Un mese di tè
C A P I T O L
O U n
i c o
“ Un mese di
tè
„
Di
sicuro la pioggia non era la sua condizione climatica preferita, ma il
tempo iniziava realmente a scarseggiare e lui doveva sfruttarne ogni
ritaglio per potersi recare in biblioteca al fine di ottenere un po' di
pace durante lo studio della sua tesi di laurea.
Cinque anni di architettura erano stati lunghi ed interminabili, ma ora
era contento di essere arrivato finalmente al termine di quella folle e
disperata corsa – che sperava con tutto il cuore di
concludere
nel migliore dei modi.
Spilli d'acqua continuavano a battere sulle sue spalle e sulla sua
testa coperta dal solo cappuccio della felpa – probabilmente
era
il terzo ombrello del mese, quello che aveva appena perduto –
e,
per quanto stesse correndo con tutte le sue forze verso la fermata
della metropolitana, quell'incessante acquazzone iniziava a risultare
un po' troppo aggressivo e pressante per poterlo sopportare
più
a lungo di così.
D'improvviso scorse le porte in vetro di un bar in stile londinese alla
sua destra e, senza pensare troppo a lungo a quale altra alternativa
potesse avere, ci si fiondò dentro di tutta fretta.
Respiri affannati accompagnarono la graffiante sensazione che sentiva
in gola per via dell'estenuante corsa che l'aveva ormai piegato su se
stesso – costringendolo a chinarsi appena, appoggiando le
mani
sulle ginocchia per sorreggere la sua stanchezza.
Sguardi indiscreti si posarono sulla sua figura completamente fradicia,
ma Hiccup non se ne curò più di quanto avrebbe
fatto
qualcuno di più permaloso di lui – dopotutto non
poteva
negare che la sua entrata in scena, in quelle condizioni per di
più, potesse indubbiamente catturare l'attenzione anche del
meno
curioso.
Ritirandosi in su con la schiena ed emettendo l'ultimo profondo
affanno, cercò di ritrovare un po' più di
contegno nella
sua presenza – anche se gli abiti bagnati non si sarebbero
asciugati alla stessa velocità –, abbassandosi
successivamente il cappuccio sulle spalle e scuotendo leggermente i
suoi castani capelli – tra i quali si potevano intravedere
due
piccole treccioline.
Si avvicinò allora al banco dei caffè, dove il
barista
che vi stava dietro tentava di trattenere un innocente sorriso nel
mentre che lo guardava.
«E' un problema... Se mi siedo così?»
gli
domandò con ancora un po' di ingestibile dispnea nel tono di
voce.
L'uomo – sulla quarantina, ad occhio e croce – nel
mentre
che continuava ad asciugare il bicchiere che aveva in mano, gli
riservò un ampio sorriso scuotendo la testa – il
baffetto
scuro che sovrastava le sue labbra gli conferiva un aspetto tipico del
sud Italia.
«Scegli pure il posto che vuoi» si
limitò poi a
rispondergli – con un'aria che Hiccup non sapeva se definire
più simile a quella di un confidente di fiducia, o di un
uomo di
mondo che ha deciso di prenderti sotto la sua ala. Ricambiò
tuttavia il sorriso, dirigendosi dunque verso un tavolo vuoto appena
affianco alle postazioni con i divanetti attaccate alla vetrata del
locale.
Abbandonando con noncuranza il suo zaino di stoffa beige sulla sedia
vicina, si accasciò su quella che aveva riservato per lui
– sciogliendosi completamente sul piano freddo del tavolino.
Ricomponendosi subito dopo, prese in mano il menù in carta
riciclata che si era ritrovato sotto le mani, non prestandoci
però una reale attenzione, dato che la sua scelta era certo
sarebbe ricaduta su un semplice caffè al ginseng.
Un cameriere dall'aspetto straordinariamente simile all'uomo di prima
al bancone, si avvicinò a quel punto al tavolo accanto al
suo
– con un vassoio sul quale erano poggiati una teiera d'acqua
calda fumante, una tazza e una decina di bustine di tè.
