La
Rosa della Morte
Capitolo 00; Prologo
Il primo approccio con la
protagonista e la scoperta del suo male.
Il mio nome è
Rebecca McLowers. Sono nata in una piccola città
dell’Inghilterra nel 1823,
esattamente vent’anni fa.
La mia
vita, a partire da quando non ero altro che una bambina, è
sempre stata monotona, nella sua inusualità.
Fin
da quando ho
memoria, sono sempre stata circondata dalle attenzioni di mia madre e
di altre
donne, che spesso vedevo spesso solo per il tempo necessario ad
affezionarmici.
La mia infanzia
l’ho vissuta segregata in una villa isolata e spoglia,
avvolta in un paesaggio
di brughiera che mia madre usava definire «Il tuo paradiso personale».
Per quello che mi
riguarda, odiavo e odio tutt’ora il luogo dove sono costretta
a vivere, il
paesaggio brullo e desolato che fa da sfondo alla mia vita, e mia
madre, con
quel suo modo sciocco di cercare di distrarmi dal mio destino.
Fin
da quando sono
nata, infatti, sono destinata alla morte. Che c’è
di strano, direte voi? La
morte è una conseguenza della vita ovvia, in quanto nessuno
può vivere per
sempre.
Ma immaginatevi la
vostra morte: in un letto, caratterizzati dai capelli ormai bianchi
come la
neve, il volto cosparso da una ragnatela di rughe. Magari con parenti e
amici
al vostro capezzale, lacrime e disperazione e via dicendo. Insomma,
tutto
quello che qualcuno sognerebbe come morte… Qualcuno sano di
mente, almeno.
Ora
immaginate la
mia morte. Un giorno, neanche io so dire quando, così,
d’improvviso, ovunque io
sia, qualsiasi cosa io stia facendo, comincerò a sentire un
dolore lancinante.
E quest’agonia durerà fino al giorno della mia
morte, che potrà distare minuti,
giorni, ma anche anni.
Come diavolo puoi
spiegare una cosa del genere ad una bambina di quattro anni? Mia madre
l’ha
fatto. Un giorno – è ancora ben impresso nella mia
mente -, mia madre ha avuto
il buon gusto di dirmi tutto ciò, per poi aggiungere
quattordici anni dopo, il
giorno del compimento dei miei diciotto anni, che la causa di tutto
ciò era
lei.
Questo
ha
definitivamente segnato la rottura fra me e mia madre, cosa che lei ha
preso in
maniera inaspettata: ha urlato, pianto, mi ha pregata di capirla. Io
l’ho
fissata a lungo, imperturbabile. Il giorno dopo ha fatto le valigie ed
è
sparita oltre il cancello di ferro battuto che delimita i confini del
giardino
di casa mia.
Da allora vivo in
questa casa con l’unica compagnia dei domestici e della mia
gatta, assieme alla
sua cucciolata. Ormai ho vent’anni, e dal giorno della
partenza di mia madre
sono passati più di due anni; ciò nonostante ogni
giorno ripenso alla scelta
presa quella mattina, e sorrido, compiaciuta da me stessa. È
stata senz’ombra
di dubbio la decisione più appropriata.
Ma
torniamo al
discorso principale, quello per cui immagino voi vi siate incuriositi.
Io
dovrò, quindi, un giorno, morire. Tutti vi chiederete il
perché di
quest’assurda situazione, che mi conduce verso
un’agonia lunga e dolorosa, che
vede come unica fine la morte. Ebbene, il tutto è facilmente
racchiudibile in
un discorso breve e conciso.
Mia madre, poco
prima della mia nascita, s’invaghì di un uomo
straniero, che l’ammaliò con il
suo modo di fare non consono all’attualità
inglese. La pelle ambrata e non
pallida come quella dei nobiluomini
dell’epoca, gli occhi scuri e brillanti, il
sorriso ammaliante, e la borsa piena di strani oggetti provenienti dal
continente povero, l’Africa.
Mia
madre, a
quell’epoca, era promessa ad un uomo: James Geoffred Arcibald
McLowers, mio
padre. Ciò non le impedì, ovviamente, di perdersi
in una notte d’amore con lo
sconosciuto, che si rivelò più tardi essere uno
stregone.
Oh, andiamo, vedo i
sorrisi dipinti sui vostri volti: uno stregone? Tutti sappiamo bene che
non
esistono!
Illusi!
