Quelle
urla gli rimbombavano nella testa.
Come
ormai accadeva sempre, le orecchie si tappavano e quelle urla
minacciavano di
fracassargli il cranio. Era terribile.
Era
terribile quello che sopportava ed era terribile la causa che lo
scatenava.
Arrivava
sempre al limite e poi non poteva più farne a meno, non ce la faceva,
voleva
resistere, voleva
morire, ma
l’istinto di sopravvivenza era più forte del suo stesso volere.
Strappò
la lama del coltello e lasciò cadere il cadavere a terra. Pallido come
una
porcellana. Non c’era più nulla in quel corpo vuoto che poteva
portargli via
ancora, non un briciolo di vita insignificante quanto un secondo di
battito del
cuore. Lasciò cadere il coltello a terra e così se stesso, stanco dalle
urla ma
rinvigorito dalla vita appena rubata. La sua pelle poteva tornare ora
calda e
rosa, rigata dalle lacrime di addio.
Vassil
credeva che sua madre lo avesse cacciato quando era bambino per
proteggerlo da
se stessa. Aveva ucciso suo padre e lo aveva abbandonato. Credeva che
sua madre
fosse pazza e che avrebbe vissuto meglio senza di lei; gli faceva
paura. Aveva
gli occhi rossi come il sangue.
Non
avrebbe mai immaginato che un giorno come un altro, quegli occhi rossi
come il
sangue sarebbero stati i suoi.
Il bisogno di
sentirsi vivi
Il
mercato di Bonhem era il più ricco del territorio, c’era di tutto:
vestiti, mobili,
oggetti utili alla casa, giocattoli, frutta e verdura, farmacia,
souvenir. Era
aperto tutti i giorni a parte il fine settimana e radunava persone
anche dai
paesi più lontani, c’era sempre il pienone. Tuttavia, quando lui usciva dalla sua casa sopra
la
collina e scendeva nella zona abitata, il mercato si svuotava
lentamente e le
persone lo lasciavano passare, si allontanavano, nessuno lo guardava
negli
occhi, neppure i mercanti che a stento riuscivano a vendergli la roba
che
richiedeva, e il più in fretta possibile, per non farlo aspettare.
Avevano
paura. Lui non aveva mai dato occasione di creare terrore: Vassil era
cortese,
educato, sorrideva anche se era certo che nessuno lo fissava in volto.
La sua
fama era solo frutto di dicerie e niente più. Credevano che fosse un
vampiro e
che le persone scomparse le avesse ammazzate lui. Ma il ragazzo, ormai di quasi
trent’anni, non era un vampiro e non aveva colpe. Lui stesso si era
barricato
in una casa sopra la collina per non far del male a nessuno. Appena
sentiva le
risate dei bambini li deviava, per non incorrere a pensieri orridi che
li
vedevano protagonisti mentre faceva loro del male.
Vassil
non era persona cattiva ed era solo. Aveva cercato di uccidersi più di
una
volta ma l’istinto di sopravvivenza era troppo forte e vinceva sempre,
nonostante tutto, anche quando provò a gettarsi da una rupe, reggendosi
all’ultimo.
Lui
era una piaga che camminava, e più di ogni altro, per se stesso. Vassil
era
destinato a vivere finché la morte naturale non lo avrebbe strappato
alla
carne, uccidendo persone innocenti per mantenersi vivo, senza poter
davvero
vivere, perché solo e nella disperazione, nei pianti che regalava alle
sue
vittime.
La
gente del luogo non sapeva realmente la sua storia; non sapevano niente
di lui.
Più volte provarono a contattare i gendarmi per farlo portare via,
ma non
ci sono mai state prove e gli stessi avevano timore di lui.
Ciò
nonostante, quel giorno non tutti sembravano aver paura: un ragazzo
passava da
una bancarella all’altra chiedendo di lui
e si fermò, quando lo vide arrivargli incontro, dopo un accenno con la
testa di
un venditore di bacche. Sorrise e gli arrivò davanti senza indugi,
fissandolo
in volto. Era una strana sensazione per Vassil, perché nessuno lo aveva
più
guardato in faccia da anni.
«Ah,
non credevo di trovarla in giro. Occhi neri»
Vassil
spalancò gli occhi, sorpreso.
«Mi
avevano detto che aveva gli occhi rossi ma siccome nessuno lo guardava
negli
occhi, mi domandavo come facevano a saperlo», rise quel ragazzo.
Il
venditore di abiti usati davanti a loro alzò appena lo sguardo,
curioso, per
poi riabbassarlo subito dopo, senza aver guardato quegli occhi e il
loro
colore: anni di paura cercando di non fissare in alto non potevano
sparire in
un momento di pura curiosità.
«Lei
chi è, mi scusi?», chiese Vassil con un filo di voce.
«Anton.
Solo Anton», gli porse la mano e il ragazzo la strinse dopo qualche
attimo di
attesa, indeciso. «Sono un estimatore di antiche leggende e mi ha
incuriosito
il suo caso. Gira voce che lei sia un vampiro»
«I-Io
non sono un vampiro»
«Ne
sono certo», alzò un dito al cielo azzurro, al passaggio di qualche
nuvola. «I
vampiri non escono di giorno», sorrise.
Vassil
s’incantò nel fissare quel sorriso. Così genuino, autentico. Il primo
sorriso
che vedeva dopo anni. Gli sembrava un miracolo.
«La
gente si lascia incantare da stupide dicerie ancora prima di pensare se
siano o
meno fattibili. Tuttavia, vorrei chiederle di poter studiare da vicino
la sua
vita». Al suono di quelle parole, Vassil s’impallidì, contrariato.
