Capitolo 1.
Era assurdo. Era
completamente, assolutamente e decisamente assurdo tutto
ciò. Non poteva stare
capitando sul serio e proprio a me.
Io, il Capitano della squadra, il Boss della scuola,
l’indiscussa celebrità
dell’anno, passato e futuro. Insomma, quanto poteva odiarmi
Dio lassù per
decidere di farmi ricevere una punizione del genere? Quanto
l’avevo offeso o
fatto vergognare di una sua creazione col mio comportamento? Forse ero
stato un
po’ miscredente, eretico e ateo, ma, che cazzo,
c’era gente peggiore al mondo!
Quel
pomeriggio stava
filando tutto bene, nella norma, eravamo in vantaggio tre a zero contro
quei
perdenti dell’università avversaria ed io mi stavo
preparando per segnare il
quarto punto di fila, roba da mandare in visibilio i presenti e
spianarmi la
strada verso una carriera d’oro, quando un fulmine a ciel
sereno mi aveva fatto
impallidire e barcollare. Che sensazione tremenda era stata: un
sussulto al
cuore, poi uno scossone più forte, seguito da una sorta di
gelo nelle vene e
poi il sangue. Caldo e denso, uscitomi dalla bocca e corso a macchiare
il
prato. E dopo? Ricordavo solo di essermi accasciato a terra mentre un
centinaio
di voci iniziavano a urlare e preoccuparsi. Forse ero rimasto cosciente
fino
all’arrivo dell’ambulanza e dei soccorsi, alla fine
mi avevano ficcato una
mascherina sul muso e la testa aveva cominciato a girare. Poi il buio.
Ed ora mi
ritrovavo li,
in una stanzetta dalle pareti bianche e anonime, le lenzuola del
medesimo
colore, smorte e i mobili in ferro, a parte un misero armadietto dove
avrei
sistemato la mia roba visto che, stando a sentire le parole di quel
vecchio
dottore, sarei rimasto in compagnia dei medici e delle infermiere per
un po’. L’unico
colore vivo e acceso che avrebbe rallegrato quel mortorio,
probabilmente,
sarebbe stato quello dei miei capelli rossi.
«Il
suo cuore è
arrivato al limite» stava dicendo, «Ha subito
troppi sforzi negli ultimi anni
da quel che ho sentito, o sbaglio?».
Limite
un paio di palle, pensai,
rivolgendogli un’occhiata torva, io
sto
benissimo!
«La
terremo in
osservazione e la sottoporremo ad una serie di esami del sangue, ma
devo metterla al corrente che la situazione non è rosea, anzi, molto
complicata e seria da
quanto risulta nelle analisi. Mi stupisce, di solito in ragazzi giovani
della
sua età non dovrebbero svilupparsi tali anomalie, ma temo
comunque di doverla
avvisare che…».
Bla,
bla, bla, ma questo quanto parla? Tutte stronzate, si sta solo
inventando
grossi paroloni per mettermi in soggezione. Ah, quanto vorrei essere
fuori di
qui, chissà i ragazzi quanto staranno festeggiando per la
vittoria riportata!
Fiumi di alcool, maledizione!
«In
caso di
peggioramento dovremo procedere con un trapianto di cuore».
Silenzio,
non un fiato,
non un movimento, persino la mia mente si scollegò
nell’udire quelle parole.
Quell’uomo non poteva stare parlando sul serio. Aveva una
vaga idea di chi ero,
per caso? Ero sempre stato sano come un pesce, nulla fuori posto, non
mi ero
mai nemmeno beccato una fottuta influenza, e adesso veniva a dirmi che
potevo
aver bisogno di un cuore nuovo? Appartenuto ad un morto magari? Mai.
Dovettero
aspettare una
buona mezz’ora prima di riprendere con le spiegazioni
perché non fu affatto
facile mettermi a tacere e farmi comprendere la gravità
della situazione. Non
ne volevo sapere e, se non fossi stato nel reparto di cardiologia,
probabilmente mi avrebbero ficcato senza dubbio in quello di
psichiatria con i
matti. Certo, ma cosa pretendevano? Che sorridessi e che facessi buon
viso a
cattivo gioco? Loro venivano a dirmi che, con ogni
probabilità, mi avrebbero
fatto un buco sul petto e ci avrebbero infilato le loro manacce
sterilizzate ed
io non dovevo protestare?
La
verità era che avevo
paura. Si, paura di cosa sarebbe successo dopo. Avrei dovuto fare
costantemente
dei controlli, fare attenzione all’alimentazione, al bere,
all’attività fisica
e, di certo, non mi avrebbero più permesso di giocare. La
mia passione era
finita quel giorno in campo, in quell’attimo dove avevo
raggiunto l’apice del
benessere. Tutto si era ribaltato nel giro di un istante ed era andato
in
malora, a puttane, per la precisione. E cosa mi sarebbe rimasto? Solo
un ricordo.
Un ricordo e tanti rimpianti, tante opportunità buttate al
vento.
«Ora
la lasciamo
riposare. Passeremo più tardi per farle firmare alcuni
documenti e illustrarle
la procedura».
Non li
ascoltai
minimamente e continuai a mantenere fisso lo sguardo verso la finestra,
intento
a catturare quei pochi raggi di sole che per molto non avrei rivisto;
almeno
non nel modo che intendevo io.
Dopo un
tempo che parve
infinito mi riscossi dai miei pensieri e mi guardai attorno alla
ricerca di
qualcosa che potesse almeno un po’ distrarmi e tirarmi su il
morale. Di solito,
le rare volte in cui mi capitava di essere triste, bevevo come un
dannato in
compagnia di amici, ma dubitavo che un malato, per giunta dentro un
ospedale,
potesse organizzare festini alcolici, quindi alzai gli occhi al cielo e
mi
decisi ad alzarmi per fare quattro passi. Tra tutte le opzioni di
scelta,
quella era la migliore. L’obitorio l’avrei visitato
un altro giorno.
