitare. Il
pilota, un giovane sergente, gravemente ferito, diresse, in qualche
modo, il
suo aereo su un deposito di automezzi che scomparve in una palla di
fuoco
quando l'aereo italiano ci si schiantò sopra. Anche altri
aerei furono colpiti
ma in modo non grave e tutti i superstiti iniziarono la fase di
ritorno.
Giunsero alla base con il carburante agli sgoccioli. Erano soddisfatti
ma
rattristati dalla perdita del loro compagno che però almeno
si era tirato
appresso un bel pò di nemici. L'efficacia della missione era
dovuta anche alle
informazioni che aveva fornito Giovanni. Purtroppo ciò che
avevano trovato a
Gadaref avvalorava le voci di una grossa offensiva da parte degli
Inglesi che,
partendo dalle loro basi ad ovest, avevano intenzione di riconquistare
i
territori perduti e poi continuare ad avanzare verso est. L' 11
novembre un
pesante attacco aereo e terrestre venne sferrato dagli Inglesi alle
cittadine
di Garabat e Metemma, più che altro per saggiarne le difese.
Gli Italiani presi
alla sprovvista, furono costretti a ritirarsi ma il giorno seguente,
dopo
essersi riorganizzati, riconquistarono le loro posizioni costringendo
il nemico
a ritirasi con gravi perdite. A questa battaglia partecipò
anche la 412^ con 10
aerei. Furono abbattuti 5 Gloster Gladiator senza subire perdite se si
può
trascurare il fatto che il solito Rosmini, sempre più
audace, tornò alla base
con l'aereo ridotto quasi a un colabrodo fra le ire del sergente
Coniglio che
in realtà era più preoccupato per il pilota che
per l'aereo. All'inizio di
dicembre giunsero le solite voci non confermate che gli Inglesi
stessero
organizzando qualcosa di grosso nella zona di Gaz Regeb. Il 10 dicembre
giunse
conferma che il 237^ squadrone dell'aeronautica inglese aveva stabilito
in quel
luogo la propria base con l'intento di effettuare incursioni o
appoggiare
azioni terrestri ai danni delle basi Italiane. Due giorni dopo la 412^
decollò
alla volta della base nemica con l'intento di distruggerla. Fu uno
scontro
cruento a causa della forza e dell'abilità degli Inglesi.
Pur gravemente
danneggiati riuscirono a resistere riuscendo a far decollare alcuni
aerei che
inseguirono gli Italiani i quali, terminata con successo la loro
missione,
iniziavano il lungo viaggio d ritorno verso casa con il carburante
appena
sufficiente. Raffi era indietro per coprire tre aerei che, colpiti e
con le ali
danneggiate, erano un poco più lenti degli altri. Prima che
gli altri Italiani
se ne rendessero conto, tre aerei Inglesi furono loro addosso
mitragliandoli
desiderosi di vendetta. Infatti nel bombardamento erano rimasti
completamente
distrutti quattro aerei Maurer Heart e 3 Gladiator per non parlare di
quelli
danneggiati. Dal motore di Raffi immediatamente cominciò ad
uscire fumo e
l'aereo prese a precipitare controllato disperatamente dal pilota, per
fortuna
incolume. Visintini si accorse subito di quanto accadeva e, fatto segno
a
Giovanni di seguirlo, si gettò in aiuto del loro sfortunato
compagno. Mentre in
cielo si combatteva, l'aereo del capitano si schiantò al
suolo lasciando però
il pilota quasi incolume e in grado di allontanarsi dalla carcassa
prima che
esplodesse. Visintini fece capire a gesti a Giovanni cosa intendeva
fare. Non
avrebbe mai lasciato il suo capitano prigioniero, nelle mani degli
Inglesi. Così,
lasciato Giovanni a cavarsela contro tre avversari, iniziò
le manovre per
atterrare più vicino possibile al pilota caduto. Il giovane
sergente si gettò
nella mischia come un leone con le mitragliatrici fiammeggianti,
tranciando di
netto un'ala ad uno degli avversari. Doveva tenere impegnati gli altri
due per
evitare che colpissero il facile bersaglio dell'aereo fermo a terra.
Visintini
si fermò a pochi metri dal capitano. Si slacciò
il paracadute e lo gettò fuori
bordo per fare posto all'altro nell'abitacolo, sopra le sue ginocchia.
Appena
possibile decollò per dare manforte al loro compagno ma non
ce ne fu necessità
perchè gli avversari, forse non molto esperti, avevano
deciso di ritirarsi.
Erano rimasti indietro da soli e non volevano forzare i motori per non
consumare inutilmente carburante e utilizzandone anche l'ultima goccia,
riuscirono a tornare alla base. Gli altri, che li credevano perduti, li
salutarono con grida entusiastiche. La missione era stata un successo
ed il
loro capitano era salvo. Raffi, sceso a terra ringraziò a
lungo i due uomini
che l'avevano salvato da una ingrata prigionia. I successivi rapporti
riportarono
sia l'esito della missione sia l'azione di Visintini e quella di
Giovanni il
quale era stato anche citato per la ricognizione solitaria su Gadaref.
In quel
periodo in cui le cose al fronte non andavano poi così bene,
i 'pezzi grossi' a
Roma capirono che in Italia c'era bisogno di eroi e così,
dopo la promozione
rapidissima, praticamente sul campo, di Visintini al grado di capitano
e di
Giovanni al grado di sergente maggiore, disposero per loro un
trasferimento
immediato in Patria per mostrarli alla stampa, che ne tirasse fuori
articoli
patriottici e inneggianti alla vittoria. Il 18 dicembre giunsero a Roma
e da lì
iniziò per loro un giro di conferenze e festeggiamenti.
Tratte:
16)
Massaua (HHAS) - Porto Sudan
(HSPN) Sudan - 320 Mn
17)
Porto Sudan (HSPN) - Aswan
Intl (HESN) Egitto- 420 Mn
18)
Aswan Intl (HESN) -
Alessandria (HEAX) Egitto-
520Mn
19)
Alessandria (HEAX) - Atene
Hellinicon (LGAT) Grecia- 590 Mn
20)
Atene Hellinicon (LGAT) -
Roma Ciampino (LIRA) Italia- 600 Mn
21)
Roma Ciampino (LIRA) -
Torino Caselle (LIMF) Italia - 350 Mn
22)
VFR Torino Caselle (LIMF) -
Asti - Acqui Terme - Cuneo - Lurisia - Savona - Genova (LIMJ) Italia -
170 Mn
continua......
Con
l'occasione venne presentato
un libro che narrava le avventure del neo-capitano, al quale era stato
attribuito l'appellativo di 'cacciatore scientifico' per la freddezza
con cui
sceglieva ed abbatteva le sue 'prede'. Riservato e schivo per natura,
con il
carico delle sue dolorose esperienze, Visintini mal sopportava tutta
questa
pubblicità e vi si assoggettava assai malvolentieri.
Giovanni, dello stesso
avviso, chiese, appena possibile, il permesso di andare a visitare suo
padre.