Si accorse solo allora della ragazza che gli sedeva vicino, ai
divanetti adiacenti alle ampie finestre; una giovane dall'aspetto non
troppo distante dal suo – avrà avuto probabilmente
un paio
d'anni in meno e neanche –, con una pelle talmente liscia da
risultare irreale, costellata da fini lentiggini solamente sul suo
piccolo naso dalla linea morbida. Folte ciglia, lunghe e nere, facevano
da contorno ad un paio d'iridi che parevamo zaffiri fusi e iniettati
con forza in quegli occhi dal taglio grande e affusolato –
espressivi come pochi ne aveva visti fino ad allora –, ma la
cosa
che più lo colpì di lei, furono i suoi capelli
coloro
oro, talmente brillanti da sembrare una cascata di
preziosità
tessuta in fili aurei e incredibilmente surreali. Li teneva legati in
un'acconciatura particolare, che si intrecciava lateralmente in una
trama complessa e articolata – ed erano straordinariamente
ordinati, in quel risultato che teneva la lunga chioma allacciata in se
stessa.
Il cameriere le porse teiera e tazza, chiedendole al ché di
scegliere la bustina che più preferisse, e le cose a quel
punto
divennero interessanti. La biondina prese infatti uno di quei piccoli
pacchetti senza prestare troppa considerazione a quale sarebbe stata la
scelta migliore per gustarsi un caldo momento in una giornata uggiosa
come quella, ma non fu certo il suo disinteresse a riguardo, a
richiamare l'attenzione di Hiccup.
Dopo aver ringraziato con un dolce sorriso il cameriere, probabilmente
la logica avrebbe voluto vederla versare l'acqua nella tazza e
inzuppare il filtro di foglie di Assam e Camellia, ma i susseguimenti
furono invece altri; dopo aver riempito la tazza, la ragazza
aprì infatti la borsa che teneva vicino a lei, per poi
inserire
dentro la bustina di English
breakfast ed estrarne un'altra – aprendola e
utilizzando dunque quella.
La lasciò affogare per non più di dieci secondi
–
immergendola ripetutamente per esattamente sette volte – e,
subito dopo, con quasi una certa fretta addirittura, la estrasse per
poggiarla nel piattino della teiera.
Hiccup si lasciò sfuggire un nota di divertimento nel suo
sorriso, ma fortunatamente lei non se ne accorse, continuando la
composizione di quella che sembrava essere la procedura perfetta per
ottenere il tè di suo gusto – aggiungendo due
bustine di
zucchero di canna.
Curiosa. Pensò semplicemente che fosse curiosa sia nel suo
aspetto, che in quella che poteva pensare essere una sua piccola
abitudine.
Cercò di scorgere il nome della bustina che aveva
utilizzato;
era viola, ma le scritte erano troppo piccole per poter essere
decifrate.
Il giorno prima Hiccup non aveva fatto caso a quale fosse il nome del
bar, ma la mattina successiva si ritrovò ad osservare lo
zerbino
d'accoglienza che riportava la stampa Binario 11
– esattamente come la dicitura bianca impressa in Georgia sul vetro
della porta.
Varcò nuovamente quell'entrata, alla stessa ora
della prima volta – e non sapeva con precisione
perché fosse
ritornato lì ancora, ma doveva ammettere che il
caffè di
quel posto era davvero ottimo.
«Oggi vestiti asciutti, ragazzo?» si
sentì interrogare con simpatia sull'istante.
Incurvò la linea delle sue labbra al solito barista
–
nonché colui che gli aveva appena rivolto la domanda e
probabilmente proprietario del posto – e si
avvicinò
dunque al banco dietro al quale era intento ad asciugare un bicchiere
– uguale a quello del giorno precedente, tanto che la scena
risultava agli occhi di Hiccup assolutamente identica, come se non si
fosse mai interrotta.
«Il Sole oggi ha graziato il mio viaggio in
biblioteca» gli
rispose una volta davanti a lui e appoggiandosi sul piano in marmo nero.
Una piccola risata scappò dalla bocca dell'uomo –
e la sua
dentatura era straordinariamente simile anch'essa a quelle tipiche
degli uomini dell'Italia meridionale, probabilmente doveva avere
ramificazioni parentali collegate a quella terra, o doveva addirittura
essere la sua d'origine.
«Cosa studi?» indagò per circostanza
– o per
reale interesse, Hiccup non seppe dirlo, ma tutto sommato non gli
dispiaceva il uso interesse nei suoi confronti e degnarlo di una
risposta lo trovava sinceramente opportuno.
«Architettura, sono alle prese con lo studio della tesi ora.
