L'Ultimo Canto dell'Allodola

di mughetto nella neve
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If I die young, bury me in satin
Lay me down on a, bed of roses
Sink me in the river, at dawn
Send me away with the words of a love song 

L’autunno è ormai arrivato a Kyoto: riempie le strade con le sue foglie secche e soffia con insistenza contro le finestre dell’ospedale.
Produce rumori cupi eppure incredibilmente affascinanti che attirano immediatamente l’attenzione di Furihata. Egli spostandosi lentamente dal proprio letto, prende ad osservare curioso il cielo azzurro che si staglia sulla città: questi è solcato da nuvole bianche che saettano velocemente da un capo all’altro della cupola celeste, favorite dal vento. Ogni tanto passa di lì un aereo o uno stormo di uccelli migratori tuttavia ad essi, il giovane, non ha mai dato molta importanza.
Furihata ammette di fare un po’ fatica a sedersi facendosi forza sui propri gomiti. Non importa quanto tempo passi a dormire, le energie si esauriscono con un movimento in più dettato dalla necessità. Il suo respiro si fa più veloce non appena prova a parlare o muoversi con le sue sole forze verso il bagno. Questa sua improvvisa debolezza lo spaventa e disorienta, tuttavia preferisce non condividere questo genere di sentimenti con il proprio ospite.
« Non devi venire tutti i giorni, Sei. Non ce n’è bisogno » borbotta piano stringendo lentamente la mano dell’altro, sperando che questi lo guardi negli occhi anche solo per un’istante. Non si rende conto di quanto la sua voce sia bassa e così incredibilmente flebile, da perdersi subito nel silenzio della stanza d’ospedale. « Non ti dicono nulla per tutte queste assenze? Potresti passare dei guai »
Akashi vorrebbe dirgli che il direttore di una grande azienda come la sua non deve tener conto a nessuno di come e dove decide di passare le giornate, tuttavia preferisce tacere e continuare a stringere quella mano così pallida e magra.
Di solito, quando si va a parlare con qualcuno in ospedale, si cerca di mostrarsi quanto più ottimisti e sereni possibili così da potergli trasmettere la stessa gamma di sentimenti anche al paziente; purtroppo lui non è capace di fingere, anzi, lo ritiene quasi un insulto alla sua persona e a quella del compagno. La sua maschera seria e composta rimane perfettamente intatta durante i loro incontri, non mostrando che sicurezza e fiducia nel successo ormai vicino.
« Come ti senti oggi? » chiede finalmente, passando una veloce occhiata sul corpo di Furihata. Questi chiude gli occhi e si adagia di nuovo sui cuscini, continuando a stringere dolcemente la sua mano come fosse una specie di sollievo a quella stanchezza che lentamente lo sta avvolgendo.
« Sto molto meglio adesso » Il suo sorriso è forse la cosa migliore che Akashi abbia visto durante quelle settimane. Ne ha bisogno, come dell’ossigeno. Tanto che non ha il coraggio di staccargli gli occhi di dosso, tanto più quando lo sente stringere i lembi delle coperte del letto. « Mi piacerebbe uscire a fare una passeggiata uno di questi giorni. L’infermiere mi ha detto che c’è un piccolo giardino dietro l’edificio. E … non so, ammetto di essere un po’ curioso »
Il vento continua a soffiare con forza contro le finestre dell’ospedale, sbatte con forza i pugni contro di esso e spera di ricevere le adeguate attenzioni che gli si competono. È da poco arrivato mezzogiorno, ma dal corridoio non arrivano suoni o schiamazzi generali; è il silenzio ad alleggiare fra i due.
Furihata, sdraiato nel suo letto, passa gran parte delle sue giornate ad osservare il lento divenire della città, studiando la gente che attraversa la strada e le forme degli alberi e palazzi. Si distrae solo quando gli vengono serviti i pasti.
« Fa freddo fuori » pronuncia severamente Akashi dedicandogli una pessima occhiata, come se volesse riprenderlo per simili affermazioni e desideri. È turbato da simili parole, tuttavia non lo vuole dare a vedere e preferisce continuare a mantenere quel volto stoico e composto.