Qualcuno ritenne che il messaggio propagandistico sarebbe stato
più incisivo se
il protagonista fosse stato solo il giovane capitano, il coraggioso e
fulgido
ufficiale, il quale, per la Patria, compie gesta eroiche e affronta
impavido i
suoi nemici. Così Giovanni fu messo in fretta su un treno
che dopo molte,
troppe, ore di viaggio finalmente raggiunse Torino. Purtroppo la
notizia del
suo viaggio era trapelata e al suo arrivo in stazione trovò
una delegazione di
Lurisia, composta dal sindaco, alcuni funzionari del comune e dei
giornalisti
venuti per qualche foto ed un'intervista. Fatto buon viso a cattivo
gioco, alla
fine fu portato con
un macchinone al suo
paese e accompagnato davanti alla porta di casa sua. Casa sua! Gli
sembrava
quasi impossibile da credere. Da quanto tempo se ne era andato,
tornando appena
qualche giorno all'anno, se non altro per incontrare suo padre. Preso
commiato dalla
folla e dopo aver assicurato che sarebbe stato presente al grande
cenone di
Natale che si sarebbe tenuto presso le terme a tarda serata,
trovò il padre ad
aspettarlo dentro casa. Purtroppo non era più in salute come
lo aveva lasciato
ed appariva vecchio e stanco. Il paese era molto cambiato da come lo
ricordava.
I soldi affluiti con l'attività termale e turistica lo
avevano molto
trasformato. Anche i suoi amici ormai erano altrove. La sera del 24
dicembre si
trovò ad essere uno degli ospiti di onore del cenone di
Natale che si tenne
presso il lussuoso ristorante delle terme con la partecipazione del
'bel mondo'
e delle personalità locali. Tutti vollero conoscerlo e farsi
fotografare
assieme a lui per poi, semplicemente, dimenticarsene. Giovanni guardava
con distacco
tutto quello sfarzo, quel lusso, quell'abbondanza. Sembrava che la
guerra non
fosse mai esistita. Nessuno ne voleva nemmeno sentire parlare. Vide
molti
giovani che avevano trovato il modo di sottrarsi in qualche modo alla
leva,
intenti solo a divertirsi. Dai loro discorsi, si rese conto che
sembravano
vivere su un altro pianeta. La musica, la festa, facevano un contrasto
stridente con le sue esperienze di battaglia, i suoi amici caduti. Gli
tornano
in mente le scene di distruzione dei bombardamenti, i morti
scompostamente
abbandonati al suolo. Certe scene non si potevano dimenticare
facilmente e
stonavano in modo grottesco e amaro con lo scenario che lo circondava
in quel
momento e con quei damerini che mettevano in mostra i loro abiti alla
moda,
parlando dell'auto nuova che avevano appena comprato e gli
sembrò che le
ragazze presenti non fossero da meno. Profondamente amareggiato,
lasciò la
festa senza che nessuno se ne accorgesse. A casa il padre gli disse di
capirlo
totalmente. Purtroppo il denaro che aveva cominciato a scorrere non
aveva
cambiato in meglio nè le persone nè i luoghi.
Così la mattina dopo, il 25 dicembre,
con un colpo di testa, riuscì a raggiungere telefonicamente
a Roma il suo amico
e sentì che si trovava esattamente nella stessa situazione.
Ormai, per loro, la
vera famiglia era la squadriglia,
i loro
compagni ed i meccanici con i quali si trovavano a condividere i
pesanti eventi
di quei drammatici giorni. Decisero di incontrarsi a mezza strada, a
Firenze,
per decidere sul da farsi. Si
ritrovarono in un modesto albergo del centro storico e poterono
finalmente
passare una giornata in pace, brindando ai loro compagni e
risollevandosi il
morale con un paio di ragazze semplici e simpatiche che avevano
conosciuto
casualmente. La mattina successiva, con il permesso dai loro superiori
locali,
ottennero un passaggio su un aereo postale per tornare alla loro
unità. Quando
arrivarono, carichi di doni acquistati prima di partire, poterono
finalmente
festeggiare come si deve il Natale. Purtroppo la tregua durò
molto poco. La
pressione degli Inglesi riprese a farsi sentire dopo poco tempo. Il
nemico era
deciso a riconquistare tutti i territori che aveva dovuto cedere. Ai
primi di
gennaio del 1941 Iniziano le operazioni inglesi per riconquistare la
base di Cassala
che sotto i colpi dell'artiglieria nemica alla fine cadde. Le truppe
italiane,
in ritirata verso Agordat venivano incalzate continuamente dal nemico.
La 412^,
fra gli altri corpi combattenti, faceva il possibile per diminuire la
pressione
sulle forze terrestri ma gli Inglesi che ricevevano continuamente
rinforzi,
reagivano in modo sempre più violento ai vari attacchi. Il
28 gennaio, a
sorpresa, l'aviazione sudafricana bombardò pesantemente gli
aeroporti di Asmara
e Gura causando gravi danni ai depositi italiani e distruggendo al
suolo 47
apparecchi. Il giorno seguente, con un deciso sforzo, gli Inglesi
conquistarono
il monte Cochen e
subito dopo la base di
Agordat. Gli Italiani furono costretti a ripiegare ancora su Cheren.
Nel corso
degli scontri aerei che si erano fatti sempre più cruenti,
quattro piloti della
412^ furono abbattuti
e lo stesso
capitano Raffi era stato ferito, anche se in modo non grave. Visintini
si prese
sulle spalle tutta la responsabilità del comando in quel
momento difficilissimo
e scelse Giovanni come suo aiutante. Il 2 febbraio gli Inglesi
attaccarono il
passo di Rongulars per aprire la strada alla conquista di Cheren. Le
forze
residue italiane presenti in zona, furono lanciate nella mischia per
difendere
quel punto strategico. Il giorno 10 febbraio, nella tarda mattinata,
sembrò che
gli Inglesi stessero per avere la meglio ma la 412^ con tre attacchi
successivi
di bombardamento e mitragliamento riuscì a dare alle forze
di terra il tempo ed
il modo di riorganizzarsi. Purtroppo non c'era modo di avere delle
pause. A
peggiorare le cose, ci si mise il famigerato khamsin che non dava
tregua,
empiendo tutto di polvere e riducendo la visibilità. Con gli
aerei superstiti,
rappezzati alla meglio, e con la conseguente rabbia e disperazione del
sergente
Coniglio, l' 11 febbraio ripresero il volo con l'obiettivo di
continuare a
difendere il passo. Il tempo era tremendo, con un vento fortissimo ed
una
visibilità molto ridotta. Malgrado ciò riuscirono
tutti a raggiungere il loro
obiettivo ricominciando i bombardamenti delle forze di terra inglesi.
Purtroppo, causa la scarsa visibilità, erano costretti ad
abbassarsi parecchio,
così da esporsi al tiro delle armi automatiche del nemico.
