The Sign of three
WARNING: Questa è un
Omegaverse con conseguente Mpreg ed è ambientata in un universo parallelo.
Se le tematiche vi
possono infastidire, "it was nice to meet you". :D
Qui sotto troverete
una breve definizione dei tre "ruoli" fondamentali nell'Omegaverse; Alpha Beta e
Omega:
Ogni persona ha un
odore distintivo della propria personalità che si forma nelle prime settimane di
vita.
Gli Alpha sono coloro
che ricoprono il ruolo più alto nella Società( posizioni nell'Esercito o nei
vari Ministeri saranno inevitabilmente ricoperte da Alpha) Questi possono essere
sia uomini che donne, spesso provengono da famiglie antiche ed agiate e
raggiungono il loro status attraverso prestanza fisica o creando alleanze
importanti all'interno della Società; generalmente
dominante.
I Beta vengono subito
dopo gli Alpha nella scala gerarchica della Società, dal carattere cordiale e amorevole; il loro
senso dell'olfatto non è molto sviluppato, il che li favorisce nel campo medico(
specialmente nel ruolo di ostetriche, infermieri etc.), in quanto restano immuni
dai diversi odori. Possono accoppiarsi soltanto con altri Beta, in quanto la
loro parziale sterilità, metterebbe a rischio la continuità della
specie.
Gli omega sono
considerati, da alcuni, l'anello debole della Società e, da altri, qualcosa di
raro e prezioso da proteggere.
Anche questi possono
essere sia maschi che femmine e, per quanto riguarda gli Omega maschi producono
lubrificante "naturale" che permette loro di restare "incinti" durante l'Estro(
periodo che va dai due ai nove giorni in cui l'Omega è maggiormente fertile):
durante quest'esperienza due amanti possono formare un Legame( un morso alla
base del collo del proprio partner durante il piacere massimo dell'orgasmo, in
modo da suggellare la propria unione) e questo Legame è
indissolubile.
Coppie di Alpha-Omega
possono sviluppare un legame empatico con il proprio partner; un Alpha Unito ad
un Omega è tendenzialmente possessivo e geloso del proprio partner mentre le
Omega tendono ad essere più remissive per accontentare il proprio
partner.
Come
ogni mattina, da nove anni, la sveglia di John Watson suonò alle sette
precise.
Un
gemito uscì dalle labbra dischiuse dell’uomo seminascosto dalle coperte, mentre
una mano si faceva spazio fra fodere e sovraccoperte per spegnere quel rumore
infernale.
Quando
finalmente la stanza fu nuovamente avvolta nel silenzio, come ogni mattina, John
si baloccò con l’idea di concedersi altri cinque minuti nel caldo del suo letto,
ma come sempre dovette cedere alla parte razionale del suo cervello e rizzarsi a
sedere.
Seduto
nella propria parte del letto matrimoniale, come ogni mattina John mosse le
spalle, prima la destra e poi la sinistra per sciogliere i muscoli; fece
scrocchiare il collo per poi alzarsi in piedi e afferrare la vestaglia di tartan
da sempre ai piedi del letto, prima di dirigersi verso il bagno, pronto per la
doccia mattutina che lo avrebbe aiutato a svegliarsi e che gli avrebbe concesso
dieci minuti di pace e solitudine ulteriori.
Esattamente
dieci minuti dopo era nuovamente nella propria camera da letto, i capelli ancora
leggermente umidi, intento ad indossare i vestiti che aveva preparato la sera
prima e che aveva sistemato ordinatamente sul comò: niente di troppo elegante,
un paio di blue jeans, una camicia a scacchi rossa, ed un cardigan sempre rosso
ma di una tonalità leggermente più scura, abiti che ispiravano allo stesso tempo
sicurezza e giovialità.
Soltanto
quando fu perfettamente vestito e dopo aver sistemato la stanza, aprì la porta
della camera da letto ed uscì nel salotto, fermandosi sulla soglia con un
sorriso sorpreso sulle labbra.
Quasi
all’istante, due occhi azzurro ghiaccio si sollevarono dal libro posato sulle
ginocchia nascoste da un plaid e incontrarono i suoi, chiaramente in
attesa.
-Da
quanto sei in piedi?- domandò John.
Matthew
Watson, nove anni ed un cervello troppo brillante per la sua età, alzò le
spalle.
-Ho
sentito l’allarme della tua sveglia.
Credo
che dovresti riconsiderarne il volume-gli consigliò prima di sciogliere i loro
sguardi per posarlo nuovamente sul libro.
John
sorrise e con un lieve cenno del capo, si mosse verso la
cucina.
-Tua
sorella sta ancora dormendo?-gli chiese accendendo il bollitore per la sua tazza
di tea mattutina.
-Non
la sveglierebbero neanche le cannonate…Deve aver ripreso da te in
questo-commentò il bambino.
-Tu
invece devi aver ripreso il mio senso dell’umorismo-rispose l’uomo senza
scomporsi.
Continuando
a muoversi agilmente per la cucina che ormai conosceva come il palmo della sua
mano, John sistemò due fette di pane nel tostapane e tirò fuori una tazza e una
ciotola prima di rialzare lo sguardo verso il ragazzo.
-Hai
intenzione di fare colazione? E in quel caso: toast, cereali o uova?-gli
domandò, come faceva ogni mattina.
Matthew
fece un suono indecifrabile, continuando a tenere lo sguardo fisso sul
libro.
-In
un linguaggio comprensibile, per favore- ribatté ancora
John.
-Sono
combattuto: so di dare il meglio quando affronto un test a stomaco vuoto, ma al
contempo dovrei aspettare fino all’ora di pranzo prima di potermi rilassare
completamente e mangiare…Ed anche allora non so se avrò appetito-considerò il
bambino.
John
osservò suo figlio in attesa, cercando di combattere l’istinto che gli
consigliava di usare la sua autorità Alpha su suo figlio, consapevole allo
stesso tempo che non avrebbe ottenuto nessun risultato.
-Credo
di poter correre il rischio di un toast con marmellata- decise finalmente
Matthew.
L’uomo
annuì ed aggiunse un'altra fetta nel tostapane.
-Nel
frattempo che ne dici di andare di sopra, svegliare tua sorella e
vestirvi?-disse rivolgendogli un nuovo sorriso.
-Ma…-tentò
di ribattere il bambino.
-Matty
continuare a studiare ora non ti servirà a nulla, ti renderà soltanto più
ansioso; hai i voti più alti di tutta la classe, se escludiamo tua sorella,
quindi, rilassati e va di sopra a vestirti-gli disse con voce
affabile.
Era
evidente che suo figlio non fosse affatto convinto del suo discorso, ma
fortunatamente Matthew si limitò ad sospirare, raccogliere i propri libri e
avviarsi verso la rampa di scale che l’avrebbe portato nella vecchia camera di
John ora trasformata nella camera dei ragazzi.
Una
lieve vibrazione nella tasca dei jeans lo avvertì dell’arrivo di un messaggio
proprio nel momento in cui il
bollitore iniziò a fischiare; dopo aver versato l’acqua bollente nella
propria tazza ed aver tirato fuori il latte dal frigo, John aprì il proprio
cellulare per leggere il messaggio.
Mycroft
passerà a prendere i bambini dopo la scuola e li porterà dal sarto per la prova
dei vestiti. Il nostro appuntamento è per le cinque. G
John
accennò un sorriso, controllando velocemente il calendario per controllare che
quel giorno i suoi figli non avessero attività
extrascolastiche.
Malgrado
fossero insieme da sei anni ed avessero un bambino, alle volte gli sembrava
ancora strano pensare a Greg Lestrade, il suo migliore amico, Capo Detective
Investigativo di Scotland Yard, e Mycroft Holmes, eminenza grigia del Governo
Britannico, come una amorevole coppia.
Eppure
loro, malgrado i loro impegni e le loro responsabilità erano riusciti dove John
aveva fallito…
Niente colori pastello. Matthew mi farebbe sanguinare le orecchie a
forza di lamentele. E di al tuo uomo di non viziarli troppo come al suo solito
JW
-Buongiorno
papà!-
Il
rumore di passi veloci sulle scale lo portò a rialzare lo sguardo e a lasciare
il cellulare sul piano accanto al bollitore, prima di rivolgere un sorriso alla
piccola della famiglia.
Amelia
Victoria Watson mal sopportava essere la piccola di casa, anzi non mancava di
sottolineare che era stato soltanto per pochi minuti che suo fratello Matthew
Arthur Watson le aveva rubato il titolo di primogenito.
Dopo
avergli posato un bacio veloce sulla guancia, Amelia si sedette al proprio posto
attorno al tavolo, versando subito i cereali nella ciotola, lasciandogli addosso
un lieve sentore di lavanda che fin dalla nascita John associava alla
bambina.
-Possibile
che questa mattina non riesca ad avervi tutti e due nello stesso posto per
iniziare la giornata? Dov’è tuo fratello?- le domandò versando una goccia di
latte nel proprio tea e passando poi la bottiglia alla
bambina.
-Sta
cercando di dare un ordine ai suoi ricci-rispose lei.
John
la guardò stupito.
-Da
quando tuo fratello si preoccupa di avere i capelli in
ordine?
Ha
per caso una fidanzatina?-domandò sistemando la propria tazza, ed il piatto a
capotavola.
Amy
fece una smorfia disgustata e proprio in quel momento Matt entrò in cucina,
l’odore di miele e solvente chimico perfettamente amalgamato creando un odore
unico che ormai era diventato la sua caratteristica, ad annunciare il suo
arrivo.
-E’
per l’insegnante di storia…Nel caso dovessi sbagliare qualche domanda-disse
alzando le spalle come fosse la risposta più ovvia.
John
lo guardò incredulo per qualche istante prima di scuotere la
testa.
“Cos’altro
potevo aspettarmi da Sherlock Holmes
Jr.?”
si chiese, dandosi mentalmente dell’idiota.
Sorseggiando
lentamente il proprio tea, John osservò i propri figli, impegnati nella propria
colazione e con indosso le uniformi della scuola e per la millesima volta si
chiese come avesse fatto ad essere così fortunato.
Certo
quella non era la vita che aveva immaginato da ragazzo, ma quante volte i sogni
di bambino si realizzano?
John
Hamish Watson, trentanove anni, Alpha, aveva sempre pensato che alla soglia dei
quaranta avrebbe avuto uno studio medico ben avviato, una discreta sicurezza
economica, una casa in campagna, un cane, un compagno accanto e un indefinito
numero di figli.
Ed
in parte era riuscito nel proprio obiettivo: aveva uno studio medico, con
pazienti che gli volevano bene e lo rispettavano, una sicurezza economica in
parte guadagnata con il proprio lavoro e in parte grazie all’aiuto della sua
famiglia acquisita, aveva una casa che, malgrado non fosse di proprietà o in
campagna, era l’unico posto al mondo dove si sentisse al sicuro, e stava
considerando di regalare un cane ai bambini per Natale.
A
chi importava se aveva raggiunto quel traguardo attraverso rabbia, sangue,
sudore, dolore, la paura di non ritornare più quello di un tempo, la sofferenza
per un cuore spezzato e la consapevolezza di non essere
abbastanza?
John
scosse leggermente la testa, scacciando quei pensieri dalla mente e posò lo
sguardo su Matthew, Matty, il suo primogenito.