Leggete
ogni giorno storie di fantasia che parlano di streghe e maghi, e ancora
oggi
non credete alla loro esistenza?
Ebbene, continuando
con il racconto; mia madre, dopo questa notte passata con
quell’uomo, si
rifiutò di seguirlo nei suoi viaggi. Egli, infuriato, impose
una maledizione
sulla dinastia che sarebbe discesa da mia madre, Margareth Demminton.
Le diede
un fiore, una rosa rossa.
Sorridendo
maligno le
comunicò che, al cadere dell’ultimo petalo di
quella piccola pianta, la sua
erede sarebbe morta.
Alcuni mesi dopo
mia madre restò incinta di me. Inizialmente non aveva
creduto a ciò che l’uomo
le aveva detto, e aveva conservato la rosa per qualche ignota ragione,
anziché
distruggerla immediatamente.
Quella
continuava a
vivere, senza accennare ad appassire, cosa consona ad ogni rosa di
questo
mondo. Fu forse questo a preoccupare maggiormente mia madre, che alla
mia
nascita, un anno dopo l’incontro con lo sconosciuto, si
ricordò della
maledizione impostale da quello strano individuo.
Durante la
mia prima infanzia, quando io avevo appena due anni, suo marito, l’uomo che avrebbe dovuto
crescermi e farmi da
padre, perse la vita. Morì di scarlattina, malattia
facilmente contraibile
nelle città della mia epoca, ormai ricoperte da una scura
cappa di smog
industriale, caratterizzate dalle vie piccole e piene di acqua
ristagnante.
Dopo
questo
tremendo lutto, che sconvolse mia madre in modo irrecuperabile, ella
decise di
trasferirsi nella magione di famiglia, che si trovava a cento miglia da
Londra,
in un piccolo paese di campagna, dove l’aria non era ancora
stata inquinata
dalla pazzia dell’uomo.
Mi crebbe lì,
lontana dalla civiltà, impedendomi di uscire dal cancello
nero che segna il
limite della mia vita.
Diciott’anni
ho
dovuto aspettare, prima di vedere il paese natio di tutte le persone
che mia
madre accoglieva in casa, come sguattere, cuochi, istruttrici severe e
impassibili.
Alla scomparsa di
mia madre, presi la decisione di visitare almeno quell’ignoto
paese che mi
pareva fatto di una realtà diversa da quella in cui vivevo
io. Presi così una
carrozza, e convinsi un giovane uomo della casa ad accompagnarmi a
visitare il
luogo. Dopo qualche minuto di viaggio arrivammo nella piccola piazza
del
villaggio, dove si stagliava la piccola chiesa. Scesi dalla carrozza
con il
cuore in gola: per la prima volta potevo visitare un luogo che non
fossero le
monotone stanze della mia villa!
La
mia comparsa nel
paese fu accolta da numerosi bisbigli, che crebbero in un brusio
irritante per
le mie orecchie, abituate alla pace della solitudine. Mi guardai
attorno,
imprimendo nella mia mente il ricordo di quel paese che mai
più avrei rivisto.
Irritata dal
comportamento dei paesani, risalì velocemente sulla
carrozza, per tornarmene
immediatamente al luogo da cui ero venuta. Lì mi rinchiusi,
attorniata
semplicemente da pochi fidi domestici, che vivono con me ancora adesso.
Questa, dunque, è
la mia storia. Testimone è la piccola rosa che tengo al
riparo sotto una
campana di cristallo, posata sul comò che si trova accanto
al mio letto, nella
mia camera.
Questa è la storia
di Rebecca McLowers, una giovane che è destinata a morire,
direbbero i
cantastorie. Destinata a morire. Buffo, tutti lo siamo, ripeto. Eppure
la morte
può essere così sconcertante, per chi, ignaro,
desidererebbe morire nella
vecchiaia, e non nel fiore della propria giovinezza.
Ed eccomi qui. È
solo un’idea che mi è passata in mente mentre
rileggevo una frase che ideai
tempo fa. Non so ancora come procederà, o meglio,
un’idea ce l’ho ma non è
ancora ben definita. So che vorrei farne una storia a capitoli anche
piuttosto
lunga, ma il tempo e gli impegni non so fino a che punto me lo
consentiranno.
Bene, detto ciò, vi lascio.
Ah, un’ultima
cosa:
questo corto prologo è in prima persona, ma i capitoli
seguenti saranno sempre
narrati da un terzo ;).
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