Non ero
il tipo da
lasciarmi scoraggiare per così poco e nemmeno
l’idea di ulteriori complicazioni
mi metteva in soggezione, dopotutto nulla poteva anche solo minimamente
scalfirmi e avrei affrontato tutto a testa alta, come sempre e con le
sole mie
forze. Mi sarei rimesso, avrei fatto vedere a quei bastardi che, anche
senza il
loro aiuto, sarei stato meglio e avrei ripreso ad allenarmi, a tornare
in campo
e a stracciare gli avversari a suon di menate e pugni, conquistando
l’intero
corpo studenti che già mi adorava. Quell’ipotetico
trapianto era un nemico, era
la squadra avversaria e l’avrei battuta ad occhi chiusi. Ne
sarei uscito
vincitore anche quella volta, sarei arrivato in cima alla vetta e con
il mio cuore avrei fatto scintille.
Non
ci sarà bisogno di nessuna operazione,
pensai, incamminandomi verso quella che sembrava l’uscita per
il reparto in cui
mi trovavo, ho sempre retto benissimo a
qualsiasi sforzo fisico, sto meglio di un atleta e non ho bisogno dei
loro
cazzo di contr…
«Ehi,
ma guarda dove
vai con quella carretta!» sbottai in direzione di un pazzo
che mi era appena
sfrecciato accanto sulla sedia a rotelle, rischiando di investirmi in
pieno. Il
diretto interessato, di sicuro senza la patente, inchiodò
bruscamente e voltò
la testa nella mia direzione, girando poi tutto il suo baldacchino di
fili e
ruote per poi ritornare indietro, giusto a pochi passi da me.
«Per
tua informazione
ti ho avvisato due volte di spostarti» spiegò,
guardandomi dall’alto in basso
come se fossi stato una specie di esperimento genetico mai visto,
soffermandosi
più del dovuto, ne ero certo, sui miei capelli,
«Ma tu continuavi a guardarti i
piedi!».
«Avresti
anche potuto
rallentare» gli feci notare a quel punto, ottenendo uno
sbuffo scocciato in
risposta e iniziando a provare una strana voglia di appendere quel
piccoletto
al muro. E poi, a dirla tutta, permettevano sul serio ai pazienti di
andare in
giro con cappelli assurdi come quello che aveva lui? Quale deficiente
si
farebbe chiamare Penguin? Robe
dell’altro mondo.
Mi
sondò per qualche
altro istante, borbottando qualcosa di incomprensibile tra
sé e sé, iniziando a
girarmi attorno con quell’affare con le rotelle. Ignorando il
mio fastidio e la
mia faccia corrucciata continuò indisturbato quello che
stava facendo anche
quando persi la pazienza e mi allontanai a passo spedito lungo il
corridoio,
diretto chissà dove, ovunque pur di togliermelo dai piedi.
Se c’era una cosa
che non sopportavo erano gli idioti. Nonostante tutto, però,
me lo ritrovai
puntualmente alle calcagna e con un sorriso sbieco stampato in quella
sua
faccia da ebete mezza nascosta dal frontino del berretto.
«Sei
nuovo di queste
parti, vero? Non ti ho mai visto prima» mi chiese,
illuminandosi quando gli
feci un cenno di assenso, «Sei in cardiologia, hai problemi
di cuore?».
«Tu
ne avrai
sicuramente se continui a seguirmi» risposi secco,
adocchiando una sala
d’attesa vuota e fiondandomici dentro, sperando che lo spazio
tra le due porte
fosse abbastanza stretto affinché lui non potesse passarci.
Tutto fu vano
perché l’impiastro, con
un’abilità piuttosto notevole per uno nelle sue
condizioni, riuscì a entrarci senza enormi sforzi,
posizionandosi di fronte a
me.
Restammo
a fissarci per
un lungo istante, durante il quale mi chiesi cosa diavolo volesse
quell’esserino minuto e dall’aria curiosa e scassa
cazzo. Pregai che non si
trattasse di uno dei soliti buonisti sempre alla ricerca di fare nuove
amicizie
per non perdere la speranza e tirarsi su il morale.
Alla fine
mi stancai di
averlo attorno, soprattutto se mi continuava a fissare in quel modo
sfacciato e
privo di vergogna. Insomma, un minimo di buona educazione, anche se io
ero
l’ultimo che poteva parlare, visto e considerato che il mio
vocabolario era
costituito per la maggior parte da insulti. Se non avessi temuto di
essere
incolpato di aggressione, gli avrei rotto anche l’altra gamba
visto che una già
gliel’avevano amputata.
«Senti,
dimmi cosa vuoi
e poi lasciami in pace» dissi, sedendomi su una delle sedie
scomode in plastica
e passandomi stancamente una mano sul viso. Quella si che era proprio
una
giornataccia. Prima facevo un mezzo infarto e poi un coglione in
carrozzina mi
seguiva senza sosta.
«Mi
sei simpatico»
annunciò, dopo essersi afferrato il mento con le dita con
fare pensieroso,
«Certo, sei un po’ scorbutico, ma dovresti andare
bene».
«Bene
per fare cosa?».
Immaginai
di vedere i
suoi occhi brillare sotto al cappello dato che il suo sorriso si
allargò da un
orecchio all’altro in modo contorto, «Per formare
un gruppo, ovvio!» fece
entusiasta, come se avessi dovuto pensare subito ad una prospettiva del
genere.
L’unica cosa che mi stavo chiedendo, invece, era da che
reparto provenisse
quello lì.
Probabilmente
in psichiatria ci stanno quelli come lui. Si, decisamente, è
uno sbandato. Per
forza, altrimenti perché girare con uno schifo in testa?
«Un
gruppo?» domandai
scettico, inarcando un sopracciglio e cercando un modo per chiamare la
sicurezza. Un pazzo mi stava importunando, non c’era da
scherzare.
«Esatto!
Una compagnia,
una squadra, chiamala come vuoi. Saremo amici e assieme sarà
più facile
superare i nostri problemi. Sempre meglio che essere soli, non
trovi?».
Bene,
è un buonista del cazzo, senza dubbio.