« Lo so, ma – » 
« Ho parlato con il medico » lo interrompe l’altro lasciando la presa alla mano dell’altro e portandosela sulle gambe con eleganza. Sembra essere improvvisamente tornato in sé e questo sembra un po’ preoccupare Furihata che dischiude faticosamente gli occhi per capire cosa gli stia succedendo. « Ha detto che bisogna aspettare almeno altre due settimane prima di poterti sottoporre ad un altro ciclo di chemioterapia »
« Dovrò tagliarmi di nuovo i capelli? »
« Ti ricresceranno » 
Ne segue il silenzio che Akashi ha temuto più di ogni altra cosa durante quella giornata. Lo osserva prendersi in mano le ciocche più lunghe e studiarsele con disappunto; i suoi movimenti sono lenti, inesorabili, e lui ne avverte la gravità e la fatica. Sembra quasi viverli sul suo corpo e quasi lo desidererebbe se non avesse troppo amor proprio e della propria salute. Non vorrebbe mai trovarsi nella situazione in cui si trova Furihata: preferirebbe morire subito, pur di non vivere nella vergogna di essere malato e “mutilato” da quel cancro che lo sta lentamente consumando.
« Dovremmo fare una passeggiata assieme » propone improvvisamente il suo compagno dedicandogli un’occhiata improvvisamente più serena; sembra aver pensato a qualcosa che lo ha immediatamente rallegrato. Ma Akashi non vuole sapere cosa sia. Fin dall’inizio della loro relazione, ha subito chiarito cosa fosse di dominio d’entrambi e cosa personale: nel suo caso, Furihata non doveva impicciarsi degli affari della sua famiglia e lui non doveva sentirsi in diritto di conoscere ogni suo minimo spostamento o pensiero. Cosa per nulla facile, ma comunque possibile.
« Appena sarai fuori di qui, ti porterò dovunque vorrai » gli dice piano, quasi a volerlo rassicurare e far tornare nel tepore iniziale in cui lo ha trovato quel pomeriggio. La pelle di Furihata è così bianca e liscia da ricordare, al tocco, una perla lucida; Akashi accarezza  che va man mano consumandosi, giorno dopo giorno. Il corpo di un morto, o almeno di qualcuno che sta per lasciare questo mondo dopo una serie di inutili interventi e chemioterapie.
« Ma io vorrei andarci uno di questi giorni » gli sorride, quasi divertito da quella promessa, Furihata appoggiando entrambe le mani sul proprio ventre. Sentire i propri respiri, il cuore che batte e le fibre muscolari che si contraggono lo fanno sentire sereno. Vivo. È come una rassicurazione per lui in quell’ambiente in cui tutto sussurra e grida morte e disperazione. « Ti ho parlato del giardino, no? L’infermiere mi ha detto che hanno piantato molti sempreverdi e quindi, anche se ormai è autunno, il verde continua a regnare sovrano. Mi ha anche raccontato che ci sono ancora molte piante che producono fiori, anche se molto piccoli e poco profumati. »
« È meglio che tu non esca. » lo ferma ancora Akashi con tono più deciso e fermo, più simile a quello di un genitore che quello di un amante. Ormai la loro relazione non può nemmeno più definirsi tale: non si abbracciano più, tanto meno si lasciano andare a baci o simili effusioni. Furihata sta cominciando a temere di essere considerato al pari di un morto ai suoi occhi e quasi teme che, fra un po’, gli neghi anche quello stringersi le mani.
Il silenzio che ne segue dopo è ancora più pesante e vergognoso del primo. Furihata respira velocemente nel suo comodo giaciglio e Akashi lo osserva preoccupato, ma non sa cosa potergli dire per trasmettergli forza. La sua empatia è sempre stata minima e, di solito, era l’altro che si sforzava di palesare i propri sentimenti; durante i loro primi mesi di convivenza era Furihata a doversi fare strada nel suo cuore, ad amarlo per ciò che era e nulla più.
« Sei, non devi fare così. Rendi tutto più difficile »  pigola piano il suo compagno stringendo con un poco di forza i lembi della coperta, facendolo immediatamente destare dai suoi ricordi. Akashi, da sempre irritato da quel suo stato di impotenza, quasi si sente bruciare quando l’altro glielo ricorda. Furihata sembra quasi voler mettere il dito nella piega e sussurrare sadicamente “tu non puoi fare niente. Sto morendo. E tu non mi salverai”.