Fin
dal primo istante in cui era venuto al mondo, aveva fatto emergere il suo
carattere, urlando a pieni polmoni finché non gli si prestava attenzione, anche
soltanto accarezzandogli le piccole dita o il piedino, ma inaspettatamente
bisognoso di costante contatto umano, al punto che John aveva dovuto portarlo
con sé ovunque nel marsupio durante i primi mesi di vita.
Come
non bastassero i suoi capelli nero corvino, i suoi riccioli, ed i suoi occhi blu
ghiaccio, per capire a chi appartenesse gran parte del suo patrimonio
genetico.
Malgrado
l’apparenza distante, quasi algida, Matty era il più fragile dei suoi figli,
legato a suo padre in maniera viscerale, alcuni avrebbero detto quasi morbosa,
portandolo a chiedere gran parte dell’attenzione di John, che era disposto a
condividere soltanto con sua sorella.
Con
il passare degli anni, l’intelligenza prettamente Holmes si era messa sempre di
più in mostra, facendolo eccellere nelle scienze, ma costringendolo a lavorare
il doppio nelle materie che chiaramente non lo
interessavano.
Proprio
come suo padre aveva da sempre avuto problemi a relazionarsi con gli altri
bambini, ma al contrario di Sherlock, Matthew aveva avuto l’aiuto di Amy che, in
un primo tempo si era eletta a suo difensore, e poi lo aveva aiutato a farsi
nuove amicizie.
All’età
di sei anni aveva deciso di voler imparare uno strumento e John aveva
acconsentito ad una sola condizione: tutti gli strumenti erano concessi tranne
il violino.
Era
disposto anche ad avere un arpa in casa pur di non sentire più il suono di un
violino per il resto della sua vita…
Fortunatamente
Matthew non era apparso particolarmente interessato a quello strumento,
propendendo fin da subito per il pianoforte.
Così,
dopo aver riorganizzato i mobili del salotto, sotto l’attenta guida di Amy e con
l’aiuto di due uomini muscolosi gentilmente offerti da Mycroft, un bellissimo
pianoforte a coda aveva fatto il suo ingresso al 221B di Baker Street invadendo
gran parte del salotto.
Ma
il sorriso raggiante che era apparso sul volto di Matthew non appena aveva visto
lo strumento aveva ripagato John di ogni metro quadrato
perso.
Da
completo autodidatta, nel giro di poche settimane Matthew aveva imparato le basi
dello strumento, per poi migliorare sempre più velocemente, arrivando ad
eccellere al pari di un professionista in meno di due
anni.
John
aveva conosciuto soltanto una persona con altrettanto talento
musicale…
Scacciando
nuovamente quei suoi pensieri indesiderati, John accarezzò il retro del collo
del bambino attento a non spettinargli i capelli, rivolgendogli un sorriso
quando Matty incontrò i suoi occhi.
-Oggi
viene a prendervi zio Myc all’uscita dalla scuola- annunciò prima di dare un
morso al proprio toast.
-Ci
sarà anche Martin?- domandò Amy.
Martin
Holmes-Lestrade era il solo figlio di Mycroft e Greg, ed avendo solo quattro
anni, era il piccolo della famiglia provocando un sentimento di protezione in
Amelia e, inaspettatamente anche in Matthew.
L’affetto
era ricambiato in pieno, visto che Martin stravedeva per i due cugini più
grandi, al punto da invitarli più volte a restare per la notte, o a presentarli
come i propri fratelli quando i tre bambini si trovavano insieme al
parco.
John
annuì.
-Zio
Myc vi porterà dal sarto per la prova dei vestiti del matrimonio- spiegò
loro.
Amelia
batté le mani, chiaramente eccitata all’idea di vestiti nuovi, al contrario del
fratello che si lasciò scappare un gemito.
-Sta
tranquillo Matty, ho parlato con zio Greg e gli ho fatto giurare che non ci
saranno colori o vestiti stravaganti-lo rassicurò.
-Giuro
che se il vestito scelto da zio Myc non mi piace, mi presento alla cerimonia in
pigiama!-minacciò il bambino.
-Ti
credo sulla parola-rispose il biondo, provocando le risate divertite di
Amelia.
-Posso
avere un abito rosa?-chiese la bambina, una goccia di latte che le scivolava
dall’angolo destro della bocca.
John
alzò le spalle.
-Non
vedo perché no…In fondo avrai un vestito diverso da tuo fratello e Martin, fa in
modo che sia speciale-le rispose tendendole un
fazzolettino.
Il
viso di Amelia si illuminò, la mente già impegnata a catalogare i possibili
modelli che l’avrebbero resa la più bella di tutti al
matrimonio.
Malgrado
condividesse l’enorme intelligenza con suo fratello, Amelia Watson era in tutto
e per tutto figlia di John: aveva i suoi capelli biondo cenere, i suoi occhi blu
inquisitivi e ridenti, il suo naso dalla punta leggermente alzata, e almeno per
il momento aveva ereditato la sua passione per il calcio.
Quando
avevano tre anni, John aveva provato in tutti i modi a stuzzicare l’attenzione
di Matthew perché il bambino si interessasse allo sport ma, come avrebbe dovuto
aspettarsi da un Holmes, Matty non aveva concesso alla palla neanche un istante
del proprio prezioso tempo, mentre invece Amelia aveva iniziato a giocare con
lui.
Con
gli anni John l’aveva iscritta ad una scuola femminile di calcio in cui aveva
assunto il ruolo di portiere, e ogni sabato lui ed Amy si sedevano sul divano a
guardare le partite del Chelsea, mentre Matthew li osservava dalla cucina
scuotendo la testa, impegnato con i propri libri.
Grazie
all’intervento di Mycroft erano anche stati ospiti nella tribuna d’onore del
Chelsea allo Stamford Bridge, incontrando la squadra a fine partita, e ricevendo
in regalo i guanti del portiere.
Amelia
aveva dormito con quei guanti sotto il cuscino per due settimane, prima di
decidersi ad appenderli al muro.
Contrariamente
a suo fratello, la bambina era più indipendente e, forse grazie ai geni Watson,
più spigliata ed estroversa; era stata lei la prima a farsi degli amici durante
i primi giorni di scuola, senza però abbandonare mai il fratello, malgrado le
proteste del bambino che “quelle attività fossero noiose e poco stimolanti a
livello intellettuale”, aiutandolo allo stesso tempo a farsi un piccolo gruppo
di amici.
La
prima volta che aveva dormito fuori casa per un pigiama party, John si era
ritrovato inspiegabilmente in lacrime, messo bruscamente a confronto con il
tempo che passava: presto i suoi figli sarebbero andati all’università e lui si
sarebbe ritrovato nuovamente solo in quella casa troppo piena di fantasmi e il
cui solo pensiero di andar via gli mozzava il fiato.
Scosse
per l’ennesima volta la testa per allontanare quei pensieri tetri; forse era
davvero arrivato il momento di comprare quel cane, almeno così avrebbe avuto un
po’ di compagnia…
-Papà?-
John
riportò la propria attenzione su Matthew, notando velocemente il toast mangiato
a metà e il bicchiere di latte vuoto.
-Scusami,
ero distratto-
-Da
quanto tempo si conoscono lo zio Greg e lo zio Myc?-domandò il bambino,
cogliendolo di sorpresa.
John
aggrottò leggermente la fronte, calcolando velocemente gli anni
trascorsi.
-Si
conoscono da quando avevano vent’ anni, ma sono insieme da dieci anni, Uniti da
sei-rispose l’uomo.
-Perché
hanno aspettato tanto tempo?-chiese curiosa Amy.
John
sorrise.
-Vostro
zio Myc è un uomo molto timido…Per molto tempo è stato innamorato dello zio Greg
senza dire nulla, convinto che potessero essere soltanto amici-raccontò,
alterando leggermente la verità.
-Finché
lo zio Greg non si è fatto avanti…-disse Matthew.
-Una
specie-rispose sibillino John.
Matty
restò in silenzio qualche istante, ma conoscendo il bambino, John restò in
silenzio sorseggiando il proprio tea, perfettamente consapevole che avesse
ancora delle domande.
-Perché
allora hanno aspettato fino ad adesso per sposarsi?-domandò infatti il
bambino.
John
restò qualche istante ancora in silenzio, interrogandosi su come rispondere a
quella domanda, finché non rialzò lo sguardo sul bambino e si lasciò andare ad
un sospiro.
-Vi
ricordate il discorso che abbiamo fatto su come ognuno di noi sia un’ Alpha, un’
Omega o un Beta?-disse per introdurre il discorso.
I
due bambini annuirono quasi all’unisono.
-Voi
sapete benissimo che io sono un’Alpha e che vostro padre era un’
Omega.
La
stessa cosa vale per lo zio Myc e lo zio Greg.
Ora
quando un’Alpha ed un’Omega si
innamorano e decidono di stare insieme, mettono in atto un processo chiamato
Unione, un legame molto forte ed indissolubile che dimostra alle altre persone
che lo zio Myc o lo zio Greg non vogliono fidanzati…-
-Perché
sono innamorati l’uno dell’altro- s’intromise Amelia
candidamente.
John
sorrise.
-Esattamente.
Grazie
all’Unione tutti sanno che due persone appartengono l’una all’altra, ma capita
come nel caso dei vostri zii che si voglia renderlo ufficiale con un
matrimonio-concluse, sperando di non aver confuso maggiormente le idee dei
gemelli.
Matthew
lo guardò attentamente, mille pensieri per la testa, ma John capì che al momento
non era disposto a condividerli con lui.
-Sembra
molto romantico…-commentò Amy.
-Tu
trovi tutto romantico-ribatté il fratello in tono quasi
disgustato.
-Ok
prima di far scoppiare l’ennesima guerra fra Watson, andate a lavarvi i denti e
a prendere le vostre borse.
E’
ora di andare a scuola-disse alzandosi in piedi e spostando i piatti sporchi nel
lavello.
Amy
corse verso il bagno, ma per qualche istante John sentì su di sé lo sguardo
penetrante di Matthew, chiaramente combattuto se fargli quell’ultima domanda o
meno.
Per
incoraggiarlo, John alzò la testa ed incontrò il suo sguardo, rivolgendogli un
sorriso sereno e rassicurante.
L’attimo
dopo, Matthew lasciò la cucina in silenzio.
Puntuale
come ogni mattina, ferma all’angolo fra Baker Street e Bell Road, una figura era
in attesa.
Incurante
della gente che avvolta nei propri cappotti lo superava per raggiungere la
fermata della metropolitana con la speranza di arrivare in tempo al lavoro, un
uomo restava immobile con le spalle rivolte al muro e gli occhi fissi sulla
porta nera dall’altra parte della strada.
John
era da sempre un uomo puntuale, anche se lui aveva fatto di tutto per fargli
perdere quell’abitudine noiosa ed inutile, ma quando era diventato padre quell’
insulso bisogno di stabilità e di ordine si era radicato maggiormente dentro di
lui.
Ricordava
fin troppo bene le tante discussioni avute in nome dell’ordine e del bisogno di
Amelia e Matthew di orari e schemi fissi fin dalla più tenera età, per farli
crescere un ambiente sereno e stabile.
“Non
ricordavo fossi così noioso…”
Con
un gesto ormai automatico, prese il pacchetto di sigarette dalla tasca e ne
portò una alla bocca, accendendola l’istante dopo, scacciando i cattivi pensieri
con le volute di fumo azzurrino che si levavano verso
l’altro.