«Scusa
marmocchio, ma
non ho tempo da perdere. Solo a un idiota può venire in
mente di fare una cosa
del genere» brontolai, grattandomi distrattamente i capelli e
sbadigliando
sonoramente. Che cazzata, credeva di poter alleviare il dolore
parlandone con
qualcuno. Illuso, nessuno avrebbe mai potuto capire, eravamo tutti
diversi uno
dall’altro, perciò mettere i propri guai nelle
mani altrui era inutile e
sbagliato, tanto non sarebbe cambiato niente, no? Cosa avrei guadagnato
a
dargli retta? Semplice, il mio cuore non avrebbe sopportato tanta
stupidità e
sarebbe esploso prima del tempo. Quindi no, grazie.
«Veramente
l’idiota che
ha ideato il tutto è un altro» mormorò
senza la minima traccia di abbattimento,
«In questo momento sta facendo un esame, ma più
tardi te lo farò conoscere, non
temere!».
Alzai gli
occhi al
cielo, «Ti ho detto che non mi interessa» ripetei,
scoccandogli un’occhiata
torva. Di solito funzionava per zittire quelli che mi intralciavano la
strada.
Con lui, però, l’effetto fu neutralizzato
completamente e il mio astio gli
scivolò addosso senza toccarlo. Quel sorriso rimase immutato
sulla sua faccia
da schiaffi.
«Su,
su, non fare il
difficile! Ti prometto che non te ne pentirai e mi faresti un enorme
favore se
accettassi, sul serio. Siamo in due a portare avanti questa cosa e ho
un
disperato bisogno di un’altra persona» si
inalberò, aggrappandosi come una
sanguisuga ad una mia gamba e non dando segno di volersi staccare tanto
facilmente, nemmeno quando mi alzai e iniziai a camminare, rischiando
di inciampare.
Continuò ad artigliarmi il polpaccio, lasciandosi trascinare
su e giù per la
stanza.
«Anche
se accettassi
non sarebbe mai un vero gruppo. Per questo bisogna essere almeno in sei
e tre
non mi pare una compagnia molto numerosa» gli spiegai,
saltellando su una gamba
sola e perdendo una pantofola.
«Ma
se ti arruoli
automaticamente diventeremo quattro!» precisò in
tono lamentoso per poi
riprendere a supplicarmi. Dio, ma in ospedale accadevano cose del
genere?
Perché non rinchiudevano i malati di mente da qualche parte,
magari in una
stanza insonorizzata e senza porte per entrare e uscire, ne finestre? A
quello,
poi, avrebbero dovuto mettere per legge una camicia di forza. Superava
il
limite della sopportazione.
«Sai
contare almeno?
Due più uno fa tre!».
«Un
altro si unirà a
noi quando arriveremo a contare almeno tre partecipanti. Quindi, testa
rossa,
fa quattro. Ti prego, dì di si!».
«Chiedilo
a qualcun
altro. E non chiamarmi testa rossa!».
«E
come devo chiamarti,
allora?».
«Sono
Kidd. Eustass
Kidd».
Mi
guardò stranito per
un secondo, così approfittai per liberarmi dalla sua presa e
rimettermi dritto
in posizione eretta. Avevo fatto più fatica quel giorno che
durante i vari
allenamenti settimanali. Avrei potuto persino rimanere su una gamba
sola per
ore, ne ero certo, e avrei addirittura vinto un primato.
«Molto
piacere, io sono
Penguin» sorrise allora, porgendomi la mano che afferrai dopo
un attimo di
esitazione, stringendola con decisione e stupendomi nel sentirmi
ricambiato
allo stesso modo. A quanto pareva il ragazzino aveva un carattere
determinato e
sicuro di sé, quindi non avrebbe mollato tanto facilmente.
«Che
nome stupido»
commentai, incapace di starmene zitto.
«Anche
il tuo è molto
presuntuoso» ribatté saccente, tanto che mi venne
voglia di prenderlo e
sbattergli la testa addosso al muro. Era inutile, non lo sopportavo a
pelle e
avevo la vaga sensazione che quello era l’inizio di una lunga
serie di guai e
complicazioni. Dovevo sbarazzarmene al più presto.
«Ti
va di fare un giro?
Prima stavo andando a trovare una persona quando ci siamo incrociati,
mi accompagni?».
«Ho
scelta?».
Ghignò,
negando con il
capo e facendomi segno di seguirlo così, sbuffando
sonoramente, mi incamminai
dietro di lui e mi fece strada per una serie di corridoi, ascensori e
reparti
dai nomi strani e impronunciabili, studiando il luogo e stando a
sentire a
volte si e a volte no i suoi sproloqui sul tempo, sui medici, sulle
infermiere,
sui medicinali e sui pazienti del posto che, praticamente, lo
conoscevano
tutti.
«Posso
sapere perché
prima sei passato in cardiologia se la tua destinazione era due piani
più
sopra?» gli chiesi, sinceramente incuriosito.
Si
strinse nelle
spalle, dicendomi che era una scorciatoia che aveva imparato nel tempo
trascorso tra quelle mura che, a detta sua, era tanto, e una volta
imparate le
piantine dei piani e dell’intero edificio, tutto era
più facile e orientarsi
era un giochetto da ragazzi. Infatti, come a dimostrare il tutto,
arrivammo a
destinazione senza giri alternativi, quando io mi sarei perso centinaia
di
volte se fossi stato da solo.
«Ecco,
qui c’è la
terapia intensiva» spiegò, parlando a bassa voce e
rallentando la sua andatura,
affiancandomi e scortandomi lungo un corridoio silenzioso con le porte
delle
stanze tinte di blu. I medici che giravano erano pochi e nessuno
sembrò
interessarsi ad un idiota in sedia a rotelle e ad un colosso di due
metri
dall’aria poco cordiale e con un incendio in testa.
«Ci
siamo. Qui c’è il
tipo che si unirà a noi» fece, animandosi e
mettendosi quasi a saltellare. Lo
guardai torvo, pronto a riferirgli che non sarebbe mai accaduto, dato
che io no
avevo accettato, ma quello aprì la porta senza esitare
oltre, e senza bussare,
ed entrò in una stanzetta singola dove, incollato ad un
letto e ricoperto di
bende, stava un ragazzo addormentato con i capelli di un biondo chiaro
e
piuttosto lunghi.