« No, non è vero. » si affretta a dire con improvvisa sicurezza e aggressività storcendo la propria bocca, quasi a volergli imporre di tacere o di apprezzare il suo pensiero, come se questo potesse migliore le cose e rendere tutto più semplice. « Uscirai presto. Te l’ho detto. » 
« Io morirò qui, Sei. Ormai lo so. » pronuncia fatalmente Furihata con una dolcezza in bocca che rende quasi più digeribile una simile rivelazione.  «Sai?, in cuor mio, ho sperato di poter rimanere a casa mia fino all’ultimo. Sarebbe stato tutto più facile. Mi sarei sentito meno malato. Meno morto. Ti avrei avuto al mio fianco, nello stesso letto, e sarei stato felice. »
« Le tue sono sciocchezze »
No, non sono sciocchezze. E lo sanno tutt’e due. Akashi se lo sente ripetere da un mese dai medici e da Furihata ancora prima. Non ha la minima idea di come quest’ultimo sia riuscito ad arrivare ad una simile conclusione - probabilmente se l’è sentito rivelare dal suo stesso corpo, esausto dopo l’ultimo intervento.
Quello che prova è un sentimento schiacciante che si annida presso le viscere e le contorce provocando dolori lancinanti e disperati. Akashi lo sentiva più forte non appena chiudeva dietro di sé la porta di quella camera, abbandonando il suo compagno nel mondo dei sogni e dei pensieri più profondi. Non riusciva ( e non voleva ) tornare nella loro casa, poiché temeva di sentire dentro di sé l’irrefrenabile desiderio di rompere tutto ciò che gli capitava fra le mani – persino gli effetti personali di Furihata.
Il respiro sempre più veloce del compagno lo porta a prestargli di nuovo attenzione. Lo vede tenersi il petto con fatica, improvvisamente spaventato ed agitato da qualcosa che appena gli è tornato in mente. Furihata è sempre stato un libro aperto per lui: i suoi occhi parlavano ancor più della sua bocca; e, ora più che mai, basta un pensiero un po’ più cupo per vederlo nel suo viso magro e deperito.
« Mi dispiace, Sei. Ti sto facendo perdere un sacco di tempo con i miei capricci. »
« Non è nulla »
« Per non parlare dei soldi spesi per il ricovero e le chemio … »
« Non è nulla »
« Sei, mi spiace così tanto. Scusami. Tutto questo tempo e questi soldi … chi te li ridarà? Io non ne ho di così tanti. Come puoi fare adesso? Forse potrei chiedere all’infermiere se – »
Furihata si ferma subito, improvvisamente pentito da quelle parole troppo dure che sicuramente hanno ferito l’individuo accanto a lui. Serra gli occhi, esausto. Si da dello stupido e adduce tutto alla stanchezza. Non è abituato a parlare così tanto con qualcuno: le sue conversazioni con l’infermiere sono solitamente monodirezionali, quel ragazzone non fa che raccontargli di come sia la vita fuori da quel posto, di cosa stia succedendo nel mondo o, semplicemente, fuori dalla sua stanza.
Furihata, per un attimo, lo accusa di averlo portato ad un simile livello di insofferenza e si domanda del perché abbia detto quelle cose ad Akashi. In fondo, sa quanto egli stia soffrendo quella situazione e quanto sia faticoso per lui rimanergli a fianco. Cosa crede? Che basterà parlare della sua morte così serenamente per rasserenarlo? Quello che ha detto, in fondo, un po’ lo pensa. Prova imbarazzo nei confronti di Akashi che, per lui, ha fatto così tanto; gli è stato accanto fino all’ultimo, senza mai chiedere in cambio qualcosa. Lui, invece? Lui cosa ha fatto per Akashi?
A ben guardare non c’è nulla che possa corrispondere ad una simile quantità di tempo ed energie. Gli occhi pieni di amore di Akashi non verranno mai corrisposti completamente. Furihata sente gravare sul proprio corpo il peso della sconfitta e dell’umiliazione. Non è riuscito a dargli nulla che già non avesse: non lo ha amato abbastanza. I suoi sentimenti non sono mai riusciti a sollevarlo dalle fatiche lavorative o da dubbi esistenziali, sono stati fin troppi semplici e basati sulla quotidianità.
Alza gli occhi, inumiditi, e li sposta lentamente verso Akashi. Si sente definitivamente sconfitto e lascia che questi lo stringa dolcemente a sé lascia trascinare dolcemente in un abbraccio. Da quanto tempo era che non si toccavano così? Furihata riesce a sentire i battiti lenti e tranquilli del proprio compagno vicino al suo orecchio; sono lineali, perfetti – e questo sembra quasi rassicurarlo. Si era ormai abituato a ricordare quel tepore come un qualcosa di lontano, di cui non avrebbe più potuto goderne. Akashi gli passa una mano fra i capelli e si ferma ad ascoltare quel respiro leggero e veloce proveniente dall’altro corpo.