«Sono giunto
fin qui apposta per conoscerla! So che sono scomparse delle persone
e-»,
s’interruppe, guardandosi intorno e osservando come gli sguardi prima
incuriositi
scappavano cambiando traiettoria. «Beh, sì, tutti danno a lei la
colpa», lo vide
perplesso, non mancando lo sguardo dalla testa ai piedi, fissandosi sui
suoi abiti
scuri e particolari. «Solo la mia troupe ed io, tre uomini in tutto. Le
chiediamo solo di poter usare la sua casa, mangeremo per conto nostro e
dormiremo dove capita, non sarà un problema»
Vassil
stava già da qualche secondo scuotendo la testa e Anton schiuse le
labbra,
aggrottando le sopracciglia.
«Se
lei non ha a che fare con le sparizioni, non credo abbia nulla da
nascondere»
«Ma
io non-», prese respiro, era agitato. «Vivo da solo da molti anni, non
sono
abituato ad aver delle», gesticolò. «Delle persone come lei nella mia
casa!»
Aveva
paura. Tanta paura. Delle persone con lui, nella sua casa, non erano al
sicuro.
«Non
le daremo fastidio. Potrà continuare la sua vita in tranquillità e se
non
scopriremo nulla in una settimana… beh, ce ne andremo», Anton socchiuse
le
labbra. «Sette giorni. Le chiedo solo sette giorni. Scriveremo di lei e
di come
la sua vita non sia differente da quella di tutte le persone qui
intorno,
divulgheremo il documento, e lei potrà vivere in pace. Noi possiamo
liberarla
da queste dicerie che durano anni»
Solo sette giorni. Vassil continuò a
ripetersi per la testa quelle parole a ritmi regolari per interi
minuti, anche
per il giorno successivo nell’aver accettato. Sette giorni erano pochi.
Si era
nutrito due giorni fa e poteva restare altri sette giorni senza farlo
di nuovo,
ne era sicuro, l’ultima volta aveva resistito quasi un mese. Poteva
farlo e le
voci si sarebbero appiattite, anche se non del tutto. Alcuni cacciatori
avevano
deciso di ucciderlo due settimane prima e si era dovuto rifugiare nel
bosco
alcuni giorni: aveva paura che sarebbero tornati e si sarebbe sparso il
documento che testimoniava come lui non era minaccia, se non altro
quello, i
cacciatori non sarebbero tornati.
D’altro
canto, se la gente del luogo continuava almeno un po’ ad aver paura di
lui,
poteva considerarli al sicuro.
I
tre uomini sistemarono nel piccolo soggiorno i loro zaini, facendo di
quel
luogo la loro postazione. La casa di Vassil era piccola e lui aveva
sempre
abitato da solo, non aveva mai avuto bisogno di grandi spazi. I mobili
erano
pochi ed erano vecchi, alcuni consumati da piccoli animali e insetti. I
muri
erano ingialliti e la carta da parati a volte strappata, come se
qualcuno
l’avesse presa e trascinata in un attimo di rabbia. Anton e i suoi non
si
lasciarono sfuggire quel particolare, come del resto osservavano la
casa e ogni
angolo con perizia. Il ragazzo non credeva realmente a quelle voci e
voleva
dimostrare come Vassil non aveva niente a che fare con le sparizioni,
al
contrario tuttavia i suoi due collaboratori non erano delle stesse idee
e
pensavano che ci fosse qualcosa di fin troppo sinistro in
quell’abitazione. Non
era un vampiro, certamente, ma nessuno dei due escludeva l’ipotesi di
un serial
killer. Non ne dimostrava il carattere, ma una settimana sarebbe stata
sufficiente per trovare i corpi delle sue vittime intorno quelle mura.
Prepararono
i loro sacchi a pelo e Vassil fece fare il giro della casa ad Anton,
che si
voltava circospetto. La cucina era molto piccola e ci stavano appena
il tavolo
con una sedia, i fornelli, un minifrigo e una finestra. Il bagno era
fuori come
le case più antiche e nella camera da letto, che era la stanza più
grande, c’erano
un vecchio letto sfatto a due piazze, un armadio impolverato e una
sedia. Anton
non poteva credere che una persona potesse vivere in quelle condizioni.
Era
come se la persona che vi ci abitava non vivesse affatto e che si
stesse
lasciando trascinare. Vassil indossava abiti antichi e il ragazzo era
pronto a
scommettere che non li aveva comprati per se stesso, ma che li aveva
trovati in
questa casa abbandonata quando aveva deciso di abitarci.
Anton
era abituato ad osservare e catalogare, ad analizzare e arrivare alle
deduzioni
più logiche. Era il suo lavoro. Viaggiava e osservava e se c’era una
storia che
lo interessava, andava e la studiava, ne arrivava alla fonte. Tuttavia,
non
aveva mai conosciuto qualcuno come Vassil, durante i suoi viaggi.
Lui
era particolare, diverso. Era come se quello strano ragazzo avesse
paura della
vita e si rinchiudeva nella sua casa, nelle sue piccole quattro mura
ingiallite
dal tempo e dall’abbandono, senza neppure far entrare un po’ di luce.
Viveva
nell’ombra, come se realmente fosse colpevole di un castigo che doveva
espiare.
E Anton non lo capiva perché quello davanti a lui era un ragazzo
gentile, con
strani modi di fare, mangiava poco, non rideva perché non si divertiva
ma
sorrideva per non apparire maleducato. Era una brava persona e se solo
la gente
del posto si fosse sforzata di conoscerlo, prima di averne timore, lo
avrebbero
compreso anche loro.
Anton
però sapeva che i suoi due collaboratori non la pensavano allo stesso
modo.
Laddove lui vedeva qualcosa di curioso e innocente, loro vedevano
pazzia.
«Matto,
completamente…», sbottò Marcus, entrando nel suo sacco a pelo,
spegnendo una
sigaretta calpestandola fra le tegole del pavimento, indisturbato.
C’era una
gran polvere, ma aveva il diritto di sporcare ulteriormente una casa
non sua
senza porsi il problema? Si chiedeva Anton.
Lui
stava ancora seduto sulla piccola sedia pieghevole che si portava
dietro, e
scriveva appunti sul suo blocco poggiato sulla valigia. Era molto
concentrato
ma non poteva fare a meno di sentire il battibecco dei due.
