Pages
Non riesce a concentrarsi come
vorrebbe.
Non che abbia particolarmente bisogno
di ripassare le
reazioni chimiche dei gas volatili, ma quello è
l’unico libro di alchimia che è
riuscito a salvare dai roditori selvatici che razziano tra le crepe e
le
aperture della sua baracca.
Sbuffa rumorosamente, accorgendosi di
aver perso il filo e
di stare rileggendo la stessa riga per la quindicesima volta
– senza per altro
capirne il significato.
Distratto, la concentrazione ormai
irrecuperabile: e la noia
c’entra ben poco.
Incrocia le gambe, cercando una
posizione più comoda, a
sedere sul pavimento duro, ma non c’è niente da
fare: ottiene solo un altro
grugnito di disapprovazione da dietro le sue spalle, per il movimento
inconsulto.
Riza, la schiena contro la sua e il
fucile smontato in
grembo, pulisce ogni singolo ingranaggio con cura maniacale, senza
sosta.
“Scusa” sussurra
lui a bassa voce, per non disturbarla ulteriormente,
mentre tenta di ripetere a memoria le diverse componenti alchemiche
dell’ossido
di carbonio.
Per una attimo, un attimo solo, pensa
di essere tornato ai
pomeriggi silenziosi di studio, con i gomiti appoggiati
all’imponente tavolo di
mogano scuro della libreria, e il respiro regolare di una bambina a
scandire le
parole stampate di pesanti volumi polverosi.
Lui, svogliato come allora; lei
concentrata sul suo lavoro,
una sciarpa sfilacciata – quello che sarebbe stato il suo
futuro regalo di
natale.
Ora, gli ingranaggi del fucile di
precisione, tintinnano
come i bicchieri di cristallo del cenone. Ma la candela ormai sciolta
al loro
fianco, nel casolare in rovina, è molto diversa da un albero
di natale.
La sente appoggiarsi un po’
di più alla sua schiena, cedere
alla stanchezza di un giorno di appostamenti e assalti. Lui distende
lentamente
la spina dorsale, facendola combaciare con quella di lei, pelle contro
pelle,
da sotto il tessuto spesso della divisa.
E’ allora che sente il
tatuaggio, bruciare da sotto gli
strati di abiti impolverati, incidersi in ogni sua singola vertebra.
E all’improvviso vorrebbe
trasferirlo su di sé, macchiarsi e
marchiarsi di quella colpa, che gli appartiene, il fardello portato
troppo a
lungo da lei, complice involontaria e innocente.
Sospira piano, abbandonando la testa
all’indietro,
appoggiandosi a lei – come ha sempre ha fatto e come
continuerà a fare in
futuro, nonostante i suoi sforzi – come se volesse imprimere
almeno lo
speculare di quel crimine su di sé. Dividerne il peso.
“Ti ha fatto
male?”
Sa che è una cosa stupida
e impossibile, ma può sentirla
sorridere, anche senza vedere
gli angoli della sua bocca sollevarsi appena.
Prima che possa rispondere, si gira
di scatto, prendendola
al volo quando lei cade all’indietro, sbilanciata.
Mentre deposita piccoli baci
meticolosi sulla sua tempia,
sulla guancia, sul collo, sulla sua bocca, si rende conto che gli
avrebbe
risposto di no solo per non farlo preoccupare, per non alimentare i
suoi sensi
di colpa, la sua rabbia, o qualsiasi altro sentimento autodistruttivo
di cui è
pieno.
Per questo la stringe a
sé, mentre i pezzi del fucile
smontato si spargono per tutto il pavimento.
Perché ama e odia, come
lei, quei segni indelebili, la loro
salvezza e la loro maledizione, un legame di fuoco e sangue che ha
unito le
loro strade e le mantiene intrecciate indissolubilmente.
Ama e odia lei, che lo ha reso
l’uomo e il mostro, che lo
salva un attimo prima di ucciderlo - lei che lo ama e lo odia senza
saperlo,
senza poterlo spiegare a parole.
La fiamma della candela balla danze
esotiche e lontane,
sulla cera sciolta.