Rimasi
piuttosto
stupito alla vista di quello spettacolo raccapricciante: praticamente
gli unici
arti che non erano ingessati erano il braccio destro e la schiena,
busto
compreso. Quelli forse poteva anche muoverli, ma le gambe erano tenute
inclinate da una serie di aggeggi di metallo, mentre una benda era
stretta
attorno alla sua fronte.
Mi
lasciai scappare un
fischio di stupore, provando ad immaginare cosa diavolo avesse
combinato per
ridursi in quel modo esagerato. Di conseguenza il nanerottolo mi diede
un
pizzicotto al braccio, intimandomi di fare silenzio mettendosi un dito
davanti
alla bocca e zittendo per un pelo un mio insulto.
Un
fruscio di lenzuola
arrivò alle nostre orecchie, seguito da un sospiro stanco e
da qualcuno che si
schiariva la voce per parlare.
«Penguin?
Sei di nuovo
tu?» domandò il poveraccio in modo arrendevole,
alzando un braccio per
afferrare una cordicina penzolante sopra di lui e issandosi un
po’ per mettersi
seduto e guardare in faccia il suo ospite. Ovviamente non si aspettava
di
trovare anche me e ciò gli fece corrugare le sopracciglia
con aria
interrogativa e sorpresa.
«Fammi
indovinare»
disse subito dopo, riferendosi direttamente a me con fare esasperato,
«Ha
provato a infinocchiare anche te con la storia del gruppo?».
Sogghignai,
per la
prima volta sinceramente divertito, quel tipo mi era già
simpatico. Ecco, forse
con lui avrei potuto fare amicizia, non con quel microbo che girava su
quattro
ruote.
«Kira-chan,
ora siamo
in tre, quindi sono venuto a darti il benvenuto nella nostra compagnia!
Con te
fanno quattro!» batté le mani Penguin,
avvicinandosi poi al bordo del letto e
poggiando i gomiti sul materasso per poi alzarsi un poco il frontino
del
cappello e guardare in faccia il suo obbiettivo raggiunto.
«Sei dei nostri,
finalmente» mormorò in un modo che, per qualche
assurdo motivo, mi fece venire
la pelle d’oca. Era come se stesse tramando qualcosa dietro
quella facciata da
stupido che aveva mostrato fino a poco prima. L’espressione
che fece, poi, fu
tutto, tranne che tranquillizzante. La stessa cosa sembrava pensarla
anche il
biondo perché, facendo forza sul braccio buono, si
spostò di lato per prendere
le distanze da quell’essere.
«Ehi,
non mi pare di
aver detto di essere dei vostri» mi sentii in dovere di
sottolineare, per
l’ennesima volta, ottenendo uno sguardo carico di gratitudine
da parte
dell’imbalsamato, il quale sembrò riacquistare un
briciolo di speranza nel
sentire quella confessione.
«Non
fare il difficile,
Eustass, vedrai che ci divertiremo. E poi, più siamo meglio
é». Era ritornato a
comportarsi come un moccioso, ridacchiando spensierato e facendomi
segno di
prendere una sedia pieghevole e avvicinarmi a loro per fare quattro
chiacchiere. Sembrava non preoccuparsi affatto dell’orario di
visite ormai
terminato e iniziò a parlare senza sosta, presentandomi il
ragazzo che
rispondeva al nome di Killer, Killer e basta a detta del diretto
interessato.
Viva
la fantasia, avevo
pensato, stando a sentire come fosse finito ingessato dalla testa ai
piedi. Un brutto
incidente in moto durante una corsa clandestina, quindi, oltre ai danni
fisici subiti,
si era beccato anche una denuncia, ma aveva fortunatamente evitato la
galera
per qualche anno. Per quanto mi riguardava, avrei preferito finire al
fresco
che starmene in un letto d’ospedale senza vie di fuga.
Scoprii anche che tutte
quelle informazioni non era stato lui stesso a fornirle a Penguin, ma
che
quest’ultimo fosse andato a ficcanasare sulla sua cartella
clinica per saperne
di più in proposito.
«Lui
non voleva
dirmelo» si giustificò, come se ciò
fosse abbastanza per giustificare un’azione
del genere, «Così mi sono arrangiato come ho
potuto».
«Lo
sai che potrei
denunciarti?» gli fece notare l’altro con calma e
con un sorriso sinistro che
apprezzai parecchio. Mi piacevano le persone subdole, anche se
ciò avrebbe
voluto dire che, automaticamente, anche Penguin, con quel suo modi di
fare
sinistro, entrava nelle mie grazie. Probabilmente lui costituiva
l’eccezione.
«Non
dire sciocchezze»
sbuffò il ragazzino, «Non hai prove e non lo
faresti».
«Non
sfidarmi».
Incredibilmente
il
tempo volò e quando un’infermiere fece il suo
ingresso, trovandoci ammassati
attorno al povero infermo, ci chiese, non senza una certa irritazione
nella
voce, di uscire e lasciar riposare il paziente, ricordandoci che, se
volevamo
venirlo a trovare, l’orario era segnato fuori,
all’ingresso del reparto.
Penguin non lo ascoltò minimamente e, prendendosi un momento
prima di andarsene,
ricordò a Killer che da quel giorno faceva parte della
squadra.
«Solo
se ci sta anche
lui» chiarì a quel punto, indicandomi con un dito
e aspettando una mia
risposta.
Li
guardai leggermente
schifato, riflettendo sul da farsi. Di certo avrei passato un
po’ di tempo tra
quelle mura e le giornate sarebbero state lunghe e infernali. Forse, se
avessi
avuto qualche passatempo, avrei sopportato meglio il tutto e quello
scapestrato
sembrava proprio il tipo di persona spericolata che faceva al caso mio.
E poi
non mi stava in culo, cosa che raramente accadeva quando conoscevo
nuovi
elementi, quindi aveva già un punto a suo favore. Magari
assieme avremo potuto
trovare il modo di mettere fuori gioco quel nanerottolo asfissiante.
Alla fine
sospirai
sconfitto, scuotendo il capo e accettando quell’assurda
proposta.