«Questa
è la nostra prima notte qui, amico… altre sei e ce la filiamo! Questo
posto mi
mette i brividi e ne abbiamo visti parecchi, di posti strani», soffiò
Erik, buttando
via il fumo della sua sigaretta dal naso. «Domani mattina andiamo alla
ricerca
dei cadaveri, però: prima li troviamo, meglio sarà per tutti»
Anton
si voltò verso i due perplesso, senza mancare l’occhiataccia al secondo che
spegneva
la sigaretta sul pavimento come il compare. «Chi vi dice, che troveremo
i
cadaveri? O meglio, chi vi dice che, se li troviamo, sia opera di
Vassil? C’è
un bosco alle porte di questa collina, potrebbe essere un orso o un
lupo, il
vostro serial killer»
«Ma
dico, lo hai visto?», disse Marcus trattenendo a stento una risata,
lanciando
uno sguardo a Erik. «Chi vivrebbe in una topaia come questa senza
essere
svitato? Tutti i serial killer sono svitati»
Si lisciò
i baffi come segno di vittoria ed Erik rise di gusto, scuotendo la
testa.
Trattenevano la voce per non svegliare il padrone di casa ma a volte si
scordavano di essere così premurosi.
Anton
lasciò cadere il discorso e chiuse il blocchetto degli appunti. Si alzò
e si
sistemò al suo sacco a pelo, soffiando sulla candela.
Quando
Vassil preparò la colazione e andò a svegliarli, si accorse che tutti e
tre i
suoi ospiti erano già svegli da un po’. Erik e Marcus non c’erano e
Anton stava
arrotolando nuovamente i sacchi a pelo per non essere d’intralcio a
dove
camminare.
Erano
andati a cercare i corpi delle persone sparite e lui aveva deciso di
rimanere
con Vassil per fargli qualche domanda ed entrare nella sua vita. E sì,
per Marcus
ed Erik, Anton sarebbe dovuto restare con Vassil per controllare ogni
sua mossa
e per non intralciare loro nella ricerca dei cadaveri.
«So
che ha detto che avreste mangiato per conto vostro, ma ho comunque
preparato la
colazione per tutti, se aveste fame», esclamò Vassil e Anton sorrise
appena,
meravigliato. Non poteva davvero crederci che la gente avesse paura di
lui.
«Io
mangerò volentieri la colazione»
Con
l’aiuto di Anton, Vassil portò il tavolo nel soggiorno e così le due
sedie,
quella in cucina e quella nella camera, per poter mangiare insieme.
«I
suoi amici non mangiano?»
«Sono
già usciti, danno un’occhiata al luogo circostante e lo documentano.
Potrebbero
esserci animali feroci da queste parti?», immerse un biscotto nel latte
e
osservò con attenzione i movimenti facciali di Vassil, per scoprire se
avrebbe
potuto mentire.
«Non
che io sappia. Ma è sempre possibile, sì», morse un biscotto. «Un anno
fa
girava voce che era stato avvistato un orso ma io non l’ho mai visto,
né ho
sentito niente»
Per
Anton, Vassil sembrava preoccupato. Non aveva l’aspetto di qualcuno che
mentiva
eppure qualcosa nella sua voce gli diceva che non era tranquillo. Che
avesse
qualcosa da nascondere? Anton escludeva a priori che poteva essere un
serial
killer, non ne dava l’impressione, sembrava non potesse far del male
nemmeno ad
una mosca, ma doveva sapere qualcosa sulle sparizioni.
«Oh,
sappiamo entrambi come le voci che girano sono spesso frutto di
fantasiose
speculazioni», rise.
Vassil
rise a sua volta ma non riuscì a non pensare alla parte reale della
paura della
gente e si fece malinconico. Lui non avrebbe mai desiderato questa
vita.
Marcus
ed Erik tornarono a casa verso le sei della sera con un nulla di fatto.
Si
erano rifocillati comprando cibo al mercato e avevano rovistato su
ettari di
terreno senza trovare neanche un capello, ma erano sicuri che da
qualche parte
avrebbero trovato quei corpi, perché avevano intravisto delle tracce.
Erano
stanchi e un po’ intimoriti a passare un’altra notte sotto quel tetto
con il
probabile assassino, ma non avrebbero rinunciato a smascherarlo e ad
avere le
prove sufficienti per farlo arrestare dai gendarmi.
Non lavoravano da
tanto tempo con Anton e spesso si trovavano su due linee di
pensiero differenti. Anton era uno studioso, loro degli ex-ladruncoli
che
avevano deciso di seguirlo per fare qualcosa di buono per la comunità.
Vassil
sentì che poteva andare tutto bene. I due collaboratori di quel ragazzo
non
avrebbero trovato i corpi, erano nascosti troppo bene, e lui poteva
restare
ancora del tempo senza dover macchiarsi di sangue. Sentiva seriamente
di
potercela fare e in più era felice, stranamente felice, perché Anton
non lo
credeva un mostro e parlava con lui. Era una sensazione che non sentiva
da
troppo tempo. La solitudine lo aveva reso strano e sapeva che la
felicità
sarebbe svanita presto, perché a breve loro sarebbero ripartiti e tutto
sarebbe
tornato come prima. Non voleva lasciarsi cogliere da questo sentimento
di
tristezza però, era un bene la loro partenza e lui lo sapeva. Doveva
solamente
fare tesoro di questi giorni felici e creare ricordi altrettanto felici
per i
giorni più bui. Per contrastare quelle urla.
La
mattina successiva, al suo risveglio, Erik e Marcus non c’erano già più
e lui
decise di aiutare Anton a sistemare i sacchi a pelo. Fecero colazione
ridendo
del più e del meno e più tardi uscirono insieme al mercato, per compare
qualcosa per il pranzo. La gente del luogo li scorgeva chiacchierare in
tranquillità forse stupiti, che quel ragazzo in compagnia di Vassil,
fosse
ancora vivo.