Riportarono danni
quasi tutti gli aerei e quando, esaurito il carburante a disposizione,
ripresero la via del ritorno, fu chiaro che alcuni, più
danneggiati di altri,
con quelle condizioni meteorologiche, non ce l'avrebbero fatta a
raggiungere la
base. Notata una radura in località Sabar Guma, non molto
distante da Asmara, i
due aerei in condizioni peggiori atterrarono alla bell'e meglio. Gli
altri,
verificato che i compagni erano al suolo sani e salvi, annotata la
posizione,
proseguirono verso la base. Appena atterrati, Visintini, che si sentiva
responsabile per i suoi uomini, chiese di rifornire subito il suo
apparecchio
con l'intento di tornare indietro e
cercare di aiutare i suoi compagni in qualche modo. A nulla valsero le
preghiere degli altri piloti per farlo desistere da quel progetto
pazzesco,
visto che il tempo era addirittura peggiorato, riducendo ulteriormente
la
visibilità. Giovanni, che lo voleva assolutamente
accompagnare, aveva però il
carrello dell'aereo seriamente danneggiato ed era riuscito ad atterrare
incolume per miracolo. Visintini rifiutò di attendere,
così come l'aiuto degli
altri piloti. Decollò appena possibile, diretto verso il
luogo che aveva
segnato sulla carta. Giunse la sera senza che ci fossero sue notizie.
Quando
arrivò l'alba del 13 febbraio fu chiaro che doveva essere
successo qualcosa di
brutto. Con gli aerei disponibili, quattro piloti presero il volo per
cercare i
loro compagni. Sorvolarono la zona intorno a quella dove erano
atterrati i
compagni la sera prima, ma non riuscirono a trovarli. Poi si seppe che
i due,
trovatisi in un inferno di polvere, avevano cercato di raggiungere
Asmara a
piedi ed erano stati rinvenuti quasi soffocati ed esausti da una
pattuglia di
terra che tornava alla base. Purtroppo, alla fine, trovarono i rottami
dell'aereo di Visintini. Si era schiantato su un versante del monte
Nefasit ad
appena 30 miglia dalla base, in direzione ovest-sud-ovest. Il terribile
vento
doveva averlo letteralmente travolto, facendogli sbagliare rotta e
sbattendolo
contro la parete di quella montagna ad un'altezza di 1500 m. Il
convoglio che
raggiunse via terra la zona dell'incidente, risolse ogni dubbio. Il
giovane
capitano Mario Visintini, l'eroe di guerra, con le sue 16 vittorie, in
un'azione intesa a soccorrere i suoi uomini, se ne era andato, a 28
anni di
età, vinto dalle forze della natura ma non dal nemico. Fu un
colpo terribile.
Giovanni aveva perduto non solo un superiore corretto ed esperto, ma
anche un
buon amico. La squadriglia non era più la stessa. Il giorno
14 febbraio, con in
mente la sorte del loro compagno e in nome del suo ricordo, i piloti,
sul campo
di battaglia fecero delle cose eccezionali e gli Inglesi subirono una
batosta
tremenda da parte di quegli uomini che quel giorno sembravano capaci di
qualsiasi impresa, incuranti del fuoco nemico e micidiali in tutte le
loro
azioni. L'atmosfera però era cambiata per sempre, sia per
gli eventi tragici
che l'avevano colpita, sia per l'andamento della guerra. Quello
speciale
spirito combattivo non poteva durare a lungo. Nella mensa, nel circolo,
non si
rideva più, non si sentiva il baccano caratteristico che di
solito produce un
gruppo di giovani che si diverte e scaccia le paure con canti, risate e
scherzi. Cominciava a pesare la mole di missioni sempre più
frequenti, l'alto
numero di perdite che si aveva, sia da una parte che dall'altra. La
mattina si
saliva sugli aerei, si decollava e si raggiungevano gli obiettivi. Poi
si
tornava alla base. Tutto con una sorta di fatalismo che portava ad
eseguire le
varie incombenze in modo quasi automatico. Ognuno faceva fronte al
proprio
dovere ma senza quell'entusiasmo che aveva connotato la squadriglia
fino ai
primi giorni del 1941. Per Giovanni il colpo di grazia fu provocato
dalla
notizia, recapitatagli il 3 marzo, della morte del padre. Era stanco,
decisamente. Solo in aria entrava in una condizione in cui non provava
fatica
nè dolore. Si concentrava sul suo incarico e lo svolgeva al
meglio. Durante i
periodi liberi aveva preso l'abitudine di lavorare sull'aereo che
avevano
provato a fargli pilotare quando era arrivato, isolandosi da tutto e
concentrandosi su quel lavoro apparentemente inutile e senza fine, ma
così riusciva
a non pensare e questo lo aiutava a recuperare l'energia necessaria a
svolgere
il proprio lavoro. Intanto dall'inizio di marzo le forze inglesi
avevano
diretto i loro sforzi alla riconquista del territorio definito in
origine
Somaliland che gli Italiani avevano conquistato pochi mesi prima. In
quello
stesso periodo era giunta la notizia, confermata, che un consistente
contingente dell'aeronautica inglese aveva stabilito una base nei
pressi di Addis
Zemen vicino alla riva destra del lago Tana. Purtroppo non si era
riusciti ad
ottenere notizie particolareggiate sia sulla eventuale consistenza
delle forze del
nemico, sia sulla posizione. Un ricognitore spedito in avanscoperta non
aveva
fatto ritorno. Brutto segno. Il giorno 15 marzo, Giovanni
partì assieme agli
altri, incontro al proprio destino senza nemmeno protestare per la
grande
distanza e l'impresa quasi disperata. Erano decollati in 8, e sarebbero
andati
su una una piazzaforte nemica di cui non si conosceva praticamente
nulla.
Magari speravano nella sorpresa. Giunti in prossimità
dell'obiettivo, si
abbassarono di quota, come al solito, per arrivare sul posto
all'improvviso.
Avrebbero fatto un passaggio veloce mitragliando tutto ciò
che ritenevano
pericoloso o interessante mentre prendevano atto degli obiettivi
principali.
Poi con un secondo veloce passaggio, avrebbero bombardato con criterio
e
precisione quanto rilevato. Era in questo tipo di operazioni che si
sentiva
molto la mancanza di apparecchiature radio. Sbucando dalle dune
all'improvviso
sulla base nemica, si resero conto subito che si erano andati a
infilare
letteralmente in un nido di vespe. Per cominciare, era stata realizzata
un'aviosuperficie costituita da due piste parallele. Due soli hangar ma
almeno
quaranta aerei di vario tipo, fra cui molti caccia, parcheggiati in
un'aerea
piuttosto ampia che rendeva difficile bombardare con efficacia. Un
numero
imprecisato di punti di difesa posti sia ai margini dell'istallazione
sia al
suo interno. Fortunatamente il primo passaggio fu effettuato senza
perdite, per
la sorpresa. Il mitragliamento fu diretto più che altro
verso gli aerei a terra
con la speranza che non riuscissero a decollare. Per il secondo
passaggio, fu
tutta un'altra storia. Messe all'erta, le postazioni antiaeree facevano
fuoco
da tutte le direzioni. Alcune bombe colpirono il deposito carburanti ma
le
altre produssero solo dei danni relativi. Già il secondo
passaggio costò agli
Italiani la metà della squadriglia. I superstiti ripresero
la strada di casa
ancora in parte stravolti dall'esperienza appena fatta. Erano passati
attraverso un inferno di fuoco nemico così intenso da
chiedersi come era
possibile che qualcuno potesse esserne uscito indenne. Dopo 10 minuti
fu chiaro
che gli Inglesi non avevano alcuna intenzione di lasciarli andare in
pace. Si
videro distintamente quattro aerei nemici che li inseguivano. In teoria
i
Falchi erano più veloci ma alcuni avevano riportato danni e
per non lasciarli
indietro tutti si erano adattati ad una velocità inferiore.