«E
sia» decretai, «Ma
voglio avere io il comando» chiarii. O a quella condizione o
non se ne faceva
niente.
A quelle
parole Penguin
sembrò farsi dubbioso, tanto che iniziò a
mordersi un labbro con indecisione,
asserendo infine che di ciò se ne poteva discutere.
Dopodiché salutammo Killer e
uscimmo dalla stanza, diretti verso il decimo piano.
«Posso
sapere perché ci
tenevi tanto ad averlo in squadra?» chiesi, ritrovandomi in
qualche strano modo
a spingere la carrozzina di quell’impiastro che,
massaggiandosi le braccia
doloranti per lo sforzo e il movimento, salutava gente a destra e a
manca,
indicandomi quando serviva la strada da prendere per raggiungere
l’ala Nord
dell’ospedale dove, stando alle sue parole, si trovava
l’ideatore di quella
commedia. Un altro squinternato insomma.
Si
zittì per un momento
e ringraziai il Cielo per quei pochi minuti di quiete, giusto il tempo
di un
viaggio in ascensore, quando poi riprese a parlare, guardandomi in
faccia e
mostrandomi per la prima volta i suoi occhi scuri che luccicavano di
meraviglia
ed emozione. Cosa che mi spiazzò, dato che io non mi
comportavo mai in quel
modo e non esprimevo assolutamente nessun tipo di sentimento.
«Ma
dico, l’hai visto?»
fece sognante, aspettando che gli dessi ragione. Invece aggrottai la
fronte e
lo guardai come se avessi avuto davanti un completo idiota. Che, in
poche
parole, era esattamente la realtà.
«Ehm,
si? E’
distrutto».
«E’
bellissimo!».
Parlammo
all’unisono,
scambiandoci poi delle occhiatacce per il nostro disaccordo. Come
poteva dire
una cosa del genere se il ragazzo riusciva a malapena a muoversi?
Inoltre,
imbottito in quel modo, non era di certo un bello spettacolo, per
quanto
potessi essere gentile nel giudicarlo.
Alla fine
decisi di
lasciar perdere, stringendomi nelle spalle e girando a sinistra dentro
un’enorme sala illuminata e tranquilla dove si aggiravano
pazienti in vestaglia
e medici indaffarati. Non era male come posto, forse, tra tutti, era il
migliore la dentro.
«Ci
siamo, continua da
quella parte» stava dicendo Penguin, dimenticatosi del suo
sogno ad occhi
aperti e fattosi
attento e vigile, come
se fosse alla ricerca di qualcosa.
Ci
aggirammo per quelle
stanze per una decina di minuti e, dopo aver sbirciato dentro una
camera e
averla trovata vuota, fummo costretti a tornare indietro. A quanto
pareva il
suo compare non c’era e non era ancora tornato dalla visita
che aveva in
programma.
«E’
malato anche questo
qui?» domandai, seduto su un tavolino con le gambe a
penzoloni e sgranocchiando
un pacchetto di praline al cioccolato che il nanerottolo aveva
acquistato alle
macchinette per entrambi. Inutile dire che avevo monopolizzato la
merenda e che
glie offrivo un boccone ogni cinque. Dopotutto, era troppo divertente
vederlo
dimenarsi sulla sedia a rotelle e protestare per
l’ingiustizia sulla sua
immobilità. Cosa potevo farci io? Ognuno aveva i propri
problemi e il suo non
mi riguardava.
«Non
è il termine
esatto definirlo malato» iniziò a dire,
interrompendo la frase per
maledirmi, «E’ difficile da spiegare, ma sono certo
che te lo vedrai da te».
Mi feci
pensieroso,
mettendogli il sacchetto a portata di mano, giusto per evitare di
attirare
l’attenzione dei presenti e di venire ripreso, vagliando nel
frattempo varie
alternative nella mia mente. Ero curioso di sapere il problema di quel
tizio ignoto.
Sicuramente, sopra ogni altra cosa, era un completo stupido per avere
un
piccoletto invalido con una gamba sola come amico, ma il resto restava
un
mistero che volevo scoprire. In un certo senso, la cosa si stava
facendo
interessante, anche se assurda.
«Le
stai finendo
tutte!» protestò di nuovo, «Almeno
lasciamene un po’!».
Alzai gli
occhi al
cielo senza prestargli attenzione e allontanando dalla sua portata la
merenda,
tenendola più in alto e sfottendo i suoi patetici tentativi
di afferrarla e di
appropriarsene. Poveretto, un po’ di pena me la faceva, ma
non ero incline a
fare il buon samaritano; nella vita quelli che sopravvivevano erano i
forti,
per i deboli non c’era il minimo spazio e se voleva tirare
avanti avrebbe
dovuto imparare a essere più bastardo e stronzo, esattamente
come me. Chissà,
magari avrei potuto renderlo mio allievo e insegnargli qualcosa.
Probabilmente
l’avrei fatto, ma non sapevo ancora che quello un maestro ce
l’aveva già, e non
uno qualsiasi, ma il peggiore sulla faccia della terra.
«Non
lo sai che è da
maleducati farsi beffe di chi è meno abile degli
altri?» mi sentii chiedere ad
un certo punto, adocchiando di sfuggita un sorriso di adorazione sulla
faccia
del pinguino e voltandomi in direzione della voce del nuovo arrivato.
Accanto a
noi,
appoggiato con un fianco al bordo del tavolo e le braccia incrociate,
se ne
stava un ragazzo piuttosto alto e smilzo, il quale mi fissava con
l’aria
sfacciatamente divertita, o lo sarebbe stato se non avesse sfoggiato un
fastidiosissimo ghigno di sufficienza.
Le
persone con cui
andavo d’accordo erano poche e quelle che mi piacevano ancora
meno. Quello lì
sentivo di odiarlo a pelle, anche senza conoscerlo.
Lo fissai
per qualche
altro istante, alzando infine le spalle e ignorando il suo commento,
«E tu
impara a farti i cazzi tuoi». Ma se credevo di potermi
liberare di lui facendo
la voce grossa mi sbagliavo di grosso.