«Dimmi,
Vassil… Parlami un po’ di te», esclamò Anton mentre tagliava delle
carote da
mettere in pentola. Era arrivato il momento di sapere di più sul
ragazzo della
collina.
«Su
cosa? Cosa vuoi sapere?»
Era
così strano, per lui, dare del tu a qualcuno.
«I
tuoi genitori ad esempio», sorrise. «Dove sono i tuoi genitori? Che
tipi sono…
o erano?»
Si
bloccò nel tagliare la cipolla. Gli occhi rossi di sua madre gli
ritornarono
alla testa come un macigno. Era un ricordo pesante, quello dei suoi
genitori.
Anton
scorse il suo malessere e si morse le labbra, versando le carote in
pentola. «Ho
toccato un tasto dolente?», chiese subito dopo. «Non volevo… ferirti»,
lo
fissò, serio, mentre Vassil abbassò un poco lo sguardo.
«Non
è un problema», cercò di creare un sorriso con tutto se stesso. «Sono
morti.
Mia madre uccise mio padre e abbandonò me in mezzo a una strada», si
diede una
pausa e Anton si sentì sprofondare. «A dire tutta la verità… Non so se
mia
madre è morta, ma da quel giorno, per me, è come se lo fosse. Lei era
pazza»
Anton
lasciò da parte il coltello e decise di abbracciare Vassil, con
sorpresa di
quest’ultimo. Nessuno, da quando ricordava, lo aveva abbracciato. Fino
a quel
momento non sapeva neppure come ci si sentisse. Ricordava che alcuni e
alcune
in passato ci avevano provato e ci erano quasi riusciti, ma lui li
aveva
allontanati. Perché non riusciva a fare lo stesso con Anton? Perché non
se lo
aspettava? Era così caldo che avrebbe voluto che quell’abbraccio
durasse per
sempre, non aveva la forza di scacciarlo da sé.
Fu
Anton ad allontanarsi dal ragazzo come se avesse commesso un errore.
«Perdonami,
Vassil… Mi sono lasciato trasportare… Eri triste e io, sai, non ho mai
avuto
una madre», roteò gli occhi al soffitto marcio della cucina. «E la tua
era…
beh, non era una buona madre»
«Aveva
gli occhi rossi»
Quelle
parole spezzarono la scena. Anton lo fissò e Vassil lo fissò a sua
volta.
«La
prima volta che ci siamo incontrati, due giorni fa, hai notato che i
miei occhi
erano neri perché le voci dicevano che erano rossi. Mia madre aveva gli
occhi
rossi»
Non
sapeva neppure perché gli stava raccontando questo dettaglio. Perché
dirgli che
sua madre aveva la sua stessa maledizione senza accennargli la sua
maledizione?
Non aveva senso. Sentiva di potersi fidare di Anton ma era uno sbaglio,
perché
lui avrebbe scritto la sua storia.
«Tua
madre…», non riuscì a dire nient’altro, prima di andarsene dalla cucina
e
lasciar perdere il pranzo.
Il
giorno successivo, pareva che sia Anton che Vassil volessero avere poco
a che
fare l’uno con l’altro. Quando Vassil si svegliò e prese la direzione
della
cucina, vide che il soggiorno era vuoto: i sacchi a pelo erano già
sistemati in
un angolo e nessuno dei tre era presente. Vassil tirò un sospiro di
sollievo
perché era un bene non affezionarsi alla sua presenza. La sua, di
Anton, più che
quella di Marcus ed Erik.
Rientrarono
in tarda sera tutti e tre e Vassil si rintanò nella sua stanza. La
mattina
seguente, tuttavia, quando Vassil aprì gli occhi, ritrovò Anton a pochi
passi
dal suo letto che prendeva appunti.
Balzò
appena e si tirò indietro, guardandosi attorno.
«Che…
Che stai facendo?»
«Il
mio lavoro», continuò a scrivere, senza degnarlo di sguardo. «Sono
venuto qui
per scrivere la tua storia ed è questo che faccio». Si allontanò dalla
camera
lentamente, lasciando un Vassil perplesso. Cosa avrebbe dovuto scrivere
mentre
dormiva?
Erik
e Marcus non avevano trovato ancora niente e Anton si decise a finire
di
scrivere il pezzo di Vassil in fretta. Si era deciso a finire quella
storia il
prima possibile.
Il
giorno prima era uscito per cercare informazioni sugli occhi rossi e
confrontarli con ciò che già aveva scoperto prima di conoscerlo, ma
aveva
deciso di lasciar perdere anche quello. Vassil era un ragazzo innocente
e
sfortunato, nulla più. Avrebbe scritto il suo documento e l’avrebbe
venduto a
dei giornali il prima possibile, in modo da salvarlo dalle malelingue
della
gente. Non voleva più sentire parlare di occhi rossi.
Ripresero
a ridere e parlare insieme lentamente e Vassil capiva che era uno
sbaglio ma
era la cosa più bella che gli fosse capitata da sempre e si lasciava
scivolare
addosso le preoccupazioni. Per un attimo, Vassil desiderava solo
sentirsi un
ragazzo normale.
Con
l’aiuto e sotto consiglio di Anton, insieme cominciarono a pulire
meglio la
casa da cima a fondo e ad aggiustare qualche mobile che aveva bisogno
di un
ritocco, e a comprare dei nuovi indumenti, delle nuove coperte e delle
nuove
tende. La casa stava riscoprendo un nuovo colore con un solo un po’ di
luce in
più e Vassil era commosso. Non aveva mai creduto di doverlo fare.
Perché farlo?
Lui chi era? Lui viveva? Lui se lo meritava? Lui era un mostro, anche
se Anton
non lo sapeva.
Quel
ragazzo glielo faceva dimenticare; passare il tempo con lui gli
cancellava la
tristezza, non ci pensava, andava al letto con il sorriso sulle labbra.
