Hollow
La
casa è piccola. Lo realizza ora.
Non
abbastanza posti in cui nascondersi, non molti posti in cui andare
quando una mattina capisci di odiare il pianerottolo del secondo
piano. Odi la tua stanza. Odi quel piccolo, indistinto angolo dietro
la porta aperta della camera da letto.
Lui
si sveglia e si gira sul suo lato, il mondo sfocato e piccolo e
intrappolato nel vetro polveroso della finestra. Insignificante.
Monotono.
Chiude
gli occhi, finge che lei stia avvolgendolo con un braccio e gli stia
sussurrando buongiorno.
È
mezzogiorno e i suoi occhiali sono ancora sul comodino, appannati ed
intoccati.
Al
piano di sotto c'è una finestra in cui ci si può
sedere.
È
insopportabile come tutto il resto, ma... ma che Dio lo aiuti,
profuma ancora di lei – tè svaporato lasciato a
raffreddarsi fino
a pomeriggio tardi, libri dalla schiena rotta, brezza d'autunno e
tende increspate – quando lui si siede lì
abbastanza a lungo e
chiude gli occhi abbastanza stretti. Ne vale il dolore, pensa,
sorridendo morbosamente da solo attraverso le chiavi nere, gli alti e
i bassi dei loro ricordi, scoprendo spesso di non aver dimenticato la
curva delle labbra di lei o il tintinnante squillo della sua risata.
Non vuole pensare all'inevitabile. Che un giorno guarderebbe fuori
dalla finestra, attraverso il vetro rigato e il giardino trasandato,
e non troverebbe nulla
– non le sue dita agili, non la cicatrice sul suo collo, non
la
foresta nei suoi occhi.
È
difficile respirare a mezzanotte, dopo incubi che durano fino
all'alba, quando ci vuole un po' per rovistare tra il casino nelle
crepe più profonde del suo cervello per la ninnananna che
lei
canticchiava per fare addormentare Harry. È terrorizzato che
un
giorno la sua voce si confonda con l'indistinto chiasso ritmico di
High Street in un lunedì piovoso; terrorizzato che il ritmo
dei suoi
passi si perda nelle ignota, anonima folla nella sua testa.
Così per
adesso risucchia il dolore da se stesso come se stesse togliendo
torcendosi un abito pieno di sangue, giallo come quello che lei aveva
indossato al loro primo appuntamento, ancora e ancora, sempre mentre
ancora riesce.
Eccetto
che non si asciuga mai. Continua a torcersi. Continua a camminare per
la casa in un universo da tasca, perso in una cronologia che non
è
nemmeno sicuro sia stata reale o no. Continua a guardare suo figlio
ridere. Continua a mettere il braccio attorno ai fianchi di sua
moglie e a baciarle il collo. Continua a scendere le scale al profumo
della colazione. Ignora il tappeto bruciato, i frammenti sulla
balaustra, il relitto scoppiato dietro la porta aperta della camera
da letto. Ignora il palpitante bagliore verde ai margini di ogni
cambio di scena, che minaccia di rovesciarsi ad ogni momento e di
portargli via tutto. (Ancora.)
Lui
non è niente ma mani scarlatte e nocche livide in questi
giorni.
E
pensa... no, promette
– lui promette, Lily, promette - che un giorno
riuscirà a lasciare
quel posto alla finestra, a lasciare il legno bruciato, la cera
sciolta e il tappeto ammuffito. Promette che un giorno sarà
capace e
disposto
ad andarsene da quella casa...
Troppo
piccola, Lily, questa casa è troppo piccola, non
è vero? Perché
siamo venuti qua? Perché siamo dovuti essere proprio noi?
Harry?
Perché siete dovuti andare?
… che
un giorno sarà capace di oltrepassare il cancello di
ingresso e
sentirlo stridere...
“Addio,
ti amo, starai bene, non dimenticarti di me.”
… e
non...
“Torna
indietro. Non andartene. La casa è piccola, ma staremo bene.
Quando
la guerra sarà finita, saremo una vera famiglia. Ricordi
quelle
bellissime rose gialle rampicanti alla tenuta? Le avremo. Un'altalena
per Harry. Un patio. Appuntamenti per il gelato dalla fontana nel
parco. Harry volerà. Staremo bene. Ti fidi di me? Staremo
bene,
purché tu sia con me...”
Un
giorno.
Un
giorno, Lily; lo promette.
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