Pochi minuti dopo
il sergente Palumbo, un ragazzo che aveva fatto parte della squadriglia
fin
dalla sua formazione, preso atto che il suo aereo era il più
danneggiato e che
imponeva agli altri una velocità ridotta, invertì
la rotta per intercettare i
nemici e dare così tempo agli altri di allontanarsi e
mettersi al sicuro. Era
una iniziativa suicida e da solo non sarebbe durato nemmeno un minuto.
Giovanni, che dopo l'episodio di Visintini, aveva giurato che mai
più avrebbe
abbandonato un compagno, dopo aver segnalato agli altri due aerei
superstiti,
ma comunque danneggiati, di proseguire, invertì a sua volta
la direzione per
dare man forte al suo coraggioso collega. Piombarono sul gruppo nemico
sparando
come ossessi, centrando in pieno uno degli aerei inglesi. Gli altri tre
però
reagirono all'istante, mettendosi in coda ai due Italiani. Giovanni
più che a
sè stesso pensava al suo compagno. All'improvviso
notò sulla prua di uno degli
aerei nemici il disegno di una strega. Era Milo Ward! Il destino alla
fine li
aveva fatti rincontrare. Chissà come sarebbe andata a finire
questa volta.
intanto mentre sparava verso gli aerei che minacciavano l'altro pilota,
sentiva
chiaramente e distintamente il suo apparecchio sussultare sotto i colpi
che gli
giungevano in gran numero dagli avversari che lo inseguivano......
Oggi,
paesino nord Italia, 04
aprile 2009
Giovanni,
aveva percorso le ultime
miglia, come perso in un sogno, in trance, smarrito nel mare di ricordi
che lo
aveva letteralmente travolto e ora era stato richiamato bruscamente
alla realtà
da un violentissimo scossone. Gli risultava sempre più
difficile mantenere la
quota a causa del beccheggio che si era fatto sempre più
incontrollabile. Era
tempo di tornare, sempre che ce l'avesse fatta. Quando andò
a virare, si
accorse che l'aereo non rispondeva quasi per nulla. Le sue braccia,
messe a
dura prova dal controllo della cloche in quelle condizioni,
cominciavano ad
essere pesantissime. Dette uno strattone deciso alla cloche e l'aereo
finalmente
si decise ad iniziare la virata per tornare indietro. Giovanni,
guardando verso
gli impennaggi si rese conto che l'alettone alloggiato sul bordo
dell'ala
destra superiore aveva assunto una posizione insolita. Indubbiamente
qualche
tirante doveva aver ceduto ed ora l'alettone non avvertiva quasi
più l'effetto
dei comandi. Dai riferimenti al suolo si rese conto che aveva percorso
circa 12
miglia. Forse poteva ancora farcela con un pò di fortuna, e
di fortuna, fino a
quel momento ne aveva avuta certamente tanta. L'altimetro gli
indicò che era
sceso di quota a circa 700 piedi. Poco male, non c'erano alture in zona
che lo
potessero ostacolare. Il problema era costituito dalla difficile
manovrabilità
di quell'aereo che stava velocemente consumando le sue ultime forze e
dal fatto
che la temperatura del motore stava salendo piuttosto in fretta. A otto
miglia
dal campo, una perdita di olio provocò una macchia che
coprì in parte il parabrezza.
Sembrava che quell'aereo,
stabilito di averne abbastanza, avesse deciso di mettere fine a quel
volo così
pazzesco, assurdo. Il vecchio pilota tentava in qualche modo di
controllare
disperatamente la situazione ma era chiaro che la battaglia era impari.
Veniva
sballottato da tutte le parti sempre più debole, con la
consapevolezza che il
motore surriscaldato lo avrebbe abbandonato all'improvviso e magari
prendendo
fuoco. Ma non si voleva arrendere e, con le poche energie che gli
restavano,
resisteva, fosse anche l'ultima cosa che avrebbe fatto nella sua vita,
avrebbe
lottato per portare a terra il suo aereo.
Dintorni
di Addis Zemen,
15/03/1941
L'aereo
di Giovanni, ridotto ad
un colabrodo per i colpi ricevuti, continuava a combattere. Un Inglese
era
stati abbattuto ma poi era toccato anche al sergente Palumbo il cui
aereo era
letteralmente esploso in aria ed ora Giovanni, senza speranze di
cavarsela,
faceva quello che poteva, almeno per dare agli altri più
tempo per mettersi in
salvo. Purtroppo l'ultima raffica di colpi lo aveva centrato ad una
spalla e a
parte la copiosa conseguente perdita di sangue, non aveva
più il controllo del
braccio destro. Un'altra raffica lo centrò e questa volta
ricevette un colpo di
striscio alla testa, e poi altri due nella coscia destra. Ora era
veramente
finita. Che aspettavano? Invece si accorse che l' aereo inglese con una
strega
dipinta sulla prua lo aveva affiancato. Era Milo che indubbiamente
lo aveva riconosciuto e, dopo un
cenno di saluto, si scostò e riprese la rotta verso la sua
base seguito dai
suoi compagni. Ma c'era poco da fare. Indebolito e debilitato dalle
numerose
ferite, con l'aereo che stava in aria per miracolo, si sarebbe di certo
schiantato nel deserto da un momento all'altro. In un momento di
lucidità si
accorse che la sua rotta attuale lo stava portando verso le rive del
lago Tana.
Non voleva finire in acqua. Così, preso atto che nelle sue
condizioni non
sarebbe mai riuscito ad uscire con le sue forza dall'abitacolo, si
slacciò le
cinture di sicurezza e fece lentamente capovolgere il suo aereo. Cadde
nel
vuoto, separandosi dal suo aeroplano che continuò la sua
corsa, capovolto,
verso la superficie del lago. Gli dispiaceva immensamente abbandonare
il suo
aereo, il suo compagno in tutta quella pazza avventura, che non lo
aveva mai
abbandonato e non l'aveva mai tradito. Ma ora, forse, uno si poteva
salvare e
non era l'aereo. Lo vide proseguire nel suo ultimo viaggio con
l'angoscia di
chi perde un caro, insostituibile amico e con la certezza di aver
contratto con
lui un serio debito. In qualche modo riuscì ad azionare il
suo paracadute ma
poi tutto scomparve nel nulla. Ebbe delle fugaci visioni di persone che
si parlavano
attorno a lui in una lingua che non
capiva. Vide i volti di persone di colore che lo osservavano, il viso
di un
uomo bianco anziano ma soprattutto fu colpito dal viso bellissimo scuro
di una
ragazza che gli parlava in una lingua sconosciuta ma con un tono
rassicurante,
quasi come una carezza. E poi, una mattina, all'improvviso, riprese
pienamente
coscienza. Si sentiva debolissimo. Capì di trovarsi al
chiuso, dentro una
capanna con il tetto di legno e frasche. Dalla porta aperta entrava la
luce del
sole in modo violento. All'interno della piccola costruzione, le poche
cose
relative alla vita semplice di
persone
del posto. Dalle caratteristiche di quell'ambiente era chiaro che non
si
trovava in un ospedale. Seduta accanto a lui, con la schiena appoggiata
ad un
palo di sostegno del soffitto, una bellissima ragazza, quella che aveva
veduto per
ultima prima di perdere conoscenza, assopita. Come avesse avvertito un
cambiamento la ragazza aprì gli occhi e, avvedutasi che il
ferito aveva ripreso
i sensi e la stava osservando, colpito dalla sua bellezza, mormorando
alcune
parole concitate in una lingua incomprensibile, un pò
ridendo un pò piangendo,
gli si avvicinò piegandosi su di lui e facendogli una
carezza sulla testa
mentre gli occhi meravigliati di Giovanni non perdevano un solo
movimento. Poi
la ragazza gli disse qualche altra cosa, nel tono di chi fa una
raccomandazione, e alzatasi uscì di corsa dalla capanna.
