L’umanità in quei pochi giorni aveva imparato ad amare le tenebre
della sera. Erano come una madre che, dolce e gentile, calava sui suoi
figli una soffice coperta, abbracciandoli a sé e sussurrando parole
rassicuranti.
«È finita», diceva. «Anche oggi siamo sopravvissuti».
«Non ci sono i giganti di notte».
«Dormi sereno, non succederà nulla».
«Stai tra le braccia di chi ami».
Parole che davano un senso di serenità e protezione; parole che
riuscivano a far dimenticare gli orrori del giorno.
Perché la notte i giganti non si muovevano più; non erano più i
nemici dell’umanità, ma si trasformavano in statue di carne,
inamovibili.
I ragazzi nell’accademia militare mangiavano presto e si ritiravano
in buon ordine al cenno di Shadis.
I maschi da una parte, le femmine dall’altra.
Nonostante le regole, però, c’era qualcuno che riusciva a eluderle,
in qualche modo.
Una volta Mikasa venne messa in punizione perché era stata trovata
nel corridoio, con un bicchiere posato sulla porta della stanza dei
ragazzi, che ascoltava cosa stessero facendo.
«Sentivo dei rumori e mi sono
preoccupata per l’incolumità Eren».
La sua giustificazione non bastò per salvarla da tre giorni a pane e
acqua.
Un’altra volta fu il turno di Christa e Ymir, trovate in giardino a
contemplare il cielo notturno.
«Facevamo troppo chiasso mentre
pomiciav—»
«Ymir!», un colpo imbarazzato con la
testa alla sua schiena. «Non è necessario scendere nei particolari!»
«…Ci hanno sbattute fuori».
Nell’accademia girava voce che le ragazze fossero dei terremoti. In
parte era vero: dopotutto si parlava di donne che avevano scelto un
addestramento militare.
Ma anche i ragazzi non erano da meno, come dimostrarono Reiner e
Bertholdt, beccati in flagrante mentre si “attardavano
nelle docce comuni con rumori molesti e poco rispettosi dell’altrui
privacy, ritardando il turno dell’altrui igiene in quanto i loro
camerata si rifiutavano di entrare con quell’accorato sottofondo
musicale in atto”. Da quel giorno vennero messi degli orari
massimi anche per l’utilizzo delle docce.
Anche Jean, Marco, Eren e Armin vennero messi in punizione a causa
di una guerra di cuscini per via di un battibecco interno sul fatto che
Jean “nitrisse” nel sonno ed
Eren urlasse “vi ucciderò tutti!”.
Marco e Armin si erano dichiarati estranei all’accaduto, ma furono
puniti anche loro, in quanto “compagni di merende” degli autori del
fattaccio.
La notte era fatta per dormire e per stare sereni, ma a quanto
pareva i ragazzi non avevano ben recepito il fatto che dovevano
attenersi scrupolosamente al regolamento interno. E quando
andarono come reclute alla Scouting Legion la situazione non migliorò.
L’addestramento militare era duro, ma quello dato dal Caporale Levi
era qualcosa di insostenibile. La stessa Mikasa – la punta di diamante
delle matricole – arrivava a fine giornata con dei terribili mal di
schiena. Armin, addirittura, una mattina non era riuscito ad alzarsi a
causa dei dolori.
Era ormai calata la sera e tutti avevano già mangiato ed erano
andati nelle rispettive camerate dopo una doccia ristoratrice. Poco
prima di potersi avvolgere tra le calde e ruvide coperte, però, Connie
decise di fare una capatina per prendere dell’acqua; aveva la gola
secca e si sentiva completamente disidratato, forse aveva addirittura
perso qualche etto in sudore quel giorno.
Chiedendo agli altri di coprirlo nel caso che fosse arrivato
qualcuno a controllare, andò in cucina. Quando aprì la porta,
sollevandola appena per fare in modo che i cardini non cigolassero, non
notò immediatamente la luce di una candela proveniente dalla dispensa;
fu direttamente chi già era là a palesarsi.
«Connie!». La voce sorpresa di Sasha gli fece prendere un colpo, al
punto che il bicchiere d’acqua che si era appena versato gli scivolò
dalle mani e quasi finì a terra.