Non
doveva pensarci, non ora, non dopo tutto quello che aveva affrontato per essere
lì, sul quel marciapiede, di fronte quella porta chiusa.
Come
se le persone all’interno dell’appartamento fossero a conoscenza dei suoi
pensieri, in quel momento la porta si aprì e l’uomo lasciò che le sue labbra si
curvassero leggermente verso l’alto: otto e quaranta in
punto.
La
prima persona che vide fu Amy, avvolta in un cappotto blu che le arrivava alle
ginocchia, i capelli biondo cenere perfettamente sistemati in una treccia e la
borsa da cui si intravedeva il logo della scuola sulle spalle, le dita della
mano destra strette a pugno attorno a una palla colorata:
guanti.
Malgrado
la lontananza, l’uomo riuscì a scorgere i piccoli cambiamenti avvenuti nel breve
periodo di lontananza: in due settimane le sue guance erano diventate più piene,
i capelli erano stati leggermente accorciati, anche se soltanto un occhio
esperto avrebbe potuto notare la differenza, ed era cresciuta di due centimetri,
anche se ormai sembrava evidente che i geni Watson su di lei avevano avuto il
sopravvento.
Rendendola
adorabile ai suoi occhi.
L’attimo
dopo Matthew la raggiunse sul marciapiedi, il corpo slanciato e infantile in un
cappotto nero dai risvolti rialzati che gli strapparono un
sorriso.
Anche
lui ha un aspetto misterioso e affascinante con i risvolti del cappotto
rialzati, John?
I
capelli neri ricci sembravano più controllati del solito, portandolo a chiedersi
cosa avesse richiesto quello sforzo in più dato il solito disordine che
governava i riccioli del bambino.
Così
come era successo con Amelia, l’uomo focalizzò tutta la sua attenzione su
Matthew assimilando le nuove informazioni: la nuova altezza, il modo in cui
aveva deciso di portare i capelli, il viso che lentamente stava perdendo il suo
aspetto infantile, dandogli un’espressione seria e
composta.
Osservandoli
insieme notò la differenza d’altezza fra i due bambini, come Amelia arrivasse
soltanto alla spalla del bambino strappandogli un altro
sorriso.
Vederli
insieme era allo stesso tempo un balsamo per le sue ferite ed il tizzone ardente
che utilizzava per riaprirle nuovamente.
Entrambi
i bambini avevano lo sguardo rivolto verso l’interno nella casa, dove dalla
porta aperta l’uomo riusciva ad intravedere la figura di John affaccendarsi per
controllare che tutto fosse in ordine prima di uscire in strada a sua volta e
chiudersi la porta nera alle spalle.
I
bambini si sistemarono ai lati di John, prendendogli la mano, in un copione che
aveva visto ripetersi molte mattine e che ogni volta gli provocava una
inspiegabile fitta allo stomaco.
Seguendoli
a distanza di sicurezza mentre si avviavano verso la Abercorn School osservò i
muscoli rilassati della schiena di John, il chiacchiericcio continuo di Amelia e
le sporadiche interazione di Matthew si scoprì geloso della loro
intimità.
John
e i bambini erano un entità impossibile da sciogliere, qualcosa che nessuno
avrebbe mai potuto separare.
Lo
vedeva chiaramente dal modo in cui Matthew inclinava la testa per incontrare lo
sguardo di John, nel sorriso dolce dell’uomo, nel battibecco scherzoso fra i due
gemelli.
Se
avesse voluto quel privilegio sarebbe potuto essere suo…
Scuotendo
nuovamente la testa, l’uomo continuò a seguire il trio fino ai cancelli della
scuola, dove dovette fermarsi a pochi metri di distanza per non essere visto
dalle spie di Mycroft che ogni giorno pattugliavano il
palazzo.
Nascosto
in una delle stradine secondarie, Sherlock Holmes osservò John fare le ultime
raccomandazioni ai bambini, prima di salutare i due gemelli con un abbraccio e
posare un bacio sulla testa di entrambi.
L’attimo
dopo i due bambini erano oltre il cancello, già impegnati a salutare i loro
amici.
Chi
l’avrebbe mai detto: due Holmes con degli amici…
No.
Watson.
Osservò
i due bambini finché non scomparirono oltre l’entrata della scuola insieme ai
loro compagni per poi voltarsi e scomparire velocemente.
Aveva
molto da fare prima di poter tornare a casa.
Sono
tanti piccoli accorgimenti che contraddistinguono un buon medico, o almeno
questo è ciò che John Watson ha sempre pensato fin dal primo giorno in cui ha
aperto il suo studio medico ai pazienti: puntualità, cortesia, sincerità e,
soprattutto, un sorriso sempre pronto.
Dopo
anni passati ad esercitare in cliniche private e non, spinto dalla necessità di
essere sempre reperibile per le baby sitters che occasionalmente si occupavano
di Amy e Matty, aveva deciso di darsi alla pratica privata e aprire il proprio
studio.
Dopo
averne parlato con Mrs. Hudson ed esserci sincerato che i suoi risparmi gli
permettessero un cambiamento così radicale, aveva iniziato i lavori
nell’appartamento C di Baker Street, lavorando per togliere le infiltrazioni che
causavano le macchie d’umidità e dando poi al piccolo locale un aspetto
confortevole e caldo che fosse rassicurante per i suoi pazienti fin dal primo
istante in cui vi entravano.
Fortunatamente
la sua professionalità e il rapporto d’affetto che si era creato con alcuni dei
suoi pazienti lo aveva aiutato, facendosi sì che questi lo seguissero allo
studio privato invece di scegliere un nuovo medico della
clinica.
Da
sempre specializzato nella cura di Alpha e Beta, a distanza di sette anni poteva
affermare di avere uno degli studi medici più conosciuti di
Londra.
John
era consapevole che parte del suo successo era dovuto alla totale attenzione che
metteva nel proprio lavoro: i suoi pazienti sapevano di poter contare su di lui,
sulla sua discrezione, e sulla sua professionalità.
Ma
soprattutto, la sua fama era dovuta all’assenza di altre distrazioni nella sua
vita.
C’era
stato un tempo in cui un uomo dai capelli neri, completamente pazzo, lo faceva
correre per le strade di Londra a qualsiasi ora del giorno e della notte a
caccia di ladri e assassini, mettendolo nei guai con i suoi colleghi della
clinica ed i suoi pazienti…e rendendolo incredibilmente
felice.
Quando
quel meraviglioso pazzo era uscito dalla sua vita con un gesto drammatico del
suo lungo cappotto senza neanche guardarsi indietro, nella sua vita erano
rimaste solo tre cose: il suo lavoro, Amelia e Matthew.
Ed
erano state queste tre cose che gli avevano impedito di lasciarsi andare e
crollare.
Da
sei anni le sue giornate erano organizzate in modo quasi militare: dopo aver
accompagnato a scuola i gemelli, John ritornava a casa e apriva lo studio medico
ai propri pazienti, tenendo fede ai propri appuntamenti fino a mezzogiorno
quando si concedeva una breve pausa per il pranzo ed una tazza di tea, prima di
riprendere a lavorare fino alle quattro, orario in cui chiudeva lo studio e
andava a prendere i bambini a scuola.
Ogni
giorno la stessa tabella di marcia, fatta eccezione per i giorni in cui i
gemelli avevano dei club scolastici che li trattenevano a scuola oltre l’orario
delle lezioni, in cui lo studio era aperto per un’ora oltre l’orario normale,
per le feste e i fine
settimana.
Con
gli anni aveva creato attorno a sé una rete di supporto che gli permetteva di
continuare il proprio lavoro anche durante le settimane di half-term in cui i
gemelli erano in vacanza, contando sull’appoggio di Mrs. Hudson, Mycroft e Greg,
Molly e alcune mamme degli amici dei ragazzi.
Nessuno
dall’esterno avrebbe mai immaginato che in quella macchina bene oliata ci fosse
un importante pezzo mancante ed era passato talmente tanto tempo dall’ultima
volta che qualcuno gli aveva fatto domande sulla sua Omega che se per caso si
ritrovava ad affrontare quell’argomento con un estraneo, John si limitava a fare
un’espressione triste e a scuotere la testa, mettendo a disagio il suo
interlocutore.
In
fondo dopo la morte di Sherlock non era stato poi neanche così difficile… Il
suicidio di Sherlock era stata soltanto la conferma definitiva che l’uomo non
sarebbe più tornato a casa, che quel meraviglioso capitolo della sua vita si era
definitivamente concluso.
Come
tutti i giorni, dopo essere tornato a casa, John si concentrò sul proprio lavoro
fermandosi soltanto per il pranzo, ma la sua mente non era completamente
concentrata sui suoi pazienti come al solito: continuava a pensare alla
conversazione avuta quella mattina con i gemelli e all’espressione pensierosa
che era apparsa sul volto di Matty.
Malgrado
il bambino non avesse fatto nessun accenno a ciò che lo turbava, e che durante
il breve tragitto fino alla scuola era tornato ad essere enigmatico come al
solito, chiaramente concentrato sul test di storia che avrebbe affrontato di lì
a poco, John era consapevole che suo figlio non aveva lasciato cadere
l’argomento.
Era
davvero un Holmes in certe cose…
John
aveva sempre saputo che presto o tardi sarebbe arrivato il giorno in cui i suoi
figli avrebbero iniziato a fargli domande su Sherlock ma, dopo la morte del
detective, aveva sperato di mettere un freno a quelle domande o almeno di
dirottarle verso territori più sicuri.
In
fondo che domande potresti mai avere su un padre che non hai mai
conosciuto?
Ma
a quanto pare aveva sottovalutato la situazione… O forse aveva sperato che
almeno in quella circostanza il lato Watson avrebbe avuto il sopravvento,
mettendo a tacere la curiosità.
Incapace
di liberarsi di quei pensieri, aveva concluso le ultime visite e aveva chiuso lo
studio, per poi prendere un taxi verso Saville Row dove aveva appuntamento con
Greg.
Nella
loro società, rigidamente impostata sui ruoli e sulle classi in cui ognuno di
loro si ritrovava inserito dai dodici anni in su, era raro trovare un Omega ed
un Alpha diventare amici, senza il secondo fine di stringere con il tempo un
Unione.
Ma
Gregory Lestrade e John Watson erano una delle rare
eccezioni.
Forse
in un’altra vita sarebbero stati perfetti l’uno per l’altro, avrebbero vissuto
una vita felice e avrebbero fermamente creduto di aver trovato l’anima
gemella.
Ma
quando nella loro vita si erano intromessi fin dall’infanzia i fratelli Holmes,
quella che poteva essere una perfetta storia d’amore si era trasformata in una
grande amicizia.
Era
stato Greg a sostenerlo quando Sherlock se ne era andato, aiutandolo con i
bambini e accompagnandolo al pub perché potesse sbronzarsi e parlare senza sosta
del detective; era stato lui a dargli la notizia della sua morte, con le lacrime
agli occhi, ancora scioccato per averlo visto volare giù dal tetto del Barts,
sedendosi accanto a lui mentre John dava sfogo al suo dolore, senza parlare,
piangendo silenziosamente, consapevole che non esistevano parole adatte per
confortare un Alpha che aveva perso tragicamente il proprio
Omega.