Giovanni provò a
muoversi ma non ci riusciva proprio, Si accorse di una serie di pesanti
fasciature che praticamente lo immobilizzavano
ma non avvertiva nessun dolore, cosa assai strana.
Cominciò
inevitabilmente a chiedersi che tipo di lesioni potesse aver riportato
sperando
in cuor suo di non essere diventato un invalido. Entrarono nella
capanna due
uomini, ambedue di colore, di media statura. Uno molto vecchio, l'altro
di mezza
età. Il vecchio si fece avanti e si accosciò
accanto a lui. Toccandogli
delicatamente una spalla, cominciò a parlargli nel solito
dialetto
incomprensibile. Le parole avevano comunque un tone rassicurante, quasi
dolce.
Accortosi che il ragazzo non lo capiva, con un sorriso si
alzò e lasciò che si
avvicinasse l'altro uomo. Questi si mise seduto accanto al ferito e in
un
italiano molto stentato, iniziò a parlare. Si chiamava
Obasi, pescatore, e
l'altro era il capo del villaggio, di nome Themba. Il piccolo
insediamento di
pescatori si chiamava K'Ero e si trovava sulla
sponda orientale del lago Tana. Lo
avevano visto cadere e lo avevano soccorso. Avevano capito subito che
era
gravemente ferito e avevano iniziato a curarlo ma intanto avevano
chiamato il
dottore bianco che da un pò aveva iniziato ad interessarsi
del villaggio. Il
suo aereo si era inabissato nelle acque del lago e non ne restava
traccia. In
tutti i giorni in cui era rimasto senza conoscenza, circa due
settimane, lo
aveva curato e vegliato la figlia di Obasi, di nome Yatima, che si era
proposta
per questo compito e non aveva inteso ragioni. Giovanni
assorbì tutte quelle
informazioni con una certa fatica, a causa dello stentato Italiano del
suo
ospite. Una cosa però lo aveva colpito. Chi poteva essere
quel dottore bianco
che si era occupato di lui. Un Italiano, molto difficilmente. Se era un
Inglese, il suo destino era segnato. Sarebbe finito in prigionia,
magari in
qualche ospedale da campo. Ripensò al volto dell'uomo
anziano che era a volte
comparso nel suo delirio ma quel viso non gli disse nulla.
Ritornò la ragazza e
fece segno ai due
uomini di andarsene e
questi, senza discutere, si allontanarono. Aveva indossato una tunica
di cotone
marrone che le arrivava al ginocchio e l'aveva fissata con una fascia
turchina.
Era turchino anche il turbante che si era fatta e con cui aveva
nascosto una
gran massa di capelli crespi e piuttosto lunghi. Aveva portato con
sè una
ciotola di una zuppa molto densa e praticamente lo costrinse a
mangiarla.
Intanto gli parlava con una voce molto dolce nel suo particolare
dialetto che
Giovanni non capiva. Finito di mangiare bevve qualche sorso d'acqua che
la
ragazza gli aveva offerto e poi, esausto, ricadde in un sonno
profondissimo. Al
suo risveglio una sua curiosità fu immediatamente esaudita.
Il dottore bianco
era davanti a lui e gli stava finendo di medicare la spalla. Era un
Inglese di
stanza alla base di Addis Zemen. Gli abitanti del villaggio lo avevano
chiamato
senza spiegare cosa fosse successo. Così alla base nessuno
sapeva di lui. Gli
disse di stare tranquillo. Egli era convinto che nelle sue attuali
condizioni,
difficilmente avrebbe potuto costituire un pericolo per l'esercito
inglese. Non
lo avrebbe denunciato anche perchè non avrebbe fatto
probabilmente nessuna differenza.
Le cose per gli Italiani stavano andando piuttosto male. Nelle 2
settimane che
il ferito era rimasto lì, Keren, il 27 marzo, era caduta ed
ora, ai primi di aprile,
gli Italiani erano stati respinti verso l'interno dell'Etiopia dove,
privi di
aiuti e rifornimenti non avrebbero potuto resistere a lungo. Inoltre in
un
ospedale da campo non avrebbe potuto ricevere cure più
attente di quelle che
aveva ricevuto nel luogo dove si trovava. Gli disse che era stato
fortunato perchè
il capo del villaggio, attingendo alla medicina dei suoi avi, gli aveva
propinato delle sostanze strane e misteriose che avevano fatto miracoli
per le
sue ferite e per il dolore. Il dottore aveva inoltre subito notato
l'interesse
che la ragazza nutriva per l'aviatore italiano e dentro di
sè sorrise pensando
che guerra o non
guerra certe cose non
cambiano mai. Poi si appartò con la ragazza e le diede
lunghe e dettagliate
spiegazioni su ciò che avrebbe dovuto fare. Le
consegnò bende e medicine e
quindi si accomiatò dicendo che per parecchio tempo non
sarebbe potuto passare.
Giovanni lo ringraziò di cuore e quindi rimase nelle mani
della sua custode ed
infermiera. La popolazione del villaggio, di razza Amara, lo aveva
accettato
semplicemente, senza problemi e avevano stabilito di proteggerlo non
parlandone
con nessuno. La loro religione, il Cristianesimo li portava ad aiutare
gli
altri senza problemi. D'altronde non erano mai stati toccati
direttamente dalla
guerra e al massimo se la erano vista passare sulla testa, sotto forma
di quei
puntini lontani che di quando in quando solcavano il cielo. La loro
lingua era
l'amarico che Giovanni nel periodo in cui restò
lì, imparò a capire e a parlare
piuttosto bene, grazie anche alle cure assidue di Yatima. Gli fu
riferito che l' 8
aprile Massaua si era arresa ed egli
pensò ai suoi compagni che, se non avevano fatto a tempo a
fuggire, ora erano
prigionieri di guerra. Il 5 maggio il Negus Hailè
Selassiè rientrò da
imperatore in Addis Abeba preceduto però dal colonnello
inglese Wingate,
comandante delle forze militari che avevano costretto alla resa le
truppe
Italiane alle quali, visto il valore mostrato, era stato concesso
l'onore delle
armi. Magra consolazione! Mentre altrove le truppe inglesi procedevano,
seppure
con difficoltà, a Gondar si resisteva ad oltranza. Il
generale Nasi che era al
comando della piazzaforte non intendeva cedere a nessun costo.