Lo sente così lontano da sé, avvolto da chissà quale consapevolezza che lui non riesce proprio ad accettare. Non può farci nulla. Furihata ormai non è più raggiungibile: non potrà più tirarlo a sé e rassicurarlo che tutto andrà bene. Si coprirebbe di ridicolo e probabilmente si verificherebbe di nuovo una scenata simile; ma che altro potrebbe fare lui? Si sente così in debito nei suoi confronti e non riesce nemmeno ad immaginare la sua vita senza averlo accanto. La presenza di Furihata affonda le radici in una tenera quotidianità: nello scambiarsi sguardi, nel rimanere in silenzio mentre si mangia, nello sfiorarsi dolcemente le mani e baciarsi le guance rossastre. Akashi sente che nel proprio corpo qualcosa sta morendo assieme all’altro, giorno dopo giorno. E non può accettarlo.
« Ti ricordi … Ti ricordi quella poesia che mi hai recitato quella volta? Ora io … Io non ricordo quando successe. Forse tre, quattro anni fa. Eravamo ancora fidanzati, forse. Non ricordo nulla di quel giorno. Però … Però quella poesia è rimasta stampata nella mia testa » Furihata parla lentamente eppure le sue parole arrivano perfette all’orecchio di Akashi che rimane in silenzio per ascoltare quell’ultima sua richiesta. « La reciteresti ancora per me? »
Il lieve cenno d’assenso dell’altro lo fa sorridere appena ed appoggiare di nuovo il proprio orecchio sullo sterno, tornando ad ascoltare i suoi battiti cardiaci. Kouki sorrise – sereno – mentre stringe la mano di Akashi e lascia che sia il calore dell’altro ad avvolgerlo; pensa che, in quel momento, sia la miglior medicina che gli sia stata prescritta. Si scusa mentalmente con l’infermiere per avergli dato la colpa di quel breve litigio e rimane ad osservare i capelli rossastri dell’altro che gli si affollano davanti agli occhi come un dolce velo. Akashi gli dedica un'occhiata che non riesce a decifrare come vorrebbe, ma non ci fa caso, preso com'è da quel battito che sente lentamente fluire nelle sue vene rendendolo più vivo che mai.
 
« Il tempo non può staccare l’ala dell’allodola dall’allodola,
l’allodola e l’ala insieme
cadono una piuma sola,
nessuna cosa che abbia volato
né l’allodola né te
può morire come gli altri. »

 
 
~Il Mughetto dice~
Veramente non è un granché.
Mi ero ripromessa di scrivere qualcosa di più allegro e leggero per questa coppia; ma la verità è che mi piace molto la chiave angst con cui sono solita interpretare le loro vicende. L’AkaFuri è una coppia che mette insieme due individui dal carattere più disparato e differente, eppure non riesco a considerarla come crack. A mio parere, questa coppia ha un fottuto senso. C’è qualcosa in loro che mi spinge a considerarli uno fatto per l’altro – forse è colpa delle doujinshi o delle fanart. Mi piace il modo in cui potrebbero relazionare e come si potrebbe sviluppare la loro storia.
Sebbene Kouki possa essere un personaggio secondario che si perde benissimo nel polpettone della storia, affianco ad Akashi acquista immediatamente un certo spessore e carattere. Diventa più dolce, timoroso, ma anche testardo e scorbutico. Lo vedo sorridere spesso in direzione d Akashi e penso che la loro quotidianità sarebbe piena di tenerezza e strane gang.
D’altra parte, Seijuro, in compagnia di un simile individuo, sarebbe costretto ad adattarsi e lasciare che l’altro un po’ lo guidi e lo accompagni nella sua vita senza mai intrufolarsi troppo insistentemente nella sua storia. Anche lui si addolcirebbe molto in sua presenza e, probabilmente, cercherebbe di dedicargli quel minimo di attenzioni e affetto per farlo sentire amato.
Ho deciso di scrivere una storia così triste perché mia madre mi ha fatto vedere – DI NUOVO – “Autumn In New York”. La poesia sull’allodola mi ha sempre colpito molto a, tal punto, che ho deciso di far terminare la shot in questa maniera; e, nonostante il genere di film sentimentale non mi piaccia un granché, sono dell’opinione che la pellicola sia abbastanza meritevole. Spero che la storia vi sia piaciuta e non vi abbia fatto venire il latte alle ginocchia.
Grazie per aver letto!
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