Allo
stesso tempo, John lo aveva accompagnato in ospedale quando l’Omega era entrato
in travaglio restando accanto a lui finché Mycroft non era arrivato in ospedale,
lo aiutava ancora saltuariamente con alcuni casi che per lui risultavano
“impossibili” e lo ascoltava le poche volte in cui l’uomo aveva bisogno di
sfogare la frustrazione accumulata contro Mycroft.
In
fondo nessuno poteva capire quanto fosse stressante vivere con un Holmes quanto
lui…
Quando
il suo taxi si fermò davanti a Saville Row, l’Ispettore era già lì, impegnato a
controllare i messaggi sul proprio cellulare: considerata l’ora Martin doveva
essere già uscito da scuola e dal movimento nervoso delle dita, Greg stava
cercando con tutto sé stesso di controllare i propri istinti Omega e non
chiamare Mycroft ed il bambino, interrompendo così il loro pomeriggio padre e
figlio.
-Aspetti
da molto?-domandò John fermandosi a pochi metri di
distanza.
Greg
scosse la testa.
-Sono
appena arrivato…Vogliamo entrare? Ho bisogno di una distrazione…- commentò il
detective prima di precederlo all’interno della sartoria.
Fu
chiaro fin da subito che la famiglia Holmes era una cliente abituale di quella
sartoria da molti anni; tutti i commessi si dimostrarono estremamente gentili
con Greg e rispettosi verso John, facendogli sentire il peso del suo lato Alpha
come poche volte prima d’ora, offrendo loro tazze di tea e mini cupcakes,
mostrandogli vari tipi di completi che secondo la loro opinione erano perfetti
per una cerimonia d’Unione.
Lasciando
il proprio tea a metà, John aveva preso un paio di completi e si era diretto
verso il camerino per provare entrambi, dandosi mentalmente dell’idiota per il
nodo che gli stringeva lo stomaco e che gli impediva di
rilassarsi.
Malgrado
i suoi difetti, John Watson era un buon amico: ecco perché si trovava lì in quel
momento, impegnato ad indossare un vestito da cinquecento sterline malgrado
avrebbe volentieri fatto a meno di presenziare alla
cerimonia.
Non
si poteva certo dire che la sua Unione era stata fra le più
felici…
“Questa
casa mi toglie il respiro.
Nessuno
ti obbliga a restare Sherlock… Puoi sempre prendere la porta ed andartene in uno
di quei gesti drammatici che ti piacciono tanto”
Scacciando
dalla mente quei pensieri, John riemerse dal camerino con indosso un completo
Principe di Galles nero completo di panciotto, ma Greg lo rimandò nel camerino
dopo avergli concesso soltanto un’occhiata.
-Ricorda
troppo lo stile di Mycroft…Non credo ti si addica-gli
disse.
-Vorresti
dirmi che non ho stile come il tuo fidanzato?-lo prese in giro il
dottore.
-Oh
hai fin troppo stile, è la classe che ti manca…-lo punzecchiò l’altro
ironico.
John
lo fissò con un espressione fintamente scioccata sul
volto.
-Ricordami
perché ho accettato di farti da testimone…-
-Perché
sei l’unico che, sono certo, farà di tutto per farmi cambiare idea fino
all’ultimo-rispose prontamente Greg-E poi nessuno mi capisce meglio di
te…-aggiunse il detective.
-Neanche
Myc?- domandò curioso John disse dirigendosi nuovamente verso il
camerino.
Greg
si lasciò scappare un suono sarcastico dalle labbra
dischiuse.
-Gli
Holmes avranno un gran cervello, ma come ben sai sono “incredibilmente
ignoranti” quando si tratta di certe cose-si limitò a
commentare.
John
annuì in silenzio, impegnato a cambiarsi d’abito, lasciando nuovamente che i
pensieri volgessero al passato, ricordando la prima volta che quelle parole
erano state urlate contro di lui, seguite subito dopo da una rivista medica che
per poco con lo aveva colpito in pieno viso.
“Ma
è il Sistema Solare!
Cosa
vuoi che mi importi chi sia il Primo Ministro o se la Terra gira intorno al Sole
o ad un orsacchiotto di peluche al centro di un
giardino?”
Decisamente
altri tempi, si disse John finendo di abbottonare la giacca blu del completo ed
uscendo nuovamente dall’angusta cabina.
Greg
lo osservò attentamente per alcuni istanti prima di
annuire.
-Decisamente
questo-gli disse.
John
si voltò verso lo specchio a figura intera, osservando il completo: i pantaloni,
il panciotto, la camicia e la cravatta blu scuro gli davano un aria distinta ed
elegante mettendo allo stesso tempo in risalto i suoi occhi blu
oceano.
-Diciamo
che può andare…-commentò lanciando un’occhiata all’amico attraverso lo
specchio.
Greg
alzò gli occhi al cielo senza rispondergli, mentre un commesso della sartoria lo
invitò a salire su un piccolo piedistallo per potergli prendere le misure in
modo da fare delle piccole modifiche al vestito.
-C’è
qualcosa che ti preoccupa…-commentò Greg osservandolo
attentamente.
John
restò in silenzio, incerto se condividere con l’amico i propri pensieri su ciò
che era successo quella mattina, limitandosi a seguire alla lettera le
istruzioni del commesso.
-E’
successo qualcosa?-gli chiese ancora Greg, chiaramente deciso a non lasciar
perdere.
John
scosse la testa.
-Sinceramente
non lo so…E’…-disse lasciandosi scappare un sospiro frustrato-E’ solo che sono
un po’ preoccupato per Matty-disse.
Greg
corrugò la fronte.
-Questa mattina stava pensando a suo padre e la
cosa mi preoccupa un po’, tutto qui-disse John, cercando di non ingigantire la
faccenda.
-Ha
detto qualcosa?-gli domandò Greg, fissando attentamente il volto
dell’amico.
John
scosse la testa.
-Non
ce ne è bisogno…E’ mio figlio, lo conosco.
Come
se non bastasse è un Holmes: anche se non ne parla mai non significa che ha
smesso di pensare a lui-commentò John.
Greg
annuì.
Se
c’era una cosa che contraddistingueva gli Holmes era il cervello sempre in
movimento, concentrato su mille problemi e percorsi mentali diversi allo stesso
momento.
-Come
hai fatto a capirlo?-gli chiese.
John
sospirò nuovamente e si passò una mano fra i capelli
corti.
-E’
cominciato tutto con la storia dei vestiti per la cerimonia; sembrava tutto
tranquillo, finché Amy non mi ha chiesto come mai dopo tutto questo tempo tu e
Mycroft avete deciso di sposarvi…-
-Questa
è facile: perché abbiamo un bambino e siamo innamorati-lo interruppe Greg,
leggermente divertito.
Ai
suoi occhi non c’era spiegazione più semplice di quella.
John
annuì.
-Ed
è stato proprio quello che le ho risposto.
Però
sai bene quanto me che si può essere innamorati e stare insieme anche senza
essere sposati; così ho cercato di spiegare ad entrambi che alle volte, malgrado
due persone siano Unite, alle volte sentono il bisogno di qualcosa di più forte,
duraturo…-raccontò John.
-Non
c’è niente di più forte dell’Unione-ribatté Greg.
John
gli lanciò un’occhiataccia.
-Vuoi
davvero iniziare questo discorso? Soprattutto con il sottoscritto?-gli
domandò.
Entrambi
erano consapevoli che avventurarsi nuovamente in quella discussione avrebbe
soltanto riaperto vecchie ferite mai veramente rimarginate e l’ultima cosa che
Greg desiderava era veder soffrire l’amico.
-Scusa,
va avanti…-
John
annuì e per qualche istante restò in silenzio, rimettendo insieme i propri
pensieri e approfittando di quel momento per togliersi la giacca da cerimonia e
sistemarla sul primo manichino nudo disponibile, andando poi a sedersi su una
sedia di fronte al detective.
-Amy
si è accontentata della spiegazione, lei è una Watson, non ha voglia di
complicarsi inutilmente la vita…Ma Matty moriva dalla voglia di farmi un’altra
domanda.
Glielo
leggevo chiaramente negli occhi-gli disse.
-Quale
domanda?-domandò l’altro.
John
alzò le spalle.
-Non
lo so…E’ questo il problema con Matty: finché non è pronto non riesci a cavargli
nulla da bocca.
L’unica
cosa che so è che riguardava suo padre-aggiunse.
Ancora
una volta, Greg aggrottò la fronte.
-Fanno
spesso domande su Sherlock?-s’informò.
Un
espressione seccata apparve sul volto del dottore, prima che questi si alzasse
in piedi cercando di scaricare la propria tensione
nervosa.
-Cosa
dovrebbero chiedere?
Non
lo hanno mai conosciuto, se ne è andato quando avevano soltanto due
mesi!
Siamo
sempre stati soltanto noi tre.
Fino
a qualche anno fa tenevo una sua fotografia sulla mensola del camino, in modo
che i ragazzi avessero almeno un’immagine del padre, finché un giorno sono
rientrato a casa e l’ho trovata in frantumi sul parquet del
salotto.
E’
stato il loro modo per dirmi che quella foto doveva sparire, che lo
consideravano un estraneo…-gli raccontò senza nessun’emozione nella
voce.
Era
strano per Greg osservare ed ascoltare John parlare di Sherlock in quel modo
così impersonale, come se si trattasse realmente di un estraneo invece che del
padre dei suoi figli, ricordando allo stesso tempo quella stessa voce che lodava
il detective per la sua intelligenza e le sue deduzioni, che difendeva Sherlock
da tutto e tutti.
La
stessa voce che parlava del detective con infinito amore…
-Cosa
hai intenzione di fare?-gli domandò allontanandosi dai propri pensieri e
concentrandosi nuovamente sull’amico chiaramente in
difficoltà.
John
scosse la testa sconsolato.
-Non
ne ho la più pallida idea.
Matthew
assomiglia terribilmente a suo padre…
Fin
dalla sua morte averlo accanto è stata la mia ancora con la realtà, ancor più di
Amelia, per ricordarmi che quel periodo della mia vita è realmente accaduto, che
non l’ho immaginato… Come se un pezzo di Lui mi fosse stato restituito-gli
confessò sincero.
Greg
lo osservò per qualche istante in silenzio, indeciso se fare o meno quella
domanda che lo tormentava fin dalla morte di Sherlock.
-Posso
farti una domanda?-si decise a chiedergli.
John
annuì.
-Perché
non hai mai pensato di cercare un’altra Omega quando Sherlock se n’è andato?
Oppure dopo la sua morte quando la vostra Unione si è spezzata?-gli domandò
cauto.
John
tornò a sedersi accanto all’amico e si prese un lungo istante prima di
rispondere.
Nessuno,
neanche Mycroft o Greg avevano mai capito fino in fondo il legame che aveva
unito lui e Sherlock…Era impossibile spiegarlo quando erano insieme,
praticamente inseparabili, come avrebbe potuto spiegarlo ora, dopo anni di
solitudine?
Quali
erano le parole adatte per spiegare al detective che, malgrado la morte di
Sherlock, John sentiva la loro Unione ancora solida con tutte le implicazioni
che questo comportava?
Come
spiegargli che cercare una nuova Omega avrebbe avuto per lui lo stesso effetto
di tradire Sherlock, quasi l’uomo facesse ancora parte della sua
vita?