Il ragazzo si girò verso di lei. «Sasha! Che ci fai qui?», chiese,
ma si rispose da solo vedendo tra le mani della ragazza un panino
addentato. «Ma sei impazzita?!», trasalì, tracannandosi poi in un solo
sorso l’acqua e poggiando il contenitore vuoto sul tavolo. Si avvicinò
a lei, preoccupato. «Non si ruba il cibo dalla dispensa, se ti
beccano…».
Sasha non lo lasciò terminare: «Ma ho una fame terribile», e come
testimonianza di ciò, la pancia della ragazza emise un basso ruggito.
«Connie, se non avessi messo qualcosa sotto i denti avrei azzannato
Christa nel sonno!». Il ragazzo non pensò neppure per un attimo che
Sasha potesse esagerare dicendo ciò: era certo che l’amica ne sarebbe
stata capace.
Sasha, la prima che ricevette una punizione nel campo militare,
rimase tranquilla – per i suoi standard – e rispettosa delle regole per
tre anni, avendo capito il proprio sbaglio. Sicuramente quella
situazione poteva essere etichettata come “emergenza”.
«Ok, ok…», fece il ragazzo, sospirando. «Forse è meglio se prendi
qualcosa e la porti in stanza, non credi?».
Sasha non soppesò nemmeno quell’ipotesi, spiegando a Connie che se
poi non le fosse bastato sarebbe dovuta tornare, con il rischio doppio
di farsi beccare.
«Il Caporale Levi ci fa lavorare troppo», borbottò lei, tornando a
mangiucchiare il suo pane. «Non riuscivo a prendere sonno per i crampi
allo stomaco, ho esaurito tutte le mie riserve di cibo in corpo!».
Connie non poté che darle ragione. Anche lui aveva un po’ di fame,
in effetti, e Sasha sembrò leggere nella sua mente.
Sorrise gentile e lo prese per mano. «Vieni», sussurrò,
trascinandoselo appresso verso la dispensa, nonostante il ragazzo la
tranquillizzasse dicendole che non era necessario per lui. «Ma il cibo
è più buono quando lo si condivide», sorrise nuovamente lei. Resisterle
fu impossibile.
I due presero un altro panino a testa – Sasha aveva già finito il
proprio – e si dsedettero sul pavimento freddo della dispensa; avendo
cura di chiudere la porta e di continuare a mangiare a lume di candela.
Era un furto romantico, dopotutto.
Parlarono poco, preferendo usare la bocca per altro, ma il silenzio
– scandito dai morsi, dal masticare e dall’inghiottire – non fu mai
imbarazzate. Sasha e Connie stavano bene così com’erano, anche solo lo
stare insieme era bello per loro: significava che erano vivi. E, finché
fossero rimasti tali, tutto sarebbe andato bene.
Fu Sasha a parlare per prima: «Scusa, Connie», lo chiamò, come se ci
fosse qualcun altro, a parte loro due. «Hai un briciolone sul mento»,
disse lei.
Connie se lo pulì con il dorso della mano, ma la briciola,
incastrata sapientemente nella fossetta tra labbro inferiore e mento
rimase là. Sasha rise.
«Aspetta, te lo tolgo io; non sia mai che possa venire sprecato»,
sussurrò, avvicinandosi a lui e sporgendosi il tanto che bastava per
arrivare a far toccare i loro visi. Connie avrebbe dovuto immaginare
che Sasha, figlia del bosco e della montagna, non avrebbe fatto come
una qualsiasi altra ragazza – magari carina e a modo come Christa –,
non avrebbe usato un fazzoletto o la propria mano per pulirlo, no,
avvicinò le labbra alle sue e gli leccò via la briciola, mangiandosela.
Anche una persona stupida come Connie, però, capì che se Sasha era
arrivata a fare tanto non era solo perché voleva mangiare. Lo comprese
dallo sguardo nei suoi occhi ambrati, che esprimevano tanta gioia.
«Sasha…». Connie fece appena in tempo a chiamarla, per poi annullare
la poca distanza che si era andata a ricreare tra di loro.
Fu un bacio dolce, per niente invasivo, solo un contatto di labbra
che esprimeva tutto ciò che si erano tenuti dentro l’uno per l’altra.