E non
per educazione, ma per allegria.
Non
voleva più pensare a quanto sarebbe durato, quanti giorni ancora
restavano da
passare con lui, aveva perso il conto. Sapeva che l’indomani mattina si
sarebbe
risvegliato con lui accanto, sotto lo stesso tetto.
Marcus
pestò un piede a terra, schiacciando la cicca, arrabbiato. Anton gli
lanciò
contro uno sguardo sinistro ma continuò a scrivere senza interruzione
sul suo
blocco degli appunti.
«I
sette giorni stanno per terminare: domani… abbiamo solo domani per
trovare
questi dannati cadaveri», ringhiò.
«Io
dico di scavare sotto questa casa», esclamò Erik. «Forse è per questo
che non
riusciamo a trovarli nel bosco: sono qui, sotto il nostro culo peloso»,
schiacciò anch’esso la sigaretta e Anton smise di scrivere.
«Niente
scavi», disse autoritario, fissando i due. «Come intenderete spiegargli
l’intenzione di scavare sotto casa sua?»
«Glielo
dirai te», riprese Erik, sfidandolo con lo sguardo, alitando a bocca
aperta. «Tanto
siete in grandi rapporti, no?»
«Già,
ti stai dando da fare per rendere più presentabile la topaia e parli
più spesso
con lui che con noi», aggiunse Marcus, entrando nel suo sacco a pelo,
mentre
Erik annuiva.
Anton
strinse le labbra e pensando inarcò le narici. «Va bene, statemi a
sentire:
domani niente scavi, chiederò a Vassil il permesso di poterlo fare e
quello di
restare qualche giorno in più per continuare il documento. Gli dirò che
gli
scavi sono essenziali per terminarlo, per far vedere che non ha nulla
da
nascondere. Domani andrete al bosco come sempre e cercherete ancora da
quelle
parti»
Nonostante
non sembrassero entusiasti di dover passare qualche altro giorno in
quelle
mura, accettarono entrambi.
La
mattina, Marcus ed Erik erano già usciti ed Anton aspettò che Vassil si
svegliasse per uscire insieme a lui al mercato. Non sapeva come
introdurre
l’argomento e Vassil non sembrava neppure ricordare che oggi era
l’ultimo dei
sette giorni del patto iniziale. Il ragazzo era di buon umore e Anton
non
voleva turbarlo. Anche lui sapeva quanto Vassil era felice di averlo al
suo
fianco ogni giorno. Doveva immaginarlo.
Al
rientro a casa, prepararono il pranzo e mangiarono con appetito.
Tuttavia,
Vassil aveva capito che c’era qualcosa di strano in Anton e decise di
prendere
per primo in mano la situazione.
«Ti
vedo turbato, quest’oggi… Posso fare qualcosa?»
Il
ragazzo rise: non sapeva ancora come dirglielo ma in un modo o
nell’altro, non
aveva scelta. «Volevo chiederti una cosa… a onor del vero»
«Dì
pure, allora»
«Marcus
ed Erik vorrebbero… In verità è una cosa un po’ sciocca, ho detto loro
che non
ci sarebbe stato bisogno, ma hanno insistito». Vassil si faceva curioso
ed Anton
si morse le labbra, prima di accennare un sorriso e grattarsi il capo.
«Beh…
loro vorrebbero provare a scavare intorno e un po’ sotto la tua casa…
senza
farla crollare, ovviamente, l’hanno già fatto in altre occasioni»
Vassil
spalancò gli occhi e Anton mosse un sopracciglio, come se avesse
captato
qualcosa nel suo sguardo.
«Vorrebbero
scavare per… vedere se nascondo là i corpi delle persone scomparse?»
Quella
domanda pareva aver fatto male a entrambi. Anton guardò altrove, prima
di
concentrarsi nuovamente su quegli occhi neri.
Annuì
delicatamente. «Loro pensano che tu… Ho provato a dire loro che sono
fuori
strada ma questo è il nostro lavoro, stiamo stilando un documento sul
tuo caso,
e scavare fa parte del piano, se necessario. Sono sicuro che non ci
sarà nulla
se non terra e se sei d’accordo, mi concederai il permesso di scavare»
Vassil
deglutì e Anton lo fissò. Nulla se non
terra. Nulla se non terra. Ripeteva a se stesso. Non c’era nulla se non terra,
là sotto.
«Va
bene», esalò. «Erik e Marcus possono scavare dove vogliono: non c’è
nulla se
non terrà, là sotto»
Anton
sorrise e Vassil a sua volta, come tolto un peso.
«Per
un attimo credevo fossi preoccupato»
«La
mia unica preoccupazione è per la casa», annuì.
Anton
gli si accostò lentamente e Vassil restò immobile, seguendolo con lo
sguardo,
prima di socchiudere gli occhi appena. Quello era il suo primo bacio da
quando
aveva diciotto anni e aveva passato una breve ma intensa storia
d’amore. Anton
per lui era speciale, in tutti i sensi. Per lui, si stava dimenticando
chi era.
Era
un bene? O un male? La coscienza di sé aveva il potere di proteggere le
persone
da lui ma allo stesso tempo di cancellargli un’esistenza.
Fu
Anton ad allontanarsi per primo, dopo avergli brevemente fissato gli
occhi.
Perché
quel bacio?
Quella
serata si concluse incredibilmente in fretta. Al loro ritorno, Marcus
ed Erik
cenarono da soli mentre Anton scriveva, che aveva già mangiato, e
Vassil era
già da un po’ nella sua stanza. I due collaboratori notarono come Anton
pareva
ancora più concentrato e silenzioso dei giorni passati e
chiacchierarono tra
loro entusiasti per gli scavi che avrebbero iniziato l’indomani. Anton
fece
finta di coricarsi, aveva già spento la candela, e quando si sentì
sicuro tra i
loro russare, si alzò delicatamente dal sacco a pelo. Diede un’occhiata
ferma e
impassibile alla porta chiusa di Vassil e s’infilò le scarpe, uscendo
di casa. Schiacciò
l’erba con noncuranza, non aveva paura di attirare qualche animale
feroce con
la luna piena nel cielo e aprì la porta del bagno, girando la chiave.