«Credi
così poco in te
stesso che devi sottomettere i deboli per sentirti forte?».
Gli
scoccai un’occhiata
omicida e in un attimo gli fui di fronte a nemmeno un passo di
distanza. La cioccolata
abbandonata sul tavolo e i pugni stretti lungo i fianchi. Era
più basso di una
decina di centimetri, ma mi fronteggiava senza la minima ombra di
paura, al
contrario, sembrava che la situazione lo divertisse assai.
«Ripeti
se hai il
coraggio» ringhiai tra i denti, iniziando lentamente a
flettere il braccio per
colpirlo dritto in faccia e cancellargli quell’espressione da
superiore che stava
mostrando con fierezza.
«Come
siamo scorbutici»
sfotté, arricciando le labbra e gettando uno sguardo veloce
al deficiente in
carrozzina, «Ehi, Penguin, da dove l’hai
raccattato?».
«Viene
da cardiologia»
rispose l’altro a bocca piena, «E’ dei
nostri adesso e anche Kira-chan».
«Capisco.
Quindi sei
riuscito a convincere Killer-ya» mormorò il
bastardo, passandosi una mano fra i
capelli neri e fregandosene altamente del mio sguardo omicida. Quando
cercai di
afferrarlo per la collottola dell’orrenda felpa che indossava
si scansò
velocemente, facendo un passo indietro e alzando un dito verso di me,
come a
volermi dare un
avvertimento.
«Calma
capelli di
fuoco, sappi che ci sono delle regole» disse infatti, senza
perdere quell’aria
ghignante, «Intanto qui comando io…».
«Oh
no» lo interruppi,
avvicinandomi di un passo e coprendo nuovamente la distanza, sbattendo
violentemente un pugno sul tavolo, «Ho espressamente detto al
nanerottolo che
mi sarei sottoposto a questa stronzata solo se fossi stato io a
dirigere i
giochi» chiarii categorico, «Se non vi sta bene
potete anche dimenticarvi di
me».
«Ma
guarda, qui
qualcuno vuole dettare legge, eh?» mi prese in giro, per
nulla impressionato
dal mio sfogo, rimanendo impassibile e composto, «E va bene,
sarai il leader se
lo desideri tanto, ma sia chiaro fin da subito: la
responsabilità per qualsiasi
guaio è tua e tua soltanto».
«Ci
sto» risposi secco.
Ci avrei pensato più tardi ai problemi che avrei potuto
rischiare di avere
accettando quell’aspetto, ma ciò mi premeva di
essere al di sopra degli altri,
soprattutto al di sopra di quello stronzo con il pizzetto e il sorriso
da
volpe. L’idea di poterlo zittire e rimettere al suo posto
rendeva il tutto più
allettante e divertente, anche ritrovarmelo in ginocchio davanti a me
in uno
sgabuzzino non era male come prospettiva.
Quello
allora sorrise
in maniera contorta e sadica, facendomi temere di aver appena firmato
la mia
condanna. Di certo aveva qualcosa in mente, qualcosa di poco carino nei
miei
confronti, ma riacquisii la mia spavalderia e mi preparai ad
affrontarlo. Se
era la guerra che voleva allora l’avrebbe avuta e gli avrei
fatto capire fin da
subito che io non perdevo mai.
«D’accordo.
Ultima
cosa: io non prendo ordini da nessuno, chiaro?».
Scordatelo
moccioso, così non mi sta bene.
«Io
sono il Capitano,
ergo io decido e do gli ordini. Questi sono i patti» sibilai
minaccioso. Prima
accettava e poi metteva delle condizioni? Assolutamente no, non
gliel’avrei
permesso.
«I
tuoi patti, vorrai dire»
mi corresse, «Ti ricordo che questa cosa è
partita da me, quindi mi merito una parte del comando. Ergo»
ripeté, con l’intento di beffeggiarmi, «Tu non mi
ordini un emerito cazzo».
«Sai
dove te lo metto
sto cazzo?».
«Sono
curioso di
saperlo» mi sfidò, sostenendo il mio sguardo e
dando inizio ad una gara
silenziosa fatta di fulmini e antipatia reciproca. Era un osso duro, ma
ci
avrei pensato io a fargli abbassare la cresta e a ridimensionare il suo
ego
smisurato. Come si permetteva di intralciarmi in quel modo? Nessuno
osava, nessuno, perciò
chi era lui per avere
tutto quel fegato di tenermi testa?
Finalmente
qualcuno con le palle,
trovai il tempo di pensare. Almeno ci sarebbe stato da divertirsi.
«Quindi
dovrò
sottostare a Eustass d’ora in poi?» si intromise
Penguin, riportandoci alla
realtà e facendo si che la smettessimo di scannarci con gli
occhi. Con un
grugnito mi voltai dalla parte opposta, stizzito e incazzato, mentre
quella
piaga si interessava al piccoletto invalido.
«Esatto,
spero che Sua
Maestà sia soddisfatto di questo».
«Chiudi
il becco,
qualunque sia il tuo nome».
«Mi
chiamo Trafalgar
Law» sospirò rassegnato, «E ti ho detto
di non darmi ordini, Signor…?».
«Si
chiama Eustass
Kidd, ha ventuno anni e studia all’Università di
Ingegneria Meccanica. E’ un
novellino ed è arrivato qui oggi trasportato
d’urgenza per un malfunzionamento
cardiaco, per il resto basta guardarlo, insomma, non è molto
socievole, ma non
penso sia cattivo, sai? Mi ha anche portato a spasso con la sedia a
rotelle».
Fissai
allibito
l’idiota col cappello, passando dall’essere
sorpreso al sentirmi spiato.
Com’era venuto a conoscenza di tutte quelle informazioni sul
mio conto, quel
bastardo infame? Eppure ero certo di non avere cartellini addosso o
stupidaggini del genere che indicassero qualcosa sul mio conto.
«E
tu come sai tutto
questo, di grazia?» sbottai, trattenendo a stento la rabbia.
Prima avrei atteso
una risposta plausibile che spiegasse l’accaduto, poi
l’avrei gettato dalla
finestra, carrozzella compresa.