-Ci
ho pensato.
Per
un po’ ho considerato l’idea di frequentare una beta, anche soltanto per un
breve periodo, ma alla fine avrebbe richiesto troppo
impegno.
Specialmente
adesso che i ragazzi sono più grandi avrei dovuto sottrarre delle attenzioni a
loro per concentrarle su questa nuova “persona” e lo sai anche tu quanto è
geloso Matty…Non so davvero cosa sarebbe successo se avessi incontrato qualcuno,
come minimo avrebbe fatto esplodere la cucina per rappresaglia-commentò con un
sorriso affettuoso sulle labbra.
Greg
si unì al sorriso restando in silenzio, certo che l’amico non avesse ancora
finito.
-Ma
credo che la motivazione principale sia sempre la stessa: per quanto io possa
cercare, non troverò mai una persona che mi completi e si adatti perfettamente a
me come faceva Lui…Ne abbiamo passate tante insieme, fra il suo totale rifiuto
per il proprio Sesso, e la mia difficoltà nell’ammettere i miei sentimenti,
senza dimenticare la sua tossicodipendenza e tutto il
resto.
La
parte razionale di me lo sa che se decidessi di avvicinarmi ad un’altra persona
non avremmo tutti quei problemi, ma…-disse incapace di dar voce ai propri
pensieri.
-Non
sarebbe lo stesso, vero?-disse Greg al suo posto.
John
annuì lentamente, un sorriso triste a distendergli le
labbra.
-Gli
Holmes possono essere dei rompicoglioni, ma malgrado tutto ne vale sempre la
pena-commentò tristemente John.
-Nessuno
può essere più d’accordo di me…-disse posandogli una mano sulla spalla
destra.
John
si strofinò il volto con entrambi le mani, cercando di allontanare i pensieri
tristi che quel giorno sembravano tormentarlo.
-Cosa
farai con Matty?-gli domandò dopo un po’ Greg.
Il
dottore alzò le spalle.
-Non
lo so…Sono sinceramente combattuto; in fondo anche Lui è suo padre, quindi se
Matty ha delle domande e vuole sapere qualcosa in più su di lui, risponderò a
tutte le sue domande-concluse, giungendo ad una decisione sul
momento.
Greg
annuì lentamente prima di fissare John per qualche istante, portando l’altro ad
aggrottare la fronte.
-Che
c’è?-
Il
detective scosse la testa prima di alzarsi in piedi, chiaramente diretto verso
il camerino di prova.
-E’
solo che mi sono reso conto che sono anni che non ti sento dire il nome di
Sherlock…
Sarà
meglio che vada a provare il mio vestito…-aggiunse prima di voltargli le
spalle.
John
restò in silenzio, lo sguardo fisso sulle proprie mani.
Che
bisogno aveva di dire il nome di Sherlock ad alta voce quando questo era un
costante sussurro nella sua mente?
Matthew
Watson amava passare del tempo con lo zio Mycroft.
Fra
tutte le persone che facevano parte della sua famiglia, era l’unico che lo
capiva con un solo sguardo, senza il bisogno di parlare.
Anche
suo padre aveva quell’abilità, a quanto pare acquisita in anni di conoscenza e
convivenza con l’Omega che li aveva abbandonati, ma al contrario dello zio
Mycroft, suo padre preferiva restare in disparte aspettando che fosse lui a
cercare il suo conforto ed i suoi consigli evitando di fargli
pressione.
Forse
era per questo che Matthew era così legato a suo padre: la sua intelligenza era
abbastanza sviluppata da renderlo consapevole di essere estremamente
fortunato.
Se
ci fosse stato qualcun altro al posto di John Watson, qualcuno meno comprensivo,
meno accomodante, meno innamorato della sua intelligenza, allora la sua vita non
sarebbe stata così facile.
Matthew
avrebbe fatto qualsiasi cosa per suo padre, anche a costo di frenare la propria
curiosità.
Quello
che era successo quella mattina ne era un chiaro esempio: ciò che era iniziato
come un banale discorso sui vestiti da cerimonia sia era trasformato presto in
una conversazione più complicata che aveva portato la sua mente in quel
territorio inesplorato che era l’Omega a cui suo padre era stato legato e che
era morto tre anni prima.
Molte
volte osservando il rapporto fra lo zio Greg e lo zio Mycroft si era ritrovato a
fare dei paragoni e a chiedersi cosa fosse andato storto nella relazione fra suo
padre e l’Omega, ma non aveva mai fatto domande consapevole che quello non era
un discorso facile per suo padre, malgrado lui affermasse il
contrario.
Quei
pensieri non lo avevano abbandonato per tutta la giornata, venendo accantonati
momentaneamente durante l’orario scolastico, ma ora che si trovavano a casa
dello zio Greg e dello zio Mycroft erano tornati prepotentemente a occupare la
sua attenzione, portandolo ad isolarsi dai giochi che Amelia e Martin stavano
facendo a pochi metri di distanza.
Fortunatamente
sua sorella lo conosceva fin troppo bene da sapere che quando era così
profondamente assorto nei propri pensieri era meglio non disturbarlo per nessun
motivo.
-Matthew…-
Una
voce lo strappò dai propri pensieri, portandolo a voltare la testa verso destra,
dove in piedi accanto alla poltrona su cui era seduto, svettava lo zio
Myc.
Matty
lo fissò qualche istante, prima di rivolgergli un sorriso
accennato.
-Va
tutto bene?-domandò l’uomo aggirando con grazia la poltrona e andando a sedersi
di fronte al bambino.
Questi
annuì.
-Oggi
sei stato piuttosto silenzioso-gli fece notare l’adulto-C ’è qualcosa che ti
preoccupa?-
Matthew
mantenne lo sguardo dello zio per qualche istante, riflettendo velocemente se
metterlo a conoscenza dei propri pensieri, che quasi certamente l’uomo aveva già
letto sul suo volto, oppure se negare tutto e bandire nuovamente quelle
riflessioni dalla sua mente.
-Zio
Myc…Cosa è successo a mio padre?-gli domandò iniziando tentennante il
discorso.
Mycroft
accavallò le gambe, per nulla turbato da quella domanda, consapevole che quel
momento sarebbe arrivato prima o poi.
-Lo
sai cosa gli è successo: sfortunatamente è morto quando tu ed Amelia avevate sei
anni-gli rispose senza particolari inflessioni nella voce.
Il
bambino fece un lieve cenno con il capo.
-Lo
so, ma come?- chiese ancora.
-Cosa
ti ha detto tuo padre al riguardo?-gli domandò a sua volta
Mycroft.
Quell’argomento
Sherlock era sempre stato un argomento delicato e pieno di insidie, sia per i
bambini che per John, fin da quando il detective aveva sbattuto la porta in
faccia al proprio compagno ed ai loro figli; le poche volte in cui Mycroft aveva
provato ad iniziare una conversazione con John sul detective, i suoi tentativi
si erano conclusi con un nulla di fatto.
Quella
era la prima volta in cui Matthew ammetteva apertamente di pensare a suo padre,
anche soltanto di sfuggita.
-Che
era un detective e che stava combattendo contro un criminale quando è
morto-riassunse brevemente Matty.
Mycroft
annuì, chiaramente soddisfatto.
-Non
avrei saputo dirlo meglio-rispose poi.
Matthew
corrugò la fronte, allontanando lo sguardo dallo zio, ancora una volta incerto
se parlare ancora o chiudere il discorso una volta per
tutte.
C’era
qualcosa in quella faccenda, a cui non riusciva a trovare una spiegazione, e
malgrado avrebbe volentieri chiuso quel discorso per non aprirlo mai più,
dimenticando suo padre e l’alone di mistero che la sua figura portava con sé,
c’era quella sensazione alla base del cranio che non lo lasciava in
pace.
-Cosa
c’è? E’ successo qualcosa?-gli domandò ancora lo zio Mycroft, questa volta
chiaramente preoccupato.
Matthew
scosse la testa.
-Allora
perché improvvisamente tutto questo interesse per tuo padre?-si sentì
chiedere.
Lui
non è mio padre!
-Perché
non so nulla su di lui…E non mi piace non sapere le cose.
Tutto
quello che avevo era una fotografia… Converrai con me che era l’indizio meno
utile per conoscere una persona-si limitò a commentare.
-Sono
certo che tuo padre sarà felice di rispondere alle tue domande…-disse il
funzionario britannico dopo un brevissimo istante di
silenzio.
Matthew
scosse la testa prima di alzare nuovamente la testa ed incontrare il suo
sguardo.
Non
poteva parlarne con suo padre…
-Amava
mio padre?-gli chiese lasciando vincere la curiosità.
-Sì…Molto-rispose
Mycroft senza indugi.
Malgrado
tutto quello che era successo, i continui sbagli e le parole piene di rabbia che
i due uomini si erano urlati contro nel corso degli anni, Mycroft non aveva mai
dubitato, neanche per un’istante della profondità di sentimenti di
Sherlock.
-Papà
ci ha detto che quando una coppia è innamorata, come te e lo zio Greg decide di
Unirsi e qualche volta anche di sposarsi…
Anche
loro erano Uniti,vero?-disse il bambino.
-Esatto-
-Perché
allora se ne è andato?
Un’Omega
sopravvive raramente senza il proprio Alpha, eppure lui è riuscito a vivere
tranquillamente per anni prima della sua morte.
Io
ed Amelia non lo abbiamo mai conosciuto…E’ stato per colpa nostra?-domandò
ancora Matty, cercando di nascondere i propri timori nel tono fermo e deciso
della propria voce.
Ma
niente poteva sfuggire allo sguardo vigile di Mycroft Holmes a cui bastò
un’occhiata per accorgersi di quanto fosse radicata nel bambino quella paura; in
un gesto istintivo, Mycroft si sedette sul bracciolo della poltrona in cui era
seduto Matty e gli posò un braccio sulle spalle.
-No,
tu ed Amelia non siete la ragione per cui vostro padre se ne è andato-gli disse
con voce ferma- Vostro padre era particolare e…-aggiunse.
-Non
ci voleva-commentò il bambino fissando il vuoto davanti a
sé.
Mycroft
lo fece voltare verso di sé in modo da incontrare il suo sguardo e scosse la
testa.
-Matthew…-iniziò.
-E’
così non è vero?-
-No.
Vostro
padre vi amava molto…Ma amava di più il suo stile di vita e non era disposto a
rinunciarci-spiegò l’uomo.
Neanche
per amore dei suoi figli o per il suo Alpha…
Matty
annuì lentamente, ancora confuso dalle nuove informazioni.
Organizzare
tutte quelle nuove informazioni nel suo Palazzo Mentale avrebbe richiesto molto
tempo.
-Questo
è tutto quello che posso dirti sull’argomento, ma ti consiglio di parlarne con
tuo padre se vuoi maggiori informazioni-gli disse in tono
affettuoso.
Il
bambino scosse nuovamente la testa.
-Non
posso…Finirei per ferirlo-
Un
sorriso leggero apparve sul volto dell’uomo prima che una carezza rassicurante
gli stringesse la spalla sinistra.
-Potresti
rimanere sorpreso, sai?Tuo padre è uno degli uomini più forti che abbia mai
conosciuto.
Ed
ora basta parlare di argomenti tristi, che ne dici di risollevarci il morale con
una fetta di torta?-gli domandò alzandosi in piedi, chiudendo definitivamente
l’argomento.