Ci si
chiuse dentro e poggiò la chiave accanto alla carta, osservando il
water
dall’alto, immobile.
Aveva
capito tutto. Non c’erano più segreti, ormai.
Marcus
ed Erik non avrebbero mai trovato quei corpi: non c’era davvero nulla
se non la
terra, là sotto. Non là sotto.
Con
forza afferrò il water e lo spostò, stando attento a non toccare i tubi
che
andavano dall’altra parte, scorgendo la botola. Spostò l’asse di legno
e scese
lentamente per quelle scale, richiudendo dietro di lui. Accese la
candela che
si era portato dietro e camminò lungo quel piccolo andito di terra,
spalancando
le narici nel sentire un odore strano. Camminava piano, senza fretta,
osservando attentamente quel luogo, specie dove metteva i piedi.
Sembrava che
qualcuno avesse lottato a giudicare le impronte. Si fermò, inchinandosi
e
tastando la terra. In quel punto qualcuno si era inginocchiato e aveva
raschiato le mani sulla terra. Si guardò attorno lentamente, prendendo
appena
un respiro. Le impronte erano sempre le stesse; solo una persona era
stata lì
sotto: Vassil.
Riprese
il cammino ed entrò in una stanzetta con le pareti ricoperte di legno
marcio,
ammuffito. La terra era smossa e c’erano dei fiori ovunque, appassiti.
All’angolo destro c’era una grande montagna di terra e una pala: era
sicuramente quella che usava per ricoprire i corpi. Le montagne di
terra più
piccole erano sparse per la camera, con sopra i fiori, e il fetore era
terribile. Vassil doveva portare i fiori alle sue vittime spesso ma era
da
quando loro abitavano con lui, che non ci metteva più piede. Quello era
un
cimitero.
Si
affacciò a una parete e tastò un’asse di legno un po’ rotta, sembrava
con un
pugno. Vassil aveva combattuto a lungo, in quella stanza.
Decise
di andarsene, prima che a qualcuno servisse di andare il bagno.
I
giorni seguenti furono molto divertenti. Erik e Marcus scavavano senza
sosta
nella convinzione di trovare presto i corpi, mentre Anton e Vassil
uscivano per
andare a Bonhem e restavano fuori delle ore intere, mangiando e
passando
delle belle serate. Per Vassil era come tornare ai tempi in cui credeva
di
essere ancora un semplice ragazzo e non chiedeva nient’altro al mondo,
che
stare più tempo possibile in compagnia di Anton. Erano passate già due
settimane dal suo arrivo nella sua vita e aveva paura che il tempo
stesse per
scadere, che avrebbe dovuto cacciarlo, ma non sentiva il bisogno di
uccidere,
cominciava a non avere più paura di se stesso, che pensò veramente di
guarire.
Con la compagnia di Anton, che lo trattava da umano, credeva che non
avrebbe
più rivisto gli occhi rossi o forse non si sarebbe spinto tanto oltre.
Ci
furono altri baci, carezze, sorrisi e complicità. Niente poteva andare
storto
in quei giorni, nulla, neanche la verità che Anton sapeva e non aveva
detto a
nessuno, nemmeno al suo blocco di appunti.
«Potremmo
andare a vivere al di là delle colline», enunciò Anton in un sorriso,
assaporando la sua brioche. «Ci sono stato per una ricerca su un fiore
qualche
mese addietro e la gente del luogo è molto ospitale, mi sono trovato
bene»
Vassil
sorrise a sua volta ma abbassò appena lo sguardo, pensieroso. «Sarebbe
bellissimo… Ma anche là penseranno che sono un vampiro», riprese il suo
sorriso, facendo scoppiare Anton in una risata goliardica.
«Appena
avrò terminato il mio documento, nessuno penserà più che sei un
vampiro, ma
solo un ragazzo un po’ timido», prese la mano di Vassil nella sua.
«L’incubo
finirà»
Vassil
spalancò gli occhi. Anton sembrava leggergli dentro ma non sapeva
tutto,
credeva. Vassil non sapeva dire con certezza quello che stava accadendo
fra i
due, sapeva però di non essere sincero e che, se lo sarebbe stato,
Anton lo
avrebbe odiato. Avrebbe scritto la verità sul suo conto e lo avrebbe
consegnato
ai gendarmi. Sarebbe stata la fine. Nessuno poteva toccarlo in quel
senso,
nessuno. Se qualcuno si avvicinava a lui con l’intento di fargli del
male, gli
occhi rossi lo avrebbero ucciso.
Si
ricordò quando era solo un ragazzo, aveva diciassette anni e si
trasformò per
la prima volta in quel mostro. La sua pelle si era fatta pallida, i
suoi organi
gli minacciavano di schiacciarsi e le sue vene si prosciugavano. La
vita gli
stava sfuggendo di mano e non ne sapeva la ragione.
Si
era avvicinato a uno studio medico ma durante la visita accade
l’inaspettato:
i suoi occhi divennero rossi e il medico s’immobilizzò. Afferrò la
prima lama
che vide nelle vicinanze e gliela conficcò nel petto con grinta. Si
accostò
alla ferita e aprendo la bocca prosciugò la sua vita. Gli organi si
rigenerarono
e le vene tornarono gonfie e a scorrere. La sua pelle era di nuovo
rosea e
credeva di essere guarito. Pianse e le urla arrivarono poco dopo. Si
mantenne
le orecchie e gettò a terra con calci e pugni tutto ciò che vedeva ma
quelle
urla non venivano dall’esterno.
Più
avanti, pensò che quelle urla appartenevano alla vita che aveva preso.