«Ho
un’amica addetta
agli archivi; sai com’è, le ho mandato un
messaggio» si strinse nelle spalle,
sorridendomi gioviale, come se la cosa fosse ovvia e chiara come il
sole.
Peccato che sul mio carattere ci avesse azzeccato: io ero scontroso e
poco
paziente, quindi non mi calmai affatto.
«Eustass-ya,
ma allora
sei davvero un mocciosetto».
Voltai il
capo quel
tanto che bastava per inquadrare quel Trafalgar, dedicandogli
un’occhiata truce
che prometteva prossime e terribili torture e sofferenze se avesse
anche solo
osato aprire bocca per ripetere una cosa del genere.
«Ha
parlato l’uomo
vissuto, immagino» mormorai velenoso.
Quello si
concesse una
breve risata di sufficienza, mentre Penguin si calcò meglio
il cappello in
testa nel tentativo di nascondere il suo sorrisetto. Dovevano per forza
essere
a conoscenza di qualcosa che a me sfuggiva, ne ero certo, e
ciò li faceva
divertire parecchio.
«In
effetti, piccolo Eustass, io ne ho
ventiquattro»
chiarì soddisfatto, godendosi il mio smarrimento e la mia
espressione arcigna.
La cosa, ovviamente, non mi faceva affatto piacere e sapere di avere
tre anni
in meno in confronto a lui mi faceva parecchio incazzare. Ad ogni modo,
se non
volevo perdere la testa e rodermi troppo l’anima, tenni conto
che, a parte quel
minuscolo e insignificante particolare dell’età,
in confronto a lui io ero il
doppio e avrei potuto schiacciarlo in ogni momento. Inoltre sarebbe
bastato un
giorno o due per fargli capire chi era migliore tra di noi. Un paio di
insulti
e qualche pugno avrebbero chiarito la situazione e garantito il mio
indiscusso
dominio.
Trafalgar
sfoggiò un
ghigno altezzoso e si permise di guardarmi dall’alto in
basso, come a voler
sottolineare più volte la differenza abissale tra di noi,
calcando sul fattore
età e facendomi ribollire il sangue nelle vene. Me
l’avrebbe pagata e gli avrei
fatto rimangiare ogni attimo di quella sua arroganza, poco ma sicuro.
«Un
marmocchio come
Capitano» borbotto fra sé, ridacchiando
sommessamente e ignorando il mio
ringhio decisamente poco umano, «Andrà
bene» dichiarò infine, guardandomi con
la coda dell’occhio senza smettere di ghignare. Cosa cazzo
ero diventato, un
fottuto pagliaccio? Io incutevo timore e ispiravo rispetto,
nonché sesso
selvaggio, invece lui che faceva? Se ne sbatteva altamente e rideva.
«Ora
ne mancano due e
poi saremo un gruppo a tutti gli effetti!» strillò
Penguin con entusiasmo,
alzando i pollici e aspettando una qualche reazione positiva da parte
mia e
dello stronzo, ma non avevo la minima intenzione di entusiasmarmi per
boiate
del genere. Per quanto riguardava, non avrei nemmeno mai pensato di
accettare
se non mi fossi fatto impietosire dallo sguardo speranzoso di Killer. E
poi,
ormai, quella storia era diventata una sorta di sfida con Trafalgar so-tutto-io Law e non mi sarei mai fatto
scappare l’occasione per metterlo alle strette e fotterlo.
«Ci
sono altri dementi
come voi in giro, per caso?» mi premurai di chiedere, giusto
per sapere cosa
dovevo aspettarmi da quel soggiorno in ospedale oltre a una serie
infinita di
esami, test clinici e stranezze inquietanti varie.
«In
effetti al quarto
piano c’è uno a cui potremo chiedere. Se ne sta
sempre per conto suo» spiegò
Penguin con fare dispiaciuto.
«Ha
capito tutto dalla
vita» commentai. Se voleva mantenersi sano di mente il modo
migliore era
tenersi alla larga da quelle due mine vaganti.
«E’
per questo che sei
senza amici, Eustass-ya?».
«Cosa
te lo fa pensare?»
ribattei stizzito e con i nervi a fior di pelle. Che ne sapeva lui
della mia
vita? Io ne avevo di amici, a bizzeffe per sua informazione.
Si
strinse nelle
spalle, «Non mi sembra di vedere qualche tuo conoscente qui
in giro. Nessuno ha
pensato di venirti a fare visita?».
A
quell’affermazione
non trovai nulla da ribattere e uno strano senso di comprensione si
fece strada
in me. Quel pomeriggio avevamo vinto una partita piuttosto importante
per
l’istituto e per la nostra squadra e, come ogni volta, era
prevista una festa
con i fiocchi a cui tutti avrebbero partecipato. Con tutto quel casino
successo
me ne ero scordato e non ci avevo fatto caso, ma possibile che tutti
avessero
preferito non rinunciare a un po’ d’alcool e musica
per passare a vedere come
stavo?
Guardai a
terra,
corrugando la fronte e ignorando la preoccupazione negli occhi di
Penguin che,
mordendosi le unghie delle dita, era indeciso se confortarmi o
lasciarmi in
pace.
Pensandoci
bene, un po’
me l’ero aspettato e non ero poi tanto stupito. Dopotutto non
ero altro che uno
spaccone montato, pieno di sé e alla maggior parte dei miei
compagni stavo
parecchio sulle scatole, solo quelli che volevano farsi un nome e avere
una
reputazione mi seguivano come discepoli, facendo tutto quello che
dicevo e
sostenendo ogni mia assurda idea. Nessuno mi contraddiceva, nessuno si
metteva
contro di me, pena un naso rotto o un braccio lussato, magari qualche
livido
quando mi sentivo magnanimo. A conti fatti ero un figlio di puttana,
quindi,
perché preoccuparsi tanto per la mia salute?
«Forza
Penguin, è ora
che tu vada» fece il ragazzo pelle e ossa, zittendo le
proteste del piccoletto
con uno scappellotto ben mirato sulla nuca, assicurandogli che il
giorno dopo
avremo fatto visita all’ipotetico quinto elemento della
compagnia.
«D’accordo.