Riuscì ad
organizzare le cose per resistere fino allo stremo. Alcuni pescatori
riportarono al villaggio la notizia che degli Italiani pescavano sulle
coste
settentrionali del lago per integrare le scarse provviste a
disposizione della
guarnigione. Gondar era circondata da cinque potenti capisaldi che
garantivano
una difesa molto efficace dagli attacchi degli Inglesi. La battaglia
vera e
propria iniziò il 10 maggio e proseguì ad
oltranza per diversi mesi. La tattica
degli Inglesi fu quella di concentrare tutte le forze disponibili su un
caposaldo alla volta e fu così che, malgrado grandi atti di
valore, alla fine
la piazzaforte, il 30 novembre, dovette cedere all'impeto del nemico.
Fu un
giorno tristissimo per Giovanni il quale pur non essendo ancora in
condizione
di combattere, si sentiva però legato a quei soldati che
avevano deciso di
battersi ad oltranza. Aveva saputo che nella piazzaforte c'erano solo
due
aerei: un Falco ed un Caproni Ca133 che fecero del loro meglio
finchè vennero
inevitabilmente distrutti. Giovanni, con le cure assidue della sua
infermiera
personale e la vita sana e semplice continuava a migliorare. Aveva
riacquistato
l'uso del braccio e della gamba e aveva cominciato ad aiutare i pescatori del villaggio.
Non si videro mai
Inglesi e alla fine si integrò con la comunità
che lo aveva accolto. Si decise
anche a sposare Yatima e entrò a fare parte pienamente ed
ufficialmente del
villaggio. Con tutti i rottami dei campi
di battaglia circostanti, recuperando un pò quà e
un pò là, con le sue
competenze tecniche e meccaniche, dotò il villaggio di un
generatore di luce
elettrica che poteva essere alimentato a legna, delle pompe per portare
l'acqua
al villaggio e anche due piccoli autocarri che però erano
usati solo per le
emergenze vista l' enorme difficoltà di trovare del
carburante. Intanto era
venuto a sapere che i prigionieri di guerra italiani, anche a causa del
loro
altissimo numero, venivano inviati in un sito lontano circa 2500
miglia, in sud
Africa in un posto chiamato Zonderwather. Praticamente con la caduta di
Gondar
la guerra nell'Africa Orientale Italiana era terminata ma altrove le
cose
andavano avanti. E dopo l' 8 settembre non sarebbero di certo
migliorate.
Giovanni a quel punto decise che non avrebbe avuto nessun significato
tentare
di tornare dai suoi connazionali. Continuò quindi con la sua
vita, monotona si,
ma serena e utile a quelli che gli stavano intorno. Aveva conosciuto
tutti i
membri di quella comunità rimanendo conquistato dalla
semplicità e la
correttezza con cui vivevano. Passava molto tempo con il capo
villaggio, il
vecchio Themba, sempre più sorpreso dalla
quantità di cose che conosceva e
soprattutto dalla profondità della sua saggezza.
Così lontano dalla sua gente,
vivendo con quelle persone quasi fuori della realtà gli
sembrò di aver perso la
cognizione del tempo. Poi qualcuno gli portò la notizia che
la guerra era
terminata su tutti i fronti. Si rese conto che era nel mese di dicembre
del
1945. Effettivamente in Europa le operazioni belliche si erano concluse
ai
primi di maggio ed in Asia a settembre. Ora era sperabile che le cose,
in
qualche modo, sarebbero tornate lentamente a posto. Prima o poi
avrebbero
cominciato a rilasciare i prigionieri di guerra che avrebbero potuto
tornare a
casa. Dalle notizie che gli pervennero seppe però che per
gli Italiani di Zonderwather
il rimpatrio andava molto a rilento. Parecchi Italiani inoltre avevano
chiesto
di rimanere addirittura in Sudafrica, dove in tutti quegli anni si
erano
ricreati un'esistenza che non volevano lasciare.
Tratte:
23)
Pretoria (FAWB) Sudafrica -
Keetmanshop (FYKT) Namibia - 620 Mn
24)
Keetmanshop (FYKT) - Groot
Fontain (FYGF) Namibia - 490 Mn
25) Groot Fontain (FYGF) - 4th
of February
Luanda (FNLU) Luanda - 800 Mn
26) Luanda 4th of February
(FNLU) - Libreville
(FOOL) Gabon - 690 Mn
27) Libreville (FOOL) - Murtala
Muhammad Lagos
(DNMM) Nigeria- 580 Mn
28) Lagos (DNMH) - Niamey Diori
Hamani (DRRN) Niger-
490 Mn
29) Niamey (DRRN) - Tombouctou
(GATB) Mali -
390 Mn
30) Tombouctou (GATB) - Aguanar
(DAAT) Algeria
- 750 Mn
31)
Aguenar (DAAT) - In
Amenas (DAUZ) Algeria- 470 Mn
32)
In Amenas ( DAUZ) - Tripoli
(HLLT) Libia- 414 Mn
33)
Tripoli (HLLT) - Napoli
Capodichino (LIRN) Italia- 560 Mn
continua......
La
possibilità di tornare a casa
lo inquietò riportandogli alla mente il mondo a cui
apparteneva, la sua casa, i
suoi amici. Non voleva apparire un ingrato nei confronti di quelle
persone che
lo avevano salvato ed accolto nella loro comunità.
Soprattutto non voleva far
soffrire Yatima della quale era sempre più innamorato. Ma
lei aveva capito e fu
lei stessa ad affrontare il discorso. Giovanni dapprima
rifiutò di parlarne ma
poi ammise di sentire fortemente il richiamo dell'Italia. La donna lo
portò da
Themba il quale gli disse che non c'era nulla di male nel suo
atteggiamento
Egli apparteneva effettivamente ad un altro popolo, ad un'altra terra.
Se era
destino che il suo cammino si compisse in quel villaggio, avrebbe in
ogni caso
trovato il modo di tornare. Con il passare del tempo, verso la fine del
1946,
Giovanni decise che voleva tornare a casa, se non altro per vedere cosa
era successo.
Così salutò la sua cara
moglie e tutti gli altri e partì diretto a nord accompagnato
da due uomini che,
pratici dei territori da attraversare, lo avrebbero consigliato e
protetto nel
suo lunghissimo viaggio. Navigarono, ove possibile, nelle acque del
fiume Nilo.
fino a giungere in prossimità del Cairo. Da quì
fortunosamente Giovanni trovò
un passaggio in qualità di mozzo, fuochista e tuttofare a
bordo di un mercantile
sul quale non gli posero delle domande. Giunse finalmente a Napoli nel
marzo
del 1947. Confuso nella massa dei reduci che da tutte le zone di guerra
lentamente tornavano a casa, in qualche modo sistemò la sua
posizione. Era
stato dato per morto e quindi ci furono alcune difficoltà.