Accadeva
tutte le volte, una dopo l’altra, da allora non si era mai fermato. Non
c’era
mai riuscito.
Dallo
studio medico chiamarono i gendarmi e lo seguirono di corsa. Vassil non
poté
fare altro che scappare. Era impaurito, aveva appena ucciso un uomo ed
era
stato terribile. Quei tre uomini però udirono gli allarmi degli agenti
e si
piazzarono davanti a lui. Erano grossi e ridevano, non avevano paura di
un
gracile diciassettenne. Uno di loro si accostò per afferrarlo ma a
quella presa
il mostro in lui si risvegliò, mostrando gli occhi rossi. Gli spezzò il
braccio
come se fosse di burro e uccise lui e gli altri due uomini. Prima
dell’arrivo
dei gendarmi sulla scena, Vassil era già scomparso.
Lui
non aveva scelta. Era una maledizione, quella che aveva macchiato la sua
vita.
Vassil
entrò in cucina poggiando la busta della spesa sul tavolo, tirando
fuori ciò
che gli serviva per preparare la cena. Cominciò a pelare patate,
osservando
Marcus ed Erik dalla finestra che ancora scavavano fuori in giardino,
quando
sentì una fitta allo stomaco. Lasciò la patata sul tavolo e si accostò
con il
coltello in mano allo specchio nel soggiorno. Il suo aspetto era
sconcertante.
La sua pelle era di nuovo pallida come una porcellana, era magro, e
sentiva gli
organi del suo corpo restringersi. Era troppo tardi, pensava. Non era
guarito
neanche questa volta, neanche con l’amore. Si piegò in due dal dolore
ma quando
sentì la porta di casa aprirsi tornò in verticale senza sforzi,
guardando con i
suoi occhi rossi alle sue spalle nello specchio. Anton.
No,
lui no. Non avrebbe permesso a se stesso di fargli del male. Quel
mostro non
poteva vincere ancora. Non poteva uccidere l’unica persona che gli era
stata
vicino davvero e che voleva aiutarlo con così tanta passione. Non
poteva
uccidere la persona di cui si era innamorato.
«Anton…
vattene», sibilò tra i denti stretti, senza voltarsi. Sapeva che se lo
avrebbe
fissato, sarebbe stato troppo tardi.
Ma
lo studioso non sembrava temere ciò che vedeva dallo specchio e si
avvicinò
lento, fino ad abbracciarlo alle spalle. «Niente paura, Vassil»,
mormorò
quest’ultimo. «Sapevo che sarebbe accaduto. Non devi proteggermi.
Fallo».
Vassil scosse la testa e strinse forte i suoi pugni. «Fallo… Moriresti»
Si
voltò e lo fissò agli occhi con i suoi rosso sangue. Non c’era via di
scampo,
aveva bisogno della sua vita adesso.
Strinse
forte il coltello e stretto con le mani di Anton entrò nella carne. Il
ragazzo
non mostrava neanche un po’ di dolore e Vassil s’inchinò per aspirare
la sua
vita dalla ferita aperta. Ma si svegliò.
Gettò
via le coperte dal letto e si mantenne la fronte sudata, prendendo aria
a pieni
polmoni. Per fortuna era stato solo un sogno, pensava, ma togliendo la
mano
dalla fronte si accorse che questa era secca e piena di crepe e che
l’incubo
non era ancora finito. Si alzò bruscamente dal letto e si affacciò alla
finestra, osservando con paura nel riflesso, il suo viso pallido e
asciutto.
Stava per accadere di nuovo. Riusciva appena a prendere aria e si stava
sentendo male. Era tardi. Ora il suo corpo sarebbe andato alla ricerca
di una
vita umana e la prima a capitargli a tiro sarebbe stata la prossima
vittima. Non
c’erano alternative. Il suo sogno voleva avvertirlo, dirgli che non era
guarito.
Ma
decise che non avrebbe fatto del male ad Anton.
Stava
per uscire dalla finestra quando sentì un brutto colpo provenire dalla
porta di
casa e così alla porta della sua stanza da letto, che fu buttata giù.
Marcus
pareva infuriato ed era nel posto sbagliato al momento più sbagliato.
«Adesso
mi sono stufato», puntò un dito contro Vassil, che si era spinto più
che mai
alla finestra. «Siamo in questa topaia da oltre tre settimane e abbiamo
fatto i
giri nel bosco, scavato a non finire e se questa casa non fosse così
piccola
sarebbe stato il primo posto da mettere a soqquadro… Adesso dimmi dove
sono i
cadaveri! Dimmi dove hai gettato le persone che hai ucciso!»
Respirava
sempre più affannosamente e se l’uomo non fosse stato così accecato dal
nervoso, si sarebbe accorto prima del suo malessere; ma non avrebbe
fatto in
tempo a scappare in ogni caso, Vassil ormai lo sapeva.
«Ehi…
hai mangiato qualcosa ieri a cena che ti ha avvelenato? Hai un aspetto…
strano»
Si
accostò di un passo e gli occhi di Vassil divennero rossi. Non aveva
più il
tempo di stupirsi, era sotto il suo controllo. Si avvicinò ancora e il
ragazzo
gli prese il coltellino a serramanico dalla cinta. In un attimo lo
accoltellò e
Vassil aprì la bocca alla ferita per risucchiarne la vita.
Presto
avrebbe dovuto portare via il corpo, il prima possibile, anche con le
urla
nella sua testa che sentiva già prendere la rincorsa per colpirlo.
Tuttavia,
quella rincorsa apparteneva a qualcun altro.
«Marcus,
lascia stare», la voce di Erik si sentiva chiara già dopo aver varcato
la
soglia della porta di casa e si faceva più vicina rapidamente. «So dove
altro
possiamo… scavare», si bloccò. Vide il corpo freddo del suo amico
immobile e
Vassil e i suoi occhi dietro di lui, che brillanti lo fissavano.
Scacciò un
urlo e scappò di casa, sballottando Anton che entrava in quel momento.