Il passo successivo fu lento e aggraziato come il primo: le loro
mani iniziarono ad accarezzarsi e, gradualmente, gli indumenti che
fungevano da pigiama si scostarono dalla pelle per lasciare il posto a
delle mani timide e calde.
Andava tutto perfettamente.
Entrambi lo volevano – lo avevano sempre voluto – quindi non
importava attendere oltre con il rischio che la mattina portasse
titanici incubi come a Trost, con il rischio di non poter mai più avere
quell’intimo momento con il proprio partner.
Entrambi tennero addosso i vestiti, anche se le magliette iniziarono
a sollevarsi – mostrando gli addominali allenati e ancora più su fino
al seno di Sasha, morbido e sodo, esattamente come se l’era immaginato
Connie – e i pantaloni si abbassavano, mettendo a nudo terre totalmente
inesplorate per entrambi. Tentennarono un po’ alla vista del punto più
intimo di ognuno, ma bastò un altro bacio per rompere il ghiaccio e
proseguire.
Si accarezzarono reciprocamente con le mani, per preparasi meglio al
grande passo e quando dalla loro forte inesperienza capirono che
potevano essere pronti, Connie sdraiò Sasha sul pavimento e si
abbracciarono.
La cosa che Sasha non dimenticò mai di quel rapporto fu il dolore
che la pervase. Una sofferenza mai provata prima, molto lontana da
quella sul campo di battaglia mascherata dall’adrenalina o quella
durante gli allenamenti. Faceva male nel profondo, nonostante la
preparazione, nonostante la gentilezza del partner.
Per lei era la prima volta e sapeva che avrebbe fatto male, ma non
si aspettava così tanto.
La cosa, invece, che Connie non dimenticò mai di quel rapporto non
fu la fantastica sensazione di intimo calore che gli donò Sasha, ma il
fatto che la ragazza, nonostante la faccia sofferente, nonostante la
sua verginità, non emise un solo suono.
Tutto il dolore le rimaneva dentro e lei lo domava perfettamente non
facendo uscire fuori altro che un sibilo – nessuna lacrima, solo un
forte tremore.
Connie si fermò, non riuscendo a sostenere la vista di Sasha in
quelle condizioni. Gli faceva male.
«Sasha?», la chiamò con voce arrochita dal piacere. «Non devi
trattenerti. Ci sono io qui, solo io». Forse la frase era un po’ fatta,
ma lui non riuscì a pensare di meglio in quelle condizioni.
Sasha annuì, serrando forte le ginocchia ai fianchi di Connie.
«Abbracciami di più, per favore», chiese, sempre tremendamente formale
anche in un momento come quello.
Il ragazzo la accontentò – avrebbe fatto qualunque cosa per farla
stare meglio.
La tenne stretta a sé, lasciando che i loro corpi si incastrassero
come tessere di un puzzle.
«Co—Connie?», lo chiamò esitante, felice che si stesse trattenendo
per lei, solo per lei. «Perdonami, vai avanti», disse, nascondendo la
faccia contro il collo del ragazzo, il quale non se lo fece ripetere
due volte e continuò piano a entrare in lei.
E si stupì, Connie, quando finalmente un verso – seppur piccolo e
roco – arrivò al suo orecchio, seguita da altri, come delle frasi
sconnesse in un accento strano e selvatico.
Sasha non aveva mai parlato la sua lingua, vergognandosene. Solo
davanti a Connie si era lasciata andare, aveva abbracciato quel ragazzo
e, semplicemente, aveva chiuso gli occhi, non mettendosi più alcun
freno.
Un bacio sulla sua fronte, poi Connie iniziò a muoversi in lei,
facendo provare a entrambi un piacere nuovo, molto diverso da quello
conosciuto in solitudine.
E Sasha tra quelle braccia si sentiva bene, si sentiva amata. Poteva
essere se stesa senza dover preoccuparsi di cosa ne avrebbero pensato
gli altri. Perché c’era Connie lì con lei, che la avrebbe amata al di
là del linguaggio, degli usi e dei costumi.