Matthew
restò immobile per qualche istante, indeciso se seguire lo zio Mycroft oppure
perdersi nuovamente nei propri pensieri, ma alla fine giunse alla conclusione
che quella sera, senza l’aggiunta di maggiori informazioni non avrebbe raggiunto
nessuna conclusione importante, quindi poteva smetterla di pensare
all’Omega.
L’uomo
non meritava tutta quella considerazione.
Fin
dalla nascita Amelia Watson aveva sempre avuto due fardelli: essere l’unica
donna in una grande famiglia di uomini ed essere la più piccola della
famiglia.
Anche
Martin, a soli quattro anni, si sentiva in dovere di
proteggerla.
Ma
fin da quando era bambina, Amy Watson si era assunta il compito di rallegrare le
persone che le stavano intorno, soprattutto suo padre e suo
fratello.
Per
questo, da bambini, quando era apparso evidente che Matty non si sarebbe mai
appassionato al football, si era seduta accanto a suo padre sul divano davanti
alla partita per evitare che restasse deluso, finendo poi per appassionarsi a
quello sport.
Era
stata lei, e non Matty come credeva a tutt’oggi suo padre, a mandare in frantumi
la foto sul camino che raffigurava l’ Omega che li aveva partoriti, perché
sapeva che quella semplice foto non faceva altro che far nascere quesiti che
sarebbero rimasti senza risposta nella mente di Matty e rendere triste suo padre
al ricordo dell’uomo che li aveva abbandonati senza pensarci due
volte.
Amelia
Watson era stata la prima amica di suo fratello, pronto a difenderlo quando i
bambini dell’asilo lo consideravano strano ed era stata sempre lei ad aiutarlo
ad uscire dal suo guscio favorendo così le sue prime
amicizie.
Sapeva
quando Matty aveva bisogno di restare da solo con i propri pensieri e quando
invece offrirgli il suo aiuto per lasciarlo sfogare e dirgli la sua opinione
riguardo al problema che lo assillava.
Quando
quella sera Matty si era seduto al pianoforte ed aveva iniziato a suonare
“Rapsodia in Blu”, interrompendo poi la sinfonia bruscamente a metà perché
incapace di concentrarsi, lei aveva capito subito che i pensieri nella sua mente
erano diventati troppo rumorosi e che rischiavano di prendere il sopravvento
sulla razionalità che da sempre guidava ogni mossa del
ragazzo.
Le
bastò un’occhiata per capire che anche suo padre si era accorto del problema, ma
era evidente dall’espressione del suo volto che avrebbe aspettato che fosse
Matty a farsi avanti per evitare di mostrarsi troppo
apprensivo.
Meno
male che lei non si poneva certi problemi…
-Che
succede? E’ tutto il giorno che sei strano-gli domandò quando furono nella
camera da letto che ancora condividevano.
Avevano
finito di mettersi il pigiama, ma entrambi erano ancora seduti sul proprio
letto, senza fare il minimo cenno a tornare al piano
inferiore.
Matty
restò in silenzio qualche istante, lo sguardo fisso sulla coperta che ricopriva
il suo letto.
-Non
riesco a smettere di pensare all’Omega-le disse senza incontrare il suo
sguardo.
Amy
aggrottò la fronte: aveva immaginato qualcosa di simile, ma non che l’Omega
fosse diventata così importante per il fratello.
-Perché?-
-Non
lo so!
E’
solo che non riesco a smettere di pensarci, di farmi delle
domande…
Da
quando questa mattina papà ci ha parlato del matrimonio degli zii continuo a
chiedermi perché noi dobbiamo essere così diversi-le disse incontrando il suo
sguardo.
Loro
non affrontavano mai quell’argomento; a sei anni, di comune accordo avevano
deciso di non fare più domande sull’Omega che li aveva partoriti: sapevano chi
era, il suo nome, la sua professione, avevano anche scoperto cosa lo aveva lo
portato al suicidio leggendo tutte le informazioni che avevano potuto trovare su
internet.
Ma
da quel momento avevano smesso di porre domande: se l’Omega aveva vissuto felice
per tanti anni senza di loro, allora i due fratelli potevano vivere
tranquillamente senza di lui.
Perché
ora Matty sembrava ossessionato da quell’uomo?
-Noi
non siamo diversi-ribatté prontamente Amy.
-Non
essere stupida! Sai bene quanto me che alcuni ragazzi a scuola non ci parlano
per via della nostra famiglia.
Tutto
quello che abbiamo è papà, un Alpha…Non si è mai visto prima d’ora un Omega che
abbandona i propri figli, va contro natura- le disse certo delle sue
affermazioni.
Amy
restò in silenzio, consapevole che il fratello non aveva ancora
finito.
-Poi ci sono lo e zio Myc e lo zio Greg,
un altro Alpha ed un Omega, ma loro sono troppo diversi da noi e questo li
esclude dall’essere i nostri genitori-le disse pensieroso.
-Credi
che papà non sia il nostro vero padre?-chiese Amy, chiaramente
scettica.
Nella
loro Società era impensabile che un Alpha, con i suoi istinti territoriali e
possessivi, accettasse i figli di un altro Alpha, non importa quanto potesse
essere innamorato dell’Omega.
Matty
scosse la testa in modo quasi frenetico.
-No,
non intendevo questo… Tu sei identica a papà, quindi una parte del suo DNA deve
essere per forza coinvolta…Almeno per quanto ti riguarda-aggiunse l’attimo
dopo.
Amy
scosse la testa, capendo finalmente il discorso del
gemello.
-No-disse
con quel tono categorico che la faceva assomigliare tanto al loro
padre.
-Oh
andiamo Amy guardami…
Non
assomiglio affatto a papà, né nell’aspetto che nel
comportamento.
Niente-ripeté
con veemenza quasi volesse convincere entrambi.
-Allora
tu cosa suggerisci?-gli chiese Amy- Pensi davvero che papà ti ha trovato
all’uscita dell’ospedale e ha deciso di portarti a casa per il tuo bel
faccino?-
Matty
la fissò senza parlare, confermando così le sue assurde
teorie.
-Ora
sei tu ad essere ridicolo-commentò la ragazza.
-E’
l’unica possibilità-le rispose lui serio.
-Oppure
potresti essere veramente mio figlio-s ’intromise una voce accanto alla porta
della camera.
I
gemelli si voltarono, chiaramente sorpresi e leggermente imbarazzati ad essere
stati sorpresi durante quel discorso privato e “proibito”, verso la porta della
loro stanza, dove appoggiato tranquillamente contro lo stipite della porta era
fermo John, un’espressione seria e preoccupata in volto.
-Non
siete mai così lenti nel tornare al piano di sotto dopo aver messo il
pigiama-commentò, le braccia conserte contro il petto.
-Papà…-iniziò
Amy, pronta a rimediare ai danni che quella conversazione poteva aver provocato
involontariamente.
-Un’istante
solo Amy-disse l’uomo avanzando lentamente nella stanza ed andando a sedersi sul
letto della ragazza, lo sguardo fisso su Matty che per il momento rifiutava di
incontrare i suoi occhi.
-Lo
zio Myc mi ha chiamato e mi ha detto della vostra conversazione… Devo chiederti
scusa Matty: avevo capito che avevi molte domande dopo la nostra conversazione
di questa mattina, ed avevo pensato che fosse meglio lasciarti un po’ di tempo
prima che fossi pronto a parlarne, ma non avevo considerato Mycroft e le
informazioni che lui poteva darti-gli disse con voce
calma.
Matty
alzò lo sguardo finalmente incontrando quello del padre, senza trovarvi rabbia o
rancore.
-Perciò
ti chiedo scusa e sono pronto a rispondere a tutte le tue domande-disse con un
sorriso rassicurante sulle labbra.
Il
bambino annuì.
-Siamo
davvero i tuoi figli?-gli chiese subito.
John
annuì.
-Non
ho il minimo dubbio al riguardo…Posso anche dirti il giorno esatto in cui siete stati concepiti-rispose John senza
indugi.
-Quando
è successo?-domandò Amelia curiosa.
-Un
pomeriggio freddo di Gennaio, credo fosse il secondo giorno dell’estro di vostro
padre-rispose con un lieve sorriso ad incurvargli le
labbra.
Matty
fissò attentamente il volto di suo padre cercando ancora una volta le possibili
somiglianze che erano così evidenti sul viso di sua
sorella.
-Perché
non ti assomiglio?-gli chiese.
-Tu
ami la scienza Matty, sai bene quanto me come funziona la biologia: c’è il 50%
di probabilità di avere due gemelli identici che assomigliano ad uno solo dei
genitori, ed un 50% di probabilità che i bambini rassomiglino uno all’Alpha e
l’altro all’Omega.
Con
Amy i geni Watson hanno avuto la meglio, mentre con te i geni Holmes non hanno
avuto nessuna concorrenza-rispose.
-Come
è possibile? Io e lo zio Myc non ci assomigliamo per niente!-ribatté chiaramente
poco convinto il ragazzo.
-Non
è vero… Voi due avete la stessa intelligenza, la stessa struttura ossea,
l’altezza.
Del
resto, neanche tuo padre e Mycroft si assomigliavano molto e vedrai con il tempo
assomiglierai sempre di più a tuo padre…Le somiglianze saranno davvero
incredibili-commentò John osservandolo per un’istante senza
vederlo.
Amy
fissò l’espressione trasognata che era apparsa sul volto del padre al minimo
accenno dell’Omega e per l’ennesima volta si chiese come facesse suo padre ad
amarlo ancora malgrado gli anni e tutto quello che era successo fra di
loro.
-Non
voglio assomigliare a lui-disse Matty, un’espressione battagliera in
volto.
A
quelle parole John si riscosse e fissò Matthew con uno sguardo
triste.
-Oh
Matty…Tuo padre era un brav’uomo-gli disse.
-Non
è vero-ribatté il ragazzo.
-Ha
ragione lui papà- s’intromise Amy, attirando su di sé lo sguardo del
padre.
-Amy…-
Forse
era venuto il momento di affrontare quell’argomento una volta per
tutte…
-Tu
hai molti ricordi, invece noi non lo abbiamo mai conosciuto non abbiamo niente,
soltanto i tuoi racconti e quelli degli zii…- disse lei dando manforte al
fratello.
-Lui
ci ha abbandonato! Come puoi dire che era un brav’uomo se non ci ha pensato
neanche un’istante prima di voltare le spalle ed
andarsene?
Era
l’Omega ed avrebbe dovuto restare con noi…E’ scritto su tutti i libri di
biologia umana che senza il collegamento empatico e fisico con la propria Omega,
l’80% dei figli muore nelle prime settimane
dall’abbandono.
Avremmo potuto morire senza di lui eppure
ha preferito il suo lavoro alla sua famiglia-aggiunse Matty dando voce ai
pensieri che lo avevano tormentato tutto il giorno.
Quando
finalmente i due ragazzi smisero di parlare, John si concesse un istante per
organizzare i propri pensieri, affondando il viso nelle proprie mani,
chiedendosi come aveva fatto a non accorgersi quello che preoccupava i suoi
figli: da quanto tempo i gemelli provavano tanto risentimento verso
Sherlock?
Come
aveva fatto a non capire che malgrado i suoi sforzi l’assenza dell’Omega aveva
pesato molto durante la loro crescita e ne aveva condizionato le interazioni
sociali?