«Non
andare, scappa, chiamo i cacciatori», urlava. «Ha ucciso Marcus! Ha gli
occhi
rossi come il sangue!»
Come
se le urla del suo collaboratore lo potessero in qualche modo
destabilizzare, Anton
mantenne il suo sguardo serio ed entrò nella stanza, osservando il
corpo di
Marcus a terra accanto al coltello insanguinato e Vassil vicino, che si
teneva
stretta la testa tra le braccia: le urla erano arrivate. Si accostò
lentamente
e si inginocchiò davanti a lui, afferrandogli le mani.
«Ehi,
guardami. Sono Anton», sibilò la sua voce calma e seria.
Vassil
scosse la testa ma Anton lo costrinse a guardarlo e gli occhi rossi
presto
scomparvero, insieme alle urla.
Ormai
erano anni che Vassil uccideva a suo malgrado, ma era sempre come la
prima
volta: piangeva e si guardava intorno turbato, dispiaciuto.
«Sono
un mostro», strinse i denti. «Marcus è morto»
«Non
sei un mostro. Sei una vittima di te stesso, è una maledizione»
«Non
ci riesco… Ho provato a non farlo, Anton, ho provato tante volte… Non
possono
uccidermi e non posso farlo neanche io, Anton. Non so cosa fare, Anton»
«Non
devi fare niente se non vivere», sorrise. «Non hai colpe. Ho fatto
delle ricerche
il giorno che non c’ero. Mi avevi detto che tua madre aveva gli occhi
rossi. La
tua famiglia è stata maledetta tantissimi anni fa. Ho parlato con un
uomo, ai
confini di Bonhem e mi ha detto di aver conosciuto un uomo con gli
occhi rossi
che uccideva per non morire, molti anni prima: era tuo nonno, Vassil.
Il padre
di tua madre. Mi hai confidato che tua madre ti ha abbandonato e che ha
ucciso
tuo padre… Non era pazza, Vassil, era solo come te. Quando doveva non
c’era
nessun altro e ha preso la vita di tuo padre. Ti ha lasciato andare per
non
rischiare di ucciderti»
Vassil
spalancò gli occhi. Sua madre lo aveva realmente protetto da se stessa,
quella
sera.
Deglutì,
cercando di prendere fiato.
«Stanno
arrivando i cacciatori… Erik è andato a chiamare i cacciatori», deglutì
ancora,
sudato. «Devo spostare il corpo e scappare»
«No.
Parlerò io con loro. Tu nascondi il cadavere di Marcus e sarà la mia
parola
contro quella di Erik», gli sorrise. «Marcus è andato al mercato a
comprare da
mangiare, l’ho mandato io. Ed Erik si droga»
«No,
non capisci», insisteva Vassil, alzandosi da terra, seguito da Anton.
«Se
qualcuno proverà ad avvicinarsi a me con gesti di minacce, succederà
una
strage. Me ne devo andare»
Lasciarono
la casa con il corpo di Marcus a terra e scapparono nel bosco insieme.
Vassil
aveva deciso che avrebbe lasciato quella casa per sempre; era stato
scoperto e
non voleva che Anton mentisse e rischiasse il carcere per proteggerlo.
Sentirono
i cani dei cacciatori abbaiare e corsero sempre più in alto, alla
ricerca di un
nascondiglio dove non gli avrebbero cercati almeno per quella notte.
L’indomani
se ne sarebbero già andati.
Vassil
si appoggiò contro un albero e prese fiato, fissando Anton che, a
sangue
freddo, cercava di scorgere la casa.
«Devi
andartene»
Anton
si voltò, osservando Vassil attentamente. «No», scosse la testa.
«Perché
non hai paura di me? Mia madre mi ha lasciato andare per proteggermi,
giusto?
Per non rischiare di uccidermi, non è vero? E io devo lasciare andare
te per la
stessa ragione», deglutì.
«Non
mi ucciderai», si accostò a lui.
«Come
fai? Come fai a dirlo?»
Anton
si abbassò sulle ginocchia, guardandolo negli occhi neri. Il suo viso
appariva
intrigato e Vassil non lo capiva. Anton era diverso da tutte le persone
che
aveva conosciuto.
«Perché…
beh, prenderò degli altri appunti e scoprirò il ritmo della tua vita.
Quando
sarà il giorno, io stesso ti porterò a casa nostra la vittima
sacrificale e
vedrai solo lei. Io sarò al sicuro. Non sono uno sprovveduto, Vassil,
non farti
ingannare dalla mia età. Sei al sicuro con me più che con chiunque
altro. E no,
non ho paura. Se mai un giorno dovessimo trovarci in quel momento,
espierò le
mie colpe per permetterti di sopravvivere. La morte non è nostra
nemica,
Vassil», sorrise.
Si
accostò per baciarlo e si lasciarono andare. Quelle labbra crespe di
Vassil,
per Anton erano le più dolci che avesse mai assaporato.
«Ci
siamo innamorati perché siamo fatti l’uno per l’altro», disse poco
dopo, carezzando
la guancia di Vassil. «Mi prenderò io cura di te»
Sorrise
e lo spinse contro all’albero, per baciarlo ancora. Non avrebbe mai
avuto paura
di lui; Anton non aveva paura di niente e l’unica cosa che voleva da
Vassil,
era sentirlo vivere.
*******
La settimana
scorsa ho sognato che ero
un uomo che, infilzando con un coltello un altro tizio, ne risucchiavo
la vita
per sopravvivere. E la risucchiavo proprio come descritto nella shot.
Finché
poi, disperata (cioè disperato, visto che ero un uomo), non ho
accoltellato
anche un ragazzo cui provavo forti sentimenti e ci stavo male. Beh, era
un
sogno, quindi ho voluto mantenere quella scena come tale :)
Questa shot
partecipa al contest
indetto da darllenwr
sul
forum di EFP Le
metamorfosi :)
Ciao, ciao da Ghen
:>
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