E Connie era felice di poter stare tra le braccia di Sasha. Non
aveva mai desiderato nessun altra, a parte lei. E si sentiva contento
del fatto che la ragazza si stesse aprendo così tanto a lui,
permettendogli di scoprire nuovi suoi aspetti – perché erano unici e
caratteristici di Sasha, e per questo erano bellissimi.
Il loro rapporto non durò tanto, un po’ per inesperienza, un po’
perché erano entrambi molto eccitati.
Onde evitare inconvenienti, Connie rinunciò a marchiare come proprio
il corpo della ragazza, preferendo raggiungere l’apice dell’appagamento
nella mano – loro erano soldati e Connie non voleva che per una loro
negligenza la vita di una terza persona potesse essere messa in
pericolo, non se lo sarebbe mai perdonato.
Sasha non raggiunse propriamente il climax, ma essere stata di
Connie e aver condiviso quell’esperienza le erano bastate per quella
prima volta.
Sarebbero migliorati entrambi, con il tempo.
Dopo che si fu ripreso un po’, Connie ribaciò le labbra della
ragazza. «Grazie», le disse in un soffio. «Per essere qui con me». E
non intendeva solo “in quello sgabuzzino”, ma per essere entrata anche
lei negli Scout, nonostante entrambi avessero paura del futuro che li
attendeva.
«Grazie a te», rispose lei, restituendogli un altro bacio.
Da quel giorno tutto sarebbe stato migliore, finché i giganti non li
avessero portati via da quel mondo.
Fu il rumore della porta della dispensa che si apriva cigolando a
far riprendere loro contatto con la realtà.
«C’è qualcuno qu—». Sulla porta comparve Levi, con una candela in
mano, e come vide la coppietta si portò la mano libera alla bocca e
perse colorito in maniera preoccupante.
«Caporale!». Petra, dietro di lui, si accorse del suo repentino
cambio di stato. Aprì del tutto la porta e anche lei vide i due
innamorati ancora mezzo spogli, in terra.
Capire la situazione non doveva essere troppo difficile per nessuno.
I due ragazzi si sbrigarono a riassettarsi i vestiti, nonostante
l’umido calore a contatto con la pelle li facesse sentire terribilmente
a disagio.
Levi porse la candela a Petra, che fu lesta nel prenderla
praticamente al volo, posò dunque la mano al muro, cercando di
scacciare la nausea che provava.
«Caporale Levi…», ripeté Petra, visibilmente preoccupata, aiutandolo
a sorreggersi. Sapeva bene che Levi da giovane aveva vissuto nei
bassifondi e doveva aver visto più e più volte scene del genere.
I ragazzi rimasero immobili, in piedi, finché Levi non si ripigliò.
L’uomo prese un profondo respiro e li guardò come fossero due enormi
cacche di cane. «Mocciosi… qui ci teniamo il cibo! Non potevate
scegliere un altro posto?!», disse con voce ferma e dal tono freddo.
Petra allora capì cosa Levi avesse trovato di ributtante e a
pensarci aveva ragione.
Connie aprì la bocca per parlare, ma Levi afferrò una cipolla dalla
scansia lì vicina, lanciandogliela esattamente in bocca e zittendolo.
«Ora voi andate subito, e ripeto “subito” a farvi una doccia e poi
venite qui e pulite quello che avete sporcato, compreso il bicchiere
che c’è sul tavolo!», ringhiò, indicando con il pollice verso la mensa.
Connie si diede dello stupido, ecco come avevano fatto a scoprirli:
sicuramente, vedendo la stoviglie in giro, avevano pensato che ci fosse
qualcuno nei paraggi e avevano notato la fioca luce della candela
filtrare da sotto la porta.
Ribattere, per entrambi, fu impossibile.
Senza avere la forza di guardare Levi o Petra in faccia, corsero
velocemente verso le proprie stanze a prendere un cambio di abiti e a
fare quello che aveva detto il Caporale. Sapevano benissimo che non
sarebbe finita là, ma i loro piccoli sorrisi e il luccichio nei loro
occhi mostravano senza vergogna alcuna che se era quello il tributo che
dovevano pagare per la loro prima notte insieme, allora lo
avrebbero pagato volentieri anche per tutte le notti a seguire.