Come poteva definirsi un buon padre se
non si era accorto di nulla?
Dopo
un prolungato silenzio, John tornò a posare lo sguardo sui propri figli,
prendendo un respiro profondo prima di parlare nuovamente.
-E’
vero.
Lui
era l’ Omega, ma incontrandolo per la prima volta avreste creduto di avere di
fronte un Alpha.
Faceva
di tutto per nascondere il suo Sesso, utilizzando degli inibitori dell’ odore e
dell’ estro, era riuscito anche a mettere a punto uno spray per mascherare il
suo odore chiaramente Omega trasformandolo in uno Alpha, convinto che lo avrebbe
aiutato nel suo lavoro.
Vostro
padre era un Omega ma prima di tutto, di me, della famiglia, della sua sicurezza
e della sua salute, veniva il suo lavoro: non c’è niente che vostro padre amasse
più del suo lavoro, dei suoi misteri e dei suoi puzzle-disse John, cercando di
spiegare ai propri figli quella creatura meravigliosa e complicata che era
sempre stata Sherlock Holmes.
Amy
aggrottò la fronte.
-Non
c’è niente che un’Omega ami più del proprio Alpha-commentò poco
convinta.
John
sorrise tristemente.
-Malgrado
la nostra Unione, vostro padre diceva di essere “sposato
con il suo lavoro”.
Il
lavoro era la sua vita…Ed io l’ho sempre saputo.
Fin
dal primo giorno, da quando ha inventato la sua carriera di consulente
detective, ma mi sono innamorato lo stesso di lui, quindi forse un po’ di colpa
ce l’ho anche io-commentò.
-Tu
però sei rimasto-gli fece notare Matthew.
John
alzò un sopracciglio, prima di allungare una mano ed affondarla nei riccioli
folti del bambino in una carezza rassicurante.
-Certo
che sì.
Non
ho mai preso in considerazione la possibilità di scappare o di non avervi nella
mia vita.
I
miei istinti mi avrebbero distrutto nel giro di pochi giorni…-disse
sincero.
Amy
si avvicinò al padre sul letto finché non poté poggiare la testa sul suo
avambraccio destro.
-Quindi
ora capisci il nostro punto di vista…-gli disse in un
sussurro.
E
malgrado non gli piacesse ammetterlo e si sentisse parzialmente colpevole per
come erano finite le cose, John capiva perfettamente i
gemelli.
Senza
parlare, Matty si alzò ed andò a sedersi sulle ginocchia del padre, la testa
contro la sua spalla sinistra un gesto che faceva sempre più raramente ora che
aveva undici anni e che dimostrava tutta la sua insicurezza ed il suo bisogno di
conforto in quella situazione.
Respirando
profondamente l’odore peculiare dei suoi figli, John chiuse gli occhi per
qualche istante, cercando di trasmettere ai gemelli il proprio amore ed il
proprio supporto per far capire ad entrambi che niente era cambiato, che i due
ragazzi avevano ancora il tutto il suo amore incondizionato e la sua
devozione.
Quando
capì che l’atmosfera nella stanza si era rasserenata, John annuì prima di
voltarsi leggermente verso Amelia.
-Non
sapevo che anche tu la pensassi come Matty-le disse.
-Matty
ha sempre dato voce ai sentimenti di entrambi-rispose la bambina guardandolo da
sotto in su.
-Mi
dispiace non averlo capito prima…Mi dispiace non essermi accorto di tante
cose-disse ad entrambi.
-Va
tutto bene papà…Sapevamo che per te
Lui era molto importante.
Però
possiamo smettere di parlarne?
E’
assurdo pretendere che Lui faccia parte della nostra famiglia quando invece ci
ha voltato le spalle alla prima occasione-disse Amy.
-Lui
non ci ha mai voluto, perché dobbiamo continuare a piangere e rattristarci per
la sua morte?-aggiunse Matty con lo stesso tono di voce.
John
annuì lentamente.
-Ok,
faremo come preferite.
Ma
ad una condizione: voglio che mi promettiate che non appena c’è qualcosa che vi
preoccupa, qualsiasi cosa, voi verrete da me e ne parleremo insieme, invece di
ingigantire la questione come è successo adesso.
Ed
io prometto che farò qualsiasi cosa per aiutarvi-
I
gemelli si scambiarono uno sguardo e poi annuirono
brevemente.
Il
trio restò in quella posizione a lungo, bisognoso di affermare nuovamente il
proprio Legame e di liberarsi una volta per tutte del fantasma di
Sherlock.
Circondato
dall’affetto dei propri figli, John si decise che era venuto anche per lui il
momento di dimenticare e di andare avanti con la propria vita: Sherlock era stato l’amore della sua vita,
l’unica persona con cui avrebbe potuto passare il resto dei suoi giorni, ma
malgrado sentisse ancora un Legame empatico con l’uomo nonostante tutti quegli
anni di lontananza, se ne era andato.
Era
venuto il momento di voltare pagina e dirgli addio una volta per
sempre.
Negli
ultimi trenta minuti, le telecamere che circondavano la sua proprietà avevano
intercettato dei movimenti sospetti.
Mycroft
conosceva benissimo l’identità dell’intruso.
Consapevole
che sarebbe riuscito a gestire la situazione da solo, aveva richiamato il
servizio di sicurezza e gli aveva ordinato di lasciar passare l’intruso, certo
che questi avrebbe trovato la strada per il suo ufficio senza troppi
problemi.
Sapeva
che quel giorno sarebbe arrivato. Erano settimane che lo aspettava e lo temeva
allo stesso tempo.
Le
telecamere in giro per Londra avevano intercettato la figura di Sherlock Holmes
negli ultimi trenta giorni, inizialmente a zonzo per le strade della città
vestito come uno dei suoi amati senzatetto; poi nel corso delle settimane aveva
abbandonato i suoi travestimenti ed aveva ripreso, per la prima volta in tre
anni, i suoi abiti firmati, trovandosi sempre più spesso nei pressi di Baker
St.
Le
guardie che controllavano l’Abercorn School avevano notato la sua presenza, ma
si erano trattenute dall’intervenire in quanto Sherlock non aveva fatto il
minimo accenno ad avvicinarsi a John o ai bambini, limitandosi a guardarli da
lontano.
Ed
ora, la sua presenza lì, a quell’ora tarda, poteva voler dire soltanto una
cosa.
Sherlock
Holmes era tornato.
Finalmente
la porta del suo studio si aprì e Mycroft, senza allontanare lo sguardo dal
proprio portatile, la sentì richiudersi con delicatezza.
-Mi
sembra di ricordare che nostra madre ti abbia insegnato le buone maniere
fratellino caro-gli disse salvando il documento su cui stava
lavorando.
-Devo
averle cancellate per far spazio a qualche informazione più importante fratello
caro-rispose la voce calma e profonda.
Chiudendo
con la mano destra il portatile, Mycroft alzò gli occhi sul fratello ancora
fermo davanti alla porta.
Tre
anni d’esilio ed in continuo assetto da combattimento avevano avuto il proprio
peso su Sherlock: l’uomo era decisamente sottopeso, il grasso corporeo rimasto
sostituito dai muscoli da cui pendeva un completo di ottimo taglio, ma
chiaramente vecchio di quattro anni, delle occhiaie profonde facevano da
contorno a due occhi tormentati ed in continuo movimento; i capelli ricci erano
stati decolorati in una sfumatura castana e mentre di solito erano tenuti sotto
controllo da creme e prodotti ora erano liberi e decisamente arruffati, dandogli
l’aria di un pulcino bagnato.
L’uomo
respirava faticosamente, il che avrebbe potuto far pensare ad una leggera
apprensione per quell’incontro, ma Sherlock aveva smesso di aver paura di lui da
quando aveva sei anni, quindi doveva esserci almeno una costola rotta e non
curata.
Concludendo
il suo veloce assestamento, Mycroft si lasciò andare contro l’alto schienale
della sedia e accavallò le lunghe gambe, incontrando nuovamente gli occhi di
ghiaccio del fratello.
-Finalmente
ce l’hai fatta a farti vivo…E’ da una settimana che aspetto la tua visita-disse
con un tono leggermente annoiato.
Sherlock
raddrizzò le spalle e si mosse nell’ufficio con velocità e grazia fino a
raggiungere una delle sedie di fronte alla scrivania.
-Ed
io che pensavo di essere riuscito ad evadere la tua
sorveglianza-commentò.
-Devo
dedurre che tutto si è concluso nel migliore dei modi-disse Mycroft deciso a
restare su argomenti “professionali”.
Sapeva
qual era il vero motivo della sua visita, ma non gli avrebbe reso la vita
facile: poche volte nella sua vita, Mycroft aveva avuto l’enorme potere di poter
rinfacciare qualcosa al suo caro fratellino ed ora, che Sherlock si trovava lì
per elemosinare il suo aiuto, l’uomo si sarebbe goduto quella sensazione fino
all’ultimo.
-Hai
saputo che tutto si è concluso nel migliore dei modi nel momento in cui gli
idioti di cui ti circondi hanno trovato il cadavere di
Moran.
La
rete criminale di Moriarty è stata completamente distrutta ed il mio lavoro è
finalmente terminato-rispose l’altro, arrogante come al
solito.
Mycroft
annuì leggermente.
-Devi
sentirti così orgoglioso di te stesso in questo
momento-commentò.
Sherlock
alzò le spalle.
-Un
po’-ammise, senza falsa modestia.
Non
era cosa da poco smascherare e distruggere completamente da solo un cartello
criminale radicato talmente in profondità da avere succursali in tre diversi
continenti e centinaia di “impiegati”.
I
due fratelli si fissarono per qualche secondo in silenzio, entrambi consapevoli
di quello che sarebbe successo di lì a poco, ma tutti e due bisognosi di qualche
ulteriore istante di pace prima dell’inevitabile lite che sarebbe scoppiata di
lì a poco.
-C’è
un ulteriore motivo per cui sei piombato in casa mia senza farti
annunciare?-chiese Mycroft unendo le dita delle mani e portandole a poca
distanza dalla bocca.
-Non
posso semplicemente sentire la tua mancanza fratello
caro?-
Un’espressione
dura apparve all’istante sul volto del funzionario britannico, chiaramente poco
incline ad ulteriori tentennamenti.
-Non
abbiamo mai sentito il bisogno di fare conversazioni inutili, vuoi davvero
cominciare ora?
Perché
sei qui?-gli domandò nuovamente.
Un’espressione
altrettanto seria apparve sul volto di Sherlock.
-Sai
perché sono qui-si limitò a rispondere.
-Naturalmente.
E
posso dirti fin da ora che per quanto mi riguarda puoi anche uscire da quella
porta e sparire nel buio della notte-rispose subito
l’altro.
-Voglio
tornare a Londra e far sapere a tutti che sono ancora
vivo.
E
voglio vedere John-continuò imperturbato il più piccolo degli
Holmes.
Mycroft
annuì lentamente, come se stesse considerando quella
possibilità.
-Sono
certo che ti accoglierà con le lacrime agli occhi ed un grande abbraccio dopo
undici anni-
-Voglio
conoscere i miei figli-aggiunse Sherlock.
Una
risatina sarcastica riecheggiò nella stanza, mentre un sorriso amaro incurvava
le labbra di Mycroft.