Allora a
domani ragazzi!» ci salutò sorridente, dandoci le
spalle e avviandosi con la
sua sedia a rotelle verso gli ascensori. Non mi resi conto della sua
assenza
fino a che non mi sentii picchiettare una spalla, riscuotendomi dai
miei
pensieri e riflessioni che, invece di farmi sentire meglio, mi avevano
lasciato
addosso un senso di nausea e di ribrezzo per la mia vita
all’apparenza
perfetta, ma contaminata dallo schifo più totale.
Guardai
Trafalgar con
aria interrogativa, «Che vuoi?».
Mi
sondò per qualche
secondo, osservandomi attentamente per capire in che condizioni fosse
il mio umore
in quel momento. Alla fine decise di infischiarsene e di punzecchiarmi
ugualmente. «Non ti metterai mica a frignare spero»
fece con una smorfia di
disgusto.
Lo
spintonai lontano da
me, stupendomi della facilità con cui riuscii a spostarlo e
notando come iniziò
a massaggiarsi il braccio. Eppure non ero stato così brusco
come mio solito.
«Forza,
ti riaccompagno
in cardiologia». Così dicendo mi voltò
le spalle, affondando le mani nelle
tasche dei jeans dannatamente stretti che mettevano in risalto la sua
figura
magra e, accidenti, davvero troppo magra, tanto che rimasi immobile al
mio
posto, stranito da tutto ciò. Come cazzo faceva a reggersi
in piedi con quelle
gambe così fini?
Lasciai
scorrere lo
sguardo verso l’alto, soffermandomi sul fondoschiena che si
portava appresso e
il mio viso mutò in un’espressione di
apprezzamento.
Certo
che gli stronzi hanno sempre un culo da favola, altro che storie, pensai,
sorridendo leggermente e
mordendomi un labbro, inclinando il capo. Nemmeno
davanti sembra essere messo male.
«Eustass-ya».
I miei
occhi
incontrarono i suoi e mi resi conto di essere stato colto in flagrante,
ma la
cosa non mi preoccupò affatto. Figuriamoci, ci voleva ben
altro per mettermi in
imbarazzo e lui sembrò capirlo così, ricambiando
il sorriso, non perse tempo
per mettermi alla prova.
«Mi
trovi così
attraente?» domandò con un tono canzonatorio, al
che il mio ghigno si allargò.
«Non
essere così
presuntuoso, apprezzo solo il culo che ti ritrovi».
Alzò
gli occhi al
cielo, borbottando qualcosa riguardo ai mocciosi irriverenti e,
facendomi segno
di sbrigarmi, si diresse verso le scale, commentando sul fatto che, se
aveva
fortuna, lo sforzo fisico mi avrebbe fatto schiattare.
«Ci
vuole ben altro per
liberarsi di me, Trafalgar» mi premurai di fargli sapere,
guardandolo torvo ed
elaborando un piano per farlo scivolare sui gradini e mirare a
rompergli l’osso
del collo con una brutta caduta. Se era davvero così magro
la percentuale di
successo era piuttosto alta.
«Non
preoccuparti,
Eustass-ya, ci penserò io a farti fuori»
sogghignò lo stronzo con fare sadico e
con uno sguardo da folle che per poco non mi fece rabbrividire.
«Allora
è guerra»
ribattei, digrignando i denti e mostrandogli i canini come se fossi
stato un
predatore letale.
«Guerra
aperta» sibilò
maligno.
Era il
primo giorno, ma
già sapevo che sarebbe stato l’Inferno.
Angolo
Autrice:
Buonasera
gente ^^
Sono
certa che in questo
momento vi state facendo la stessa mia domanda: Cosa cazzo mi sono
messa in
testa di fare quando devo finire due long?
Eh, non
lo so proprio a
dire il vero, ma l’altra sera stavo passando in rassegna i
canali in tv e ho
beccato il film Braccialetti Rossi,
così ho un po’ storpiato la trama, rendendola
decisamente molto più scurrile e
con personaggi veramente bastardi. Che vergogna di ragazza che sono ^^
A ogni
modo sappiate
che non lascerò nulla di incompiuto e che con questa nuova
fic non ho
intenzione di tirarla per le lunghe, anche perché i capitoli
saranno abbastanza
corposi, quindi rilassatevi!
Alcune
paroline
sull’inizio di questa storia. Dunque, tutto ruota attorno
all’ospedale dove
Kidd è stato trasportato d’urgenza per un problema
grave, stando a sentire i
medici, e questo da inizio ad una vicenda che lo
accompagnerà nel suo soggiorno
in cardiologia. A quanto pare non è l’unico
ragazzo con problemi, infatti
abbiamo un Penguin invalido senza una zampetta, ma molto allegro e
abbastanza
spensierato. Soprattutto innamorato di un certo Kira-chan, scapestrato
e
devastato, imbalsamato dalla testa ai piedi. Si rimetterà
presto, dopotutto
dovrà pur riprendere le sue gare clandestine, no? Si, con la
sedia a rotelle
però! E poi arriva Law. Ow, dannazione a te e al tuo culo!
Lui e Penguin, più
l’ultimo che il primo, ma andando avanti lo
spiegherò meglio, vogliono riunire
un gruppetto di ragazzi per affrontare il loro soggiorno tra quelle
mura piene
di sofferenza e dolore. E non è nemmeno una brutta idea,
insomma, non deve
essere facile trovarsi rinchiusi in un luogo così cupo ed
essere soli. Quindi
la loro idea è quella di passare il tempo e divertirsi il
più possibile.
Due
ragazzi sono stati
nominati e nel prossimo capitolo ve li presento, ma penso che, se mi
conoscete,
possiate benissimo immaginare di chi sto parlando :3
Ace e
Marco!
Ok,
l’ho detto, mi
spiace, non ho resistito!
Che dire,
spero che
abbiate apprezzato questo inizio ^^
Ora vado,
per qualsiasi
cosa sapete dove trovarmi e se mi fate sapere cosa ne pensate ve ne
sarò grata
^^
Grazie a
tutti i nuovi
lettori e restate sintonizzati.
See ya,
Ace.
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