La salamandra disegnata sulla sua
pelle è viva, si muove con
la sua pelle nuda, mentre si spoglia.
Le sue mani sulla sua schiena, la sua
bocca sul collo
sottile, mentre le formule incomprensibili di quel disegno si
trasmutano in
parole d’amore, versi di poeti dimenticati mormorati a bassa
voce - si
confondono con il rumore del vento e delle pagine mosse da invisibili
brezze
notturne, si incidono sulla sua pelle: non servono cerchi alchemici per
creare
quel sentimento dalla sabbia dura.
Riza sulla
sua
bocca, Riza sotto il palmo della
sua
mano.
Riza. Vedi,
Riza, è
parte di te, parte di me. Siamo noi, questa storia che sembra non debba
mai
arrivare alla sua fine, che ci trascina, ci annega, ci seppellisce tra
gli
eventi; questo morire come pagine bruciate – non ne
dimenticare, non ne
strappare, perché è storia anche il dolore,
è la nostra storia anche questo
dolore che non ci lascia riposare; questo legame dolceamaro –
Riza
un’ultima volta, mentre appoggia la fronte accanto al suo
orecchio, sul
materasso duro.
Riza che sorride contro la pelle
della sua spalla, perché
ancora una volta ama - inevitabilmente, dolcemente - più di
quanto odia.
Questo penso
sia il
capitolo che spiega meglio le mie elucubrazioni sul loro rapporto.
Ed
è anche il momento
in cui entrambi arrivano alle mie stesse conclusioni – o
almeno spero: con Roy
e Riza non si può mai dire…
Credo che il
loro
amore (se mi concedete il termine per chiamare questa strana
“cosa” che ci
appassiona tutte) sia sostanzialmente un
insieme di sentimenti ed esperienza contraddittorie di cui
entrambi non
sanno venire a capo (almeno a questo punto della loro storia).
Un
sentimento che
include sensi di colpa, attribuzioni di responsabilità,
dipendenza
involontaria, proiezioni di speranze e sogni. Qualcosa che nasce nel
dolore –
di una scelta reputata sbagliata e dalle conseguenze catastrofiche - ,
che
cresce nel dolore -
una guerra - e che è
destinato a rimanerci (non
per fare
l’uccello del malaugurio, ma nella migliore delle ipotesi,
anche se Roy
diventasse Furer, lui stesso non si sottrarrebbe al giudizio e alla
punizione
che gli spetta per ciò che ha fatto a Ishvar...). Qualcosa
che proprio da
questa sua contraddittorietà e impossibilità di
fondo trae la sua bellezza.
Qualcosa
che, per
quanto potente e irrimediabile come solo un sentimento del genere
può essere,
prima o poi dovrà fare i conti con questo contesto non
proprio roseo…
E anche per
oggi, ho
elargito la mia dose quotidiana di disfattismo. :P
No, dai, in
fondo il
capitolo lasciava un qualche margine di speranza... e anche i prossimi
non
saranno da meno (la tempesta è già finita?
Mmm… solo rimandata).
Ah,
dimenticavo: ecco
al traduzione della canzone-citazione dell’altra volta (scusa
elyxys, mi
dimentico sempre di aggiungerla… ^^”):
“Guarda
questo paese
attraverso gli occhi della sua gente
Guarda le lacrime che
scorrono come fiumi dal cielo
Dove ti sembra che ci
siano colo rovine
Dove gli altri si
girano sospirando
Ti rialzerai
C’è disastro nel tuo
passato
Confini nel tuo
sentiero
Ciò che desideri ti
spingerà più in alto?
Non hai bisogno di
essere straordinario, solo perdonare
Quelli che non hanno
mai udito il tuo grido
Ti rialzerai
E guarderai oltre i
cieli
Dove gli altri cadono,
tu prevarrai nel tempo
Ti rialzerai
Non potrai mai saperlo
Se rimani giù, al
suolo
Ti rialzerai
Prima o tardi dovremo
provare
Provare a vivere”
A presto, bacioni! ^^
|