-Sono
di John-gli fece notare.
-Sono
anche figli miei-ribatté Sherlock prontamente.
-No,
non lo sono!-disse l’altro alzando leggermente la voce- Te ne sei andato quando
avevano soltanto due mesi…Non hai nessun diritto su di
loro.
Non
ti conoscono, non sanno neanche il tuo nome.
Credi
davvero che ti accoglierebbero con amore se domani ti presentassi alla loro
porta?-chiese Mycroft cercando di controllare la propria irritazione ed i propri
istinti Alpha.
Mycroft
Holmes e molti Alpha del suo circolo avevano una grande ammirazione per John
Watson: nessuno prima d’ora era riuscito nell’arduo compito di crescere dei
figli completamente da solo senza la propria Omega, o senza sceglierne un’altra
che lo “completasse”, dando il meglio di sé malgrado i propri
istinti.
L’idea
che Sherlock adesso potesse rovinare la tranquillità che John ed i bambini
avevano raggiunto soltanto per soddisfare un proprio capriccio lo rendeva
furioso.
L’istante
dopo, consapevole di essere vicino a perdere il controllo, Mycroft prese un
respiro profondo e allontanò lo sguardo dal volto
dell’altro.
-Per
una volta nella tua vita, fa la cosa più giusta e lasciali in pace-aggiunse
l’attimo dopo.
Sherlock
restò in silenzio qualche istante, prima che Mycroft lo sentisse prendere un
respiro profondo preparandosi a parlare di nuovo.
-Non
posso.
Devo
conoscerli.
Tutte
le mattine aspetto che escano di casa per poter cogliere anche solo pochi
sguardi…Adoro vederli insieme, il modo in cui sembrano integrarsi perfettamente
l’uno all’altro ed ora che sono al sicuro voglio far parte della loro
vita.
Voglio
conoscerli…Sapere cosa amano, cosa odiano…Dannazione! Sono il loro
Omega!-esclamò alla fine.
-Te
ne ricordi soltanto adesso?-gli domandò Mycroft concedendogli uno sguardo
freddo.
Frustrato
Sherlock scattò in piedi, voltandogli per qualche istante le spalle prima di
tornare a fulminarlo con lo sguardo.
-Mycroft…Non
ti ho mai chiesto nulla…-disse Sherlock terribilmente vicino a supplicare per la
prima volta in decenni.
-Eccetto
aiutarti nel tuo piano e mantenere il tuo dannato segreto!-gli fece notare
l’altro-Hai una vaga idea di quello che succederà quando Greg e John scopriranno
il mio coinvolgimento nella tua finta morte?-
-Era
la mia unica possibilità e tu lo sai…-rispose prontamente il moro, una mano fra
i riccioli ribelli, prima di puntare un dito verso il fratello- Come ti
sentiresti se Greg non ti permettesse di vedere Martin?-gli
chiese.
Il
viso di Mycroft si trasformò in una maschera imperturbabile, combattendo contro
i propri istinti che chiedevano a gran voce una punizione per l’Omega insolente:
Sherlock non aveva nessun diritto di tirare in ballo la sua
famiglia.
-Non
parlare di cose che non puoi capire fratellino caro…-disse
soltanto.
Svuotato
da ogni istinto battagliero, Sherlock si lasciò cadere sulla
poltrona.
-Ho
bisogno del tuo aiuto-disse nuovamente mettendo da parte il proprio
orgoglio.
Mycroft
lo fissò attentamente per qualche istante: era evidente che Sherlock fosse
sincero, che volesse davvero instaurare un rapporto con i gemelli e soprattutto
che volesse rincontrare John… Ma quanto sarebbe durato quel
desiderio?
Quante
ore, giorni, mesi prima che qualche crimine, puzzle o delle stupide ceneri di
tabacco distraessero la sua attenzione portandolo ad allontanarsi nuovamente dai
gemelli e da John?
Cosa
sarebbe successo se malauguratamente le sue aspettative non fossero state
soddisfatte?
Se
si fosse sentito ancora una volta soffocare e avesse sentito il bisogno di
scappare per l’ennesima volta?
La
famiglia Watson aveva faticato molto per raggiungere il proprio equilibrio e per
la prima volta nella vita, Mycroft doveva anteporre il bene di qualcun altro a
quello di Sherlock.
-Lo
so…Ma non posso aiutarti questa volta Sherlock.
Non
distruggerò il fragile equilibrio che John ed i bambini hanno raggiunto soltanto
perché hai deciso di giocare alla famiglia felice… Che succederà quando
cambierai idea un’altra volta?-gli domandò fissandolo con aria
severa.
-Non
cambierò idea. Non questa volta-rispose prontamente
l’altro.
Mycroft
atteggiò il volto in un’espressione felice.
-E’
meraviglioso… Sarà meglio chiamare John quanto prima per dargli la bella notizia
cosicché possa stendere il tappeto rosso-lo canzonò.
-Non
prendermi in giro-disse Sherlock fra i denti, chiaramente
irritato.
-Non
ne ho alcun bisogno…Stai facendo un ottimo lavoro da solo- disse sporgendosi
leggermente verso di lui sul piano della scrivania- Puoi raccontarti tutte le
bugie che preferisci, qualsiasi cosa ti aiuti a dormire la notte, ma tu ed io
sappiamo che è stata la noia a farti abbandonare la tua famiglia, molti anni
prima di Moriarty ed i suoi giochetti, quindi preferisco morire piuttosto che
permetterti di avvicinarti ai tuoi figli soltanto per ferirli un’altra
volta-disse in un sibilo minaccioso.
Sherlock
fissò il fratello per qualche istante, percependo i feromoni Alpha che avevano
iniziato ad impregnare la stanza e che riaffermavano l’autorità di suo fratello
e conferivano un velo di minaccia alle sue parole.
-Quindi
non vuoi aiutarmi…-commentò per
nulla turbato.
Mycroft
tornò a sedersi comodamente sulla propria sedia, le mani pigramente abbandonate
sul grembo.
-Ti
aiuterò a tornare nel mondo dei vivi, ma ti suggerisco vivamente di lasciarli in
pace.
Con
la mia autorità Alpha e di fratello maggiore ti proibisco di contattare John o
di avvicinarti ai bambini-disse in tono perentorio e chiudendo definitivamente
il discorso.
Un
lieve tremore attraversò la schiena di Sherlock a quell’ordine, ma
fortunatamente il tremore alle ginocchia e l’impulso di obbedire all’ ordine
dell’ Alpha erano svaniti molti anni prima.
-Interessante…-disse
alzandosi in piedi, un sorriso ironico sulle labbra-Peccato che tu non sia il
mio Alpha…E della tua autorità di fratello non so che
farmene.
Come
sempre è stato un piacere fratello caro-lo salutò voltandogli le spalle e
uscendo pochi attimi dopo dallo studio.
Era
cominciato tutto con un messaggio, come tante volte era capitato in
passato.
Dopo
aver messo a letto i gemelli, John era tornato in salotto sedendosi sulla sua
vecchia poltrona, una bottiglia di whiskey sistemata accanto a sé per dare il
proprio addio a Sherlock.
Avrebbe
dovuto farlo molti anni prima ed andare avanti con la propria vita, ma non era
mai riuscito a liberarsi dalla sensazione che malgrado la morte il Legame con
Sherlock non si era mai interrotto, rendendo impensabile l’idea di cercare un
nuovo Omega.
Aveva
chiuso gli occhi e si era abbandonato ai ricordi, desiderando per un’istante di
poter cancellare dal proprio hard-drive i ricordi più dolorosi e anche quelli
più emozionanti e felici in modo da dimenticare più facilmente l’uomo con cui
aveva sperato di condividere il resto della sua vita.
Dopo
il primo bicchiere, per evitare di cadere nella tristezza e nell’
autocommiserazione, aveva acceso la televisione e aveva iniziato a fare zapping
fra i canali senza concentrare la propria attenzione su nessun programma in
particolare.
Fu
in quel momento che il suo cellulare, lasciato sul pianoforte di Matthew,
vibrò.
Il
primo istinto fu di lasciare il cellulare sul pianoforte, leggendolo l’indomani
mattina, ma alla fine la curiosità ebbe la meglio, portandolo ad alzarsi in
piedi e ad avvicinarsi al piano.
Il
numero era sconosciuto, ma non appena diede un’occhiata alle parole sullo
schermo, John si sentì gelare.
Senza
troppi giri di parole: non sono morto. -SH
Una
mano scattò contro il pianoforte per supportare il suo peso, mentre il suo
cervello sembrò scollegarsi per alcuni istanti.
Era
impossibile.
Sherlock
era morto…Greg lo aveva cadere dal tetto del Barts e non gli avrebbe mai mentito
per tutti quegli anni, non dopo essergli stato accanto nei primi giorni dopo
l’accaduto.
Respirando
profondamente, John cercò di calmarsi, le dita serrate attorno al proprio
cellulare.
Non
poteva permettere ad un perfetto estraneo di sconvolgerlo in quel modo soltanto
per farsi una risata alle sue spalle: Sherlock era morto e non poteva riaprire
quel capitolo proprio adesso che aveva deciso di voltare pagina una volta per
tutte.
Non
so chi tu sia, ma questo è uno scherzo di pessimo gusto: Sherlock Holmes è
morto. –JW
Con
le gambe ancora tremanti si avvicinò nuovamente alla propria poltrona e si versò
un nuovo bicchiere di whiskey, bevendolo poi tutto d’un
fiato.
In
quei brevi istanti di “normalità”, John si convinse che si era trattato davvero
di uno scherzo di pessimo gusto; nonostante fossero passati anni dalla morte di
Sherlock c’era ancora gente che si sentiva in dovere di esprimere il proprio
parere al riguardo, fosse questo positivo o negativo.
Nessuno
però fino a quel momento era riuscito a trovare il suo numero privato; doveva
parlarne con Mycroft in modo che potesse prendere provvedimenti contro l’anonimo
mittente.
Il
suo cellulare vibrò nuovamente e prima che se ne rendesse conto, John aveva già
alzato il cellulare vicino al viso ed aveva aperto il nuovo
messaggio.
Oh
John…E’ la mia prolungata assenza che ti ha reso così stupido?
–SH
Che
faccia tosta!
Un
occhio meno attento lo avrebbe potuto scambiare per l’originale… Sicuramente
conosceva le caratteristiche basilari del comportamento di Sherlock, ma chiunque
fosse stato a contatto con il detective per cinque minuti sapeva che l’uomo
considerava ogni persona che lo circondava uno stupido.
Sherlock
Holmes non sarebbe qui a scrivermi…E lui sa perché –JW
Vediamo
se questo fosse stato sufficiente a farlo smettere.
Non
erano passati neanche trenta secondi prima che il suo cellulare vibrò di
nuovo.
Vuoi
ancora diventare vecchio con me nella nostra casa nel Surrey?
–SH
Oh
Cazzo…
Nessuno
era a conoscenza di quel particolare: in quel momento c’erano solo lui e
Sherlock.
Possibile
che…
Oh
Sherlock
Come hai potuto prendermi in giro ancora una
volta?
Riprendendo
il controllo di sé, John prese un respiro profondo e compose un veloce messaggio
di risposta prima di abbandonare il cellulare sul tavolino da
tea.
Sherlock
Holmes è morto. Dimenticati questo numero –JW
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