Intanto tornò a casa
sua. Non riusciva a riconoscere i posti che aveva lasciato tanti anni
prima. La
casa dove era cresciuto, ora che suo padre era morto, gli sembrava
estranea,
indifferente. Andò a Torino per rivisitare i luoghi dove era
stato ragazzo ed
aveva iniziato la sua avventura di aviatore. Aveva bisogno di qualche
appiglio,
di qualche riferimento per rientrare in contatto con la sua consueta
vita
passata. Della casa di sua zia e dei parenti che lo avevano ospitato,
non c'era
più traccia. Il bombardamento del 20 novembre 1942, aveva
spazzato via tutto.
Il quartiere semplicemente non esisteva più. L'aeroporto
MIrafiori, più volte
colpito dalle bombe, era stato completamente abbandonato e restituito
al
comune. Restavano come segni, per identificarne l'ubicazione, solo
pochi ruderi
della torre di controllo. L'aeroporto Aeritalia invece, colpito da
più di 250
bombe usate allo scopo di distruggere non solo le piste ma anche il
vicino
stabilimento della Fiat, era stato ripristinato in fretta. Dal 5 maggio
erano
addirittura ripresi i voli più o meno regolari per Roma.
Giovanni passava
lunghe ore ai bordi della pista osservando gli aerei che decollavano e
atterravano per ritrovare un minimo di entusiasmo, di voglia di
ripartire, di
tornare a far parte di quell'attività che aveva
rappresentato la sua vita. Ma
osservava anche la gente. Indaffarata, indifferente, egocentrica. Non
ci si
riconosceva più. Aveva grossi dubbi su cosa fosse meglio per
lui. Cosa gli
aveva detto Temba? Se era destino che tornasse sarebbe ritornato.
Sentì che
quel pensiero stava prendendo il sopravvento. E poi gli mancava da
morire la
sua Yatima. E alla fine decise. Vendette con buon profitto la casa del
padre e
riprese il viaggio che lo avrebbe riportato fra quella gente semplice
che lo
aveva accolto e gli aveva insegnato tante cose. Stavolta il viaggio fu
più
agevole. Alla fine, giunto con una camionetta, residuato bellico, a
pochi km
dal villaggio, decise di fare a piedi l'ultimo tratto per poter avere
il tempo
di riprendere contatto lentamente con quella comunità. Il
villaggio era sempre
lì, come l'aveva lasciato. Arrivato alla porta di casa sua,
lentamente l'aprì e
trovò la sua cara moglie, con il vestito buono, che gli
aveva preparato un ottimo
pranzo. Altro che sorpresa, lo sapevano tutti che stava tornando.
Avevano
lasciato che prendesse da solo le sue decisioni con i suoi tempi e i
suoi
desideri. Abbracciando Yatima, capì perchè era
tornato. Quell'abbraccio valeva
per lui tutto il progresso, la cosiddetta civiltà che si era
lasciato dietro le
spalle. Il giorno successivo al suo ritorno, lo venne a trovare il
vecchio
Obasi, assieme al capo Temba. Lo salutarono cordialmente e poi gli
chiesero
notizie del suo viaggio. Dopo averlo ascoltato si dichiararono felici
per la
decisione presa. Loro apparentemente lo avevano sempre saputo che
sarebbe
tornato, ma la decisione doveva essere la sua, doveva avere
un'alternativa
altrimenti gli sarebbe rimasto sempre il dubbio e non sarebbe mai stato
felice.
Alla fine, sorridendo e con aria di grande mistero gli chiesero di
seguirlo in
un posto vicino al villaggio. Gli dissero di avere una sorpresa per
lui, un
regalo. Giovanni li seguiva sempre più curioso. Giunti ad
una distanza di circa
3 km da K'Ero, quasi sulla riva del lago, vide una grossa massa
informe,
completamente ricoperta di canne e frasche. Se non ce lo avessero
portato
espressamente, non avrebbe mai notato che sotto c'era nascosta
qualcosa.
Sorridendo i suoi due accompagnatori gli fecero segno di cominciare a
togliere
la copertura, rimanendo in disparte, come se fosse un regalo che doveva
scartare da solo. Giovanni, per non deluderli, ma per nulla entusiasta,
cominciò a togliere le prime frasche
e
poi proseguì cercando di farsi strada fra quell'intrico
vegetale. Poi quasi non
credette ai suoi occhi per ciò che stava emergendo. Che
diavolo avevano
nascosto lì sotto quei due matti che ora ridevano
apertamente? Gli tornò in
mente la scena con il sergente Coniglio. Per un attimo il ricordo lo
fece
rallentare, quasi risvegliasse in lui antichi dolori, ma poi
superò la cosa e
proseguì velocemente, sempre più eccitato. Era di
sicuro un aereo. Era inglese.
Un monoelica biposto. Non era armato ed era stato riconvertito come
ricognitore. Ma quello che maggiormente stupì Giovanni era
che l'apparecchio, a
parte un evidente guasto al carrello, era praticamente intatto. Coperto
di
polvere e terra, certo. Chissà da quanto era lì.
Si inerpicò ad osservare
l'abitacolo. Era sorprendentemente a posto. Di certo obbligato ad un
atterraggio di fortuna, non avevano reputato di impiegare risorse per
recuperalo oppure, come succedeva nei paradossi della guerra,
semplicemente se
lo erano dimenticato. I due suoi accompagnatori gli dissero di averlo
travato
poco tempo dopo che lui era partito. Lo avevano protetto e nascosto,
sapendo
che prima o poi sarebbe ritornato. Giovanni scoprì che si
trattava di un
vecchio Miles M14A Magister, di nascita un aereo da addestramento. Se
ne erano
visti alcuni esemplari nella base inglese di Addis Zemen, appunto
riconvertiti
in qualità di ricognitori. Chissà
perchè quello era stato lasciato lì. Ma ora,
apparentemente, era suo. Aveva un aereo, certo non un
granchè e a patto che
riuscisse a rimetterlo in sesto, ma aveva un aereo. O meglio, per come
andavano
le cose lì, il villaggio aveva un aereo. Malgrado fosse
interamente in legno e
compensato, la macchina aveva superato benissimo le sue vicissitudini
ed il
carrello era stato messo a posto. Per il motore il discorso era
diverso, ma
sembrava abbastanza in ordine e pareva che fosse stato obbligato ad un
atterraggio forzato solo per mancanza di carburante. L'impegno fu di
trascinarlo fuori dal luogo in cui era finito, anche se questo era
l'elemento
che aveva consentito di nasconderlo. Provvidero poi in fretta a
riverniciarlo,
per nascondere sia la attuale livrea mimetica sia i colori della Royal
Air Force.
Con quello che avevano a disposizione, divenne di un anonimo color
marrone.