Tra
un mese mi lancio in piazza» ironizzò sul vero, e
altrettanto ironica e divertente fu la replica di Ben –
così doveva chiamarsi il barista, vista la targhetta dorata
di
riconoscimento che portava a sinistra sul petto – che
simpaticamente punzecchiò la realtà
più popolare
del loro periodo.
«Perfetto, così potrai iniziare la tua carriera di
lavapiatti qui da me».
Nel tanto che la sua mente raggiunse tristi lidi lontani –
che
riguardavano la fastidiosa e preoccupante crisi economica mondiale
–, Hiccup abbozzò un satirico e amareggiato
sorriso che
sottolineava la sua più completa concordia su quella
provocazione sarcastica.
«Vado prender posto allo stesso tavolo di ieri»
disse poi,
scambiandosi un ultimo sguardo complice con Ben e allontanandosi.
Non sapeva come fosse possibile, ma quell'uomo – per quanto
fosse
solamente la seconda volta che lo incontrava – era in grado
di
avere una notevole influenza sul suo umore e sul suo sentirsi a suo
agio lì dentro – avvertiva chiaramente una
sintonia che,
anche quella volta, glielo aveva fatto sembrare una specie di titolare,
uno di quelli confidenziali, uno di quelli con cui potevi sentirti
socio e collaboratore, e non schiavo/dipendente.
Risedendosi dunque allo stesso posto del giorno prima, ripercorse con
gli occhi con nullafacenza il pavimento a scacchi neri e bianchi,
finché non si ritrovò catturato dalla presenza di
qualcuno accanto a lui – in un punto preciso del locale.
Era la ragazza della volta scorsa e, esattamente come l'aveva lasciata,
se ne stava ancora silenziosamente in disparte a scorrere il dito sul
tablet che aveva poggiato sul tavolo. Ancora, i suoi capelli erano
raccolti in una complessa e al tempo stesso morbida treccia che non
poteva fare a meno di pensare le donasse particolarmente –
come
se nessun'altra acconciatura avrebbe saputo renderle più
giustizia di così.
Poggiò una guancia sulla mano – sorreggendosi col
gomito
sulla superficie del suo tavolo – e rimase a guardarla senza
preoccuparsi di cosa avrebbe potuto pensare se solo si fosse girata e
si fosse riscoperta osservata in quel modo decisamente inappropriato,
da parte di uno sconosciuto quale era lui, ma i suoi occhi erano
incollati sullo schermo dell'aggeggio elettronico che teneva al suo
fianco e, per quanto difficile fosse riuscire a capire cosa stesse
leggendo, l'impostazione stilistica e grafica di quella pagina fatta di
milioni di piccoli pixels, lasciava intendere si trattasse
probabilmente di qualche eBook.
Il cameriere che l'aveva servita anche la volta precedente, a quel
punto, si avvicinò al suo tavolo e le porse anche in
quell'occasione una teiera riempita di acqua calda, una tazza e le
domandò di scegliere una delle bustine di tè che
le stava
offrendo. Come un dejavù, Hiccup si ritrovò a
rivivere la
stessa scena, nella quale lei prese uno di quei piccoli pacchetti
– continuando a non mostrare interesse per quella scelta
–
e lo infilò nella sua borsa, la stessa dalla quale estrasse
successivamente un altro filtro – ancora una volta, contenuto
in
un pacchetto viola.
Cercò di assottigliare meglio la vista, sinceramente
incuriosito
da quale potesse essere per lei il tè delizioso al punto da
portarselo dietro in sostituzione di quello del bar – come se
nessun altro gusto fosse in grado di equiparare quello, come se al
mondo non potessero esistere note più squisite di quelle, da
rilasciare in una tazza d'acqua calda.
Una, due, tre, quattro, cinque, sei e sette inzuppate – per
un
totale di dieci secondi esatti scanditi dall'orologio che Hiccup aveva
al polso – e l'intruglio finì così il
suo bagno,
per poi venir depositato sul piattino della teiera a prosciogliere la
sua colorazione rossastra sul bianco della ceramica di questo.
Gli scappò un sorriso nel rendersi conto di aver appena
assistito a quella che pareva essere allora una consuetudine per lei,
ma prima che potesse continuare a studiare i suoi movimenti che
strappavano e versavano un paio di bustine di zucchero di canna a
completare il tutto, la figura di un secondo cameriere gli si
parò davanti, chiedendogli quale fