“E’ permesso?”
“Sì. Avanti”
Rispose senza alzare la testa dall’atto che stava leggendo,
così si accorse di lui solo dopo che ebbe sostato per cinque minuti abbondanti
davanti alla scrivania, in piedi.
“Accidenti, che ti è successo?”
“Un episodio improvviso di emottisi” – disse, alzando il
bavero e osservando distrattamente gli schizzi di sangue che lo chiazzavano.
Sotto quella luce bluastra al neon risaltavano ancor di più.
“Non abbiamo ancora capito quale infezione sia, stiamo facendo le analisi”
L’uomo lo fissò diritto negli occhi. “Non avete ancora idea
di che cosa abbia?”
“No.”
Foreman distolse lo sguardo e si alzò dalla sedia. Si voltò
di dandogli il fianco e si puntellò con la mano destra sulla scrivania.
“Quanto pensate che durerà?”
“Ha perso quattro unità di sangue e la pressione è in calo.
Non gli do più di un giorno se è fortunato”
“Capisco. Che cosa vuoi fare?”
“Aspettare. Tre ore ancora, al massimo. Se compare qualche
altro sintomo…”
“… Perché non ci sono alternative”
Il decano di medicina si risedette alla scrivania. Posò
pollice e indice tra la fronte e la tempia.
“Foreman, abbiamo tentato qualsiasi cosa. Non posso
procedere alla cieca. Ho bisogno di altri dati, ma tratterò adeguatamente il
dolore del paziente. Non lo lascerò soffrire”
“Credo ci sia un’alternativa”
I rombi dei tuoni del temporale che si stava scatenando
all’esterno non riuscirono a nascondere il trillo di un cercapersone. Foreman
cercò il suo, ma non aveva squillato. L’altro fu messo in viva voce.
“ … I bastoncini per il naso!”
“Prego?”
“I bastoncini per il naso, Chase,
dannazione!” – la voce era agitata, e si udiva come sottofondo uno sferragliare
di ruote metalliche. “Lui si pulisce il naso con i bastoncini, la casa ne era
piena! Deve essersene infilato uno troppo in fondo, gli è sicuramente entrato
del cotone nelle cavità nasali e deve aver raggiunto i polmoni, sarà lì da
settimane … Chase, è sindrome da shock tossico, lo
stiamo portando in sala operatoria per rimuovere quel cotone, e speriamo di
riuscire a trovarlo!”
Foreman scosse il capo. “Come fate a esserne sicuri? Non ne
avete alcuna prova”
“E’ l’unica spiegazione!” – urlò Park dall’altro capo del
cercapersone, mentre il carrello schizzava assordante per i corridoi. “Se lo
troviamo, togliamo quel cotone e lo salviamo con gli antibiotici, se non lo
troviamo ci lascerà comunque le penne, è in piena crisi respiratoria!”
Foreman corrugò la fronte e spalancò gli occhi. Sospirò
guardandosi intorno. “Fate il vostro lavoro”
Chase spense il cercapersone.
“Devo andare in sala operatoria”
L’uomo annuì. Chase arrivò alla
porta e spinse giù la maniglia.
Si bloccò. “… Alternativa?”
*
Uscì dall’ufficio due ore dopo la fine del suo turno, dopo
l’ora di cena. Al momento però era ancora scosso. Infilò la giacca beige, entrò
nell’ascensore come se lo stesse facendo in un sogno e uscì dall’ospedale tra
le ultime gocce di pioggia di un temporale ormai quasi estinto. L’aria odorava
di umidità e di ozono. Starnutì e prese il fazzoletto dalla tasca; fece
attenzione a soffiarsi il naso per non farvi entrare del cotone: non voleva
essere salvato anche lui in extremis. Doveva ricordarsi di proporre un aumento
per Park, era stata geniale.
Salì in macchina e tornò a casa, per nulla concentrato alla
guida e rischiando due volte di non frenare in tempo al semaforo. Pensò di non
correre ulteriormente il rischio di uccidere pedoni innocenti per quella sera, optando
per passarla seduto sul divano guardando la tv. Ma i suoi pensieri non
riguardavano il Late Show.
Resisté finché la sua mente glielo permise, ma non voleva
saperne di farsi distrarre dal programma. Spense l’apparecchio, sospirò, si
guardò intorno e, infine, si alzò. Si vestì con calma, ponderando il da farsi.
Dove sarebbe dovuto andare?
L’idea gli guizzò in testa mentre girava la chiave dell’auto. Alle undici di
sera le strade erano ancora attraversate dalle automobili, ma lui allungò
deliberatamente il percorso di oltre un’ora, finché esse si ridussero ad alcune
sporadiche apparizioni. L’asfalto era ancora costellato qua e là dalle ampie
pozzanghere del temporale, che riflettevano ora l’alone della luna, ora
grappoli di nubi spumose e scure nella notte, che solcavano il cielo di quando in
quando.
Avrebbe dovuto infuriarsi con Foreman, forse. Non si era mai
arrabbiato con lui. Il suo inconscio sapeva che non avrebbe ricevuto alcuna
soddisfazione nell’urlare addosso a quell’espressione impassibile e marmorea.
Per questo motivo aveva solo spalancato gli occhi per qualche secondo, e poi se
ne era andato senza ascoltare i suoi richiami.
Sterzò dolcemente lungo un vialetto ghiaioso cinto da due
siepi. Il battito del suo cuore accelerò leggermente, donandogli una certa
euforia. Parcheggiò all’esterno dell’edificio, scese dall’auto e vi entrò: le
luci alogene donavano alla sala un’apparenza asettica. Provò una fitta di
malinconia.
Studiò il cartello che si trovava all’ingresso e trovò il piano al quale voleva
recarsi. Chissà se era quello giusto; ma la tempistica coincideva. Salì le
scale a piedi, cinque ampie rampe, per stemperare la tensione, ma fu inutile.
Proseguì lungo un corridoio spettrale, voltando la testa da un lato e
dall’altro tanto velocemente da sentire stirarsi i muscoli del collo.
Stanza 16. Lo sguardo vi indugiò qualche secondo di più. La
sfumatura rossastra dei capelli era inconfondibile, e la loro presenza indicava
che la terapia non era stata fatta. La magrezza del fisico rendeva invece irriconoscibile
l’uomo che dormiva su quel letto. Chase esitò. Prima
di entrare si avvicinò alla porta a vetri, sbirciando l’interno della camera.
Un infermiere dai capelli brizzolati sistemava la flebo al capezzale del
degente. Entrò.
L’infermiere si voltò. “Mi scusi. Non è orario di visite”
“Sono un medico” – ribatté Chase.
“Posso anche crederle, ma il paziente deve riposare” – disse
l’uomo, lo sguardo dolente. “Torni alle sette di domani”
Chase lo fissò senza espressione.
“D’accordo”, annuì.
Uscì di nuovo dalla stanza, come in trance. Aveva visto
morire decine di persone da quando aveva scelto quella professione, ma la vista
di Wilson in quello stato lo aveva turbato. Era come se mani invisibili gli
stessero stringendo lo stomaco. Gli saltò in testa un’idea. Tornò sui propri
passi e riaprì la porta. L’infermiere si voltò di scatto e lo fissò indignato.
“Mi scusi” – si schermì subito Chase
– “Solo una domanda. Qualcun altro gli ha fatto visita?”
L’uomo aggrottò la fronte e alzò gli occhi al cielo. “No,
direi di no, non ho visto nessuno”
“Ne è certo? Nemmeno nei giorni scorsi?”
“Sì”
Chase sospirò. “Capisco. Scusi
ancora. La ringrazio”
Diede un ultimo sguardo all’oncologo morente, poi chiuse la
porta dietro di sé.
Mentre camminava ancora lungo il corridoio, pensò che sarebbe tornato a
trovarlo la mattina seguente, se veramente nessuno si era fatto vivo. Avrebbe
voluto portarlo al Plainsboro, ma il suo aspetto
mostrava che ormai gli mancava davvero poco. Non avrebbe avuto senso portarlo via dal General.
Sulla porta a vetri della hall centrale, controluce rispetto
ai lampioni che si trovavano fuori, si stagliava il contorno di una figura
umana alta e slanciata. Non fosse stato per la posa tanto diritta e per
l’abbigliamento, sarebbe potuto sembrare un paziente di ortopedia. Chase si fermò e la guardò fisso, cosa che venne
ricambiata. Deglutì e spalancò le palpebre.
“Hanno detto che non ha mai ricevuto visite”
Ronzio dei neon dei lampadari. La luce di uno di essi tremò.
“Ho pagato l’infermiere perché non dicesse che vengo la
notte”
Chase annuì, ma non riuscì a
smascherare l’emozione.
“Tu sei morto”
Il suo interlocutore si posò due dita sul lato del collo,
mentre cominciava ad avanzare. “No, direi di no”
“House, tu devi
essere morto”
“House?” – rispose, raggiungendolo – “Non so chi sia”
Chase annuì ancora una volta.
“Immagino che sia stato Foreman”
“Già”
“Lo sapevo” – disse, poggiandosi al bastone con il lato
destro del corpo e sorridendo.
“Che cosa? Che avrebbe trovato il tuo tesserino?”
“No” – rispose. Alzò lo sguardo e lo fissò diritto negli
occhi. “Sapevo che saresti venuto tu”.
Lo fissò anche lui di rimando. “Perché?” – chiese,
socchiudendo gli occhi.
“Perché tu non ti accontenti. Non aspetti le conferme:
cerchi le prove, come un segugio … addestrato”
Si guardarono intensamente, e Chase
annuì per la terza volta.
“Se sei qui per un caso impossibile, sappi che io non sono
un medico. Al momento sono solo un motociclista girovago”
“Beh, non proprio” – disse – “All’inizio era per quello, ma
Park l’ha risolto”. Sorrise quando l’uomo più attempato strabuzzò gli occhi.
“Sono venuto perché da qualche parte Wilson doveva pur essere, in questo
periodo, e il Princeton General era il posto più
probabile … e scontato”
House arricciò l’angolo della bocca. “Non potevo portarlo
troppo lontano”
“Lo so. Come stai?”
L’uomo fece spallucce. “Uno schifo, ovviamente. Meglio di
Wilson e peggio di te”
Chase sorrise. “Mesi fa avresti … pardon, House
avrebbe risposto in modo diverso”
“Suppongo di sì”
“Torna al Plainsboro”
House si tolse la coppola sulle ventitré e rese il suo volto completamente visibile. “Non
posso tornarci se non ci sono mai
stato, o sbaglio?”
“Non adesso” – rispose Chase –
“Adesso devi occuparti di altro. Ma più avanti, se sarai intenzionato”. La
porta a vetri si aprì scorrendo e un medico basso e assonnato la varcò. Aveva
la giacca imperlata di gocce di pioggia. “Posso corrompere Foreman per
riassumerti, e inventare un alibi per coprirti. Ormai sono bravo”
House sorrise, complice. Spostò il peso dal bastone
all’altra gamba, e sembrò ancora più alto.
“Sono curioso di sapere come corromperesti il pivot … hai
una dispensa abbastanza grande per tutte quelle banane?”
Chase ridacchiò. “Non scherzavo”
“Lo so” – rispose – “Da quando hai preso il mio posto,
suppongo che non scherzi molto”
“Come …?”
“Per favore, ti ho tirato su apposta. Se non ti avessero
assunto come capo di Diagnostica, da buon fantasma li avrei perseguitati tutte
le notti. Ma sii più sciolto, via. Ora devo andare da … Wellington”
“Veramente è sotto questo nome o mi stai prendendo in giro?”
“No, in realtà la scheda dice che lui è Whiterspoon,
ma il concetto è lo stesso. Per quanto riguarda il resto … non portare animali
strani in ufficio. Potrebbe essere seccante, più avanti, ripulire la moquette
dai peli di canguro”
Due sorrisi furtivi, una pacca sulla spalla che non reggeva
il bastone. Non ricambiata, ma accettata.
“Io passerò di giorno. Tu fa’ pure il vampiro”
Si salutarono con uno sguardo d’assenso. House si rimise la
coppola e si diresse verso l’ascensore.
Sapeva che House sapeva. Sapeva che era conscio che non
avrebbe detto niente a nessuno, che avrebbe mantenuto il segreto finché non
avrebbe deciso di mostrarsi. E sapeva anche che, se e quando sarebbe successo,
avrebbe fatto un passo indietro, cedendogli lo scettro. E questo non per
umiltà, non per svalutazione di sé o servilismo, ma perché sapeva che sarebbe
stato necessario non qualcuno che lo controllasse e che si imponesse, ma
qualcuno che lo stimasse. E lui sapeva che al di sotto di quel cumulo di
eccessi che lo avevano caratterizzato c’era una colonna portante di integrità,
e lo stimava per questo.
Chissà se stava cambiando, si chiese. Ma gli angoli della bocca, che si
curvarono all’insù, risposero per lui.
Si tuffò nuovamente nella notte di marzo, camminando nel viottolo di ghiaia
lucida, tra le pozzanghere.
*