Meglio così. Un gruppo di pescatori poi portò
indietro da Addis Zemen un fusto
di carburante, ottenuto con il baratto di una grossa
quantità di pesce. L'aereo
posto su una pista preparata dagli abitanti del villaggio,
decollò riportando
Giovanni in cielo dopo tanto tempo. Fu una bella esperienza e per un
attimo
sembrò dimenticare tutto, come se tutti quegli anni non
fossero trascorsi. Durò
solo pochi istanti. Purtroppo le ferite erano state troppo profonde per
cancellare tutto con facilità. Assicuratosi che il velivolo
fosse affidabile,
volle portare 'su'prima il vecchio capo che accettò con
semplicità e fu contentissimo
e poi la moglie e via via tutti gli altri, bambini compresi
finchè non si rese
conto che stava consumando tutto il carburante. Fu costruito un capanno
per
proteggere l'aereo e da quel momento lo utilizzò per
trasporti utili al
villaggio. Passarono molti anni sereni e tranquilli, Giovanni e sua
moglie non
avevano avuto bambini ma avevano cominciato ad occuparsi di comune
accordo degli
orfani del villaggio. E poi, nel 1965 venne l'inferno. Una epidemia di
colera
giunse dalla Persia e contagiò Alessadria d'Egitto. Da
lì si divise in due
canali. Una parte proseguì per l'Europa, infettando il sud
dell'Italia, la
Francia e la Spagna. L'altro si diffuse come un fulmine verso sud,
raggiungendo
anche i villaggi prossimi al lago Tana. Giovanni, ai primi segnali
decollò con
il suo aereo per cercare i vaccini. Purtroppo erano rari e costosissimi
e non
venivano accettati baratti con merce che poteva essere infetta.
Nell'ospedale
di Bahar Dar dove si era recato per cercare soccorso, gli fu proposto
di
aiutare i medici a spostarsi per il territorio con il suo aereo. In
cambio
avrebbero vaccinato lui e gli avrebbero dato una scatola con cinquanta
dosi.
Portò subito le dosi al suo villaggio per far vaccinare la
moglie e pochi altri
e poi partì per il suo giro. Quando tornò dopo
una settimana, trovò Yatima
malata e febbricitante. Scoprì che aveva ceduto il suo
vaccino a uno dei
bambini e così avevano fatto tutti gli anziani. La malattia
li portò via quasi
tutti. Compresa Yatima. Per la seconda volta il destino lo aveva voluto
colpire
duramente. Non poteva più restare lì dove pure
era stato felice per tanto tempo.
Senza la donna che lo aveva accompagnato per lunghi anni nulla aveva
più un
senso in quel luogo. Solo in quel momento si rese conto dell'importanza
del
loro legame. Così, agli inizi del 1969, sistemate le cose al
villaggio,
compreso lasciare l'aereo ad un ragazzo a cui aveva insegnato a
pilotarlo, tornò
in Italia. Riuscì a rintracciare vecchie conoscenze che lo
videro ricomparire
come fosse tornato da un altro mondo. Alla fine, considerato che
Giovanni era
rimasto naturalmente indietro sulle nuove tecnologie e sui progressi
nel campo
aeronautico, qualcuno gli propose di accettare un lavoro da meccanico
in un
piccolo aeroclub della sua zona. La paga non sarebbe stata un
granchè ma gli
avrebbe consentito di vivere più che decorosamente. Egli,
che desiderava solo
un pò di pace, accettò e seppe subito farsi
apprezzare e alla fine anche voler
bene dai suoi compagni di lavoro.
Oggi...
Il
campo era in vista. L'aereo
stava ancora su per miracolo e per la volontà di Giovanni
che stava consumando
le ultime stille di energia che gli erano rimaste, recuperandole da
riserve
inaspettate. Il corpo era tutto dolorante, mezzo soffocato dal fumo che
aveva
cominciato ad uscire copiosamente dal motore e quasi accecato dalla
perdita
d'olio, ma non mollava. Succedesse quel che poteva succedere, ma
stavolta
avrebbe condiviso la sorte del suo apparecchio fino alla fine.
Così finalmente
avrebbe pagato il suo debito con il Falco ed il cerchio si sarebbe
chiuso. In
aeroporto intanto si era riunita una piccola folla. Nel giro di un
quarto d'ora
la notizia trasmessa da Pietro, il custode, era rimbalzata per le case
del
piccolo centro ed ora i suoi colleghi, il direttore e addirittura tre
giornalisti del piccolo giornale locale e la troupe di una TV del
luogo, erano
lì, con il naso in aria ad osservare quel fantasma del
passato che, lasciandosi
dietro un lunga scia di fumo nero, avanzava con difficoltà
verso il campo.
Dapprima tutti avevano pensato ad uno scherzo ma poi, ricollegando i
fatti a
cui avevano assistito, avevano capito che era una cosa seria. Erano
stati
chiamati anche i vigili del fuoco ed il personale preposto alla
sicurezza dell'aeroclub
si era preparato con i vari dispositivi di soccorso, nell'eventuale,
remota
possibilità che l'aereo fosse riuscito a raggiungere la
pista. Giovanni
lottando per mantenere un minimo di controllo, mentre l'alettone di
destra si
stava letteralmente staccando e il timone rispondeva male,
entrò nel braccio di
sottovento della pista. Voleva fare le cose per bene, chiudere in
bellezza, far
vedere cosa poteva fare un vecchio pilota. Ebbe occasione di notare
tutto quel
movimento in basso e decise che avrebbe dovuto fare bella figura per
non
deludere nessuno. Tenne duro fino a quando, agendo ripetutamente e
disperatamente sulla
cloche, riuscì ad
inserirsi nel braccio di base della pista. Sentiva l'incitamento di
voci che
appartenevano al passato e riuscì ad una ad una ad
indentificarle. Al momento
di inserirsi nel finale della pista fu chiaro che era troppo basso e
non ce
l'avrebbe mai fatta ad arrivarci. Giovanni tentava in tutti i modi di
resistere
ma il terreno si avvicinava con velocità impressionante. Era
disperato perchè
era quasi riuscito ad atterrare, atterrare........
Ma
perchè atterrare proprio lì?
La mano salda e sicura di un giovane sergente maggiore, Giovanni Dal
Masso con
una manovra decisa
fece virare il
fiammante Falco Fiat CR42 per vedere meglio le sponde del lago Tana
poco sotto
di lui. In basso, appena sulla riva, una bellissima ragazza stava
prendendo
l'acqua con un recipiente. Sollevò lo sguardo e vide quel
fantastico aereo che
sorvolava il villaggio a bassissima quota. Vide distintamente il pilota
che
sbracciandosi la salutava. Lei sorridendo, rispose al saluto e
lasciando la sua
brocca , in fretta si diresse verso il luogo dove sapeva che l'aereo
sarebbe
sceso. Voleva essere lì a ricevere il pilota prima che
questi atterrasse.
L'aveva aspettato per tanto tempo..... Giovanni sorvolando il villaggio
vide i
suoi abitanti che con i vestiti della festa, dagli usci delle loro
abitazioni, lieti,
lo salutavano. Giunse nello spiazzo dove era diretto, e l'aereo toccò terra. Su
un lato della radura alcuni
giovani in una perfetta uniforme da aviatore lo attendevano felici e
sorridenti.
Quella sera ci sarebbe stata una bellissima festa al villaggio. E
domani......
domani sarebbe stato un altro magnifico giorno.
Tratte:
34)
VFR Torino Aeritalia (LIMA) -
Settimo Torinese - Chivasso - Casale Monferrato - Nizza Monferrato -
Saluzzo -
Torino Caselle (LIMF) Italia - circa 145 Mn
35)VFR
Cuneo Levaldigi (LIMZ) -
Canelli - Arenzano - Cairo Montenotte - Ormea - Albenga (LIMG) Italia -
circa
125 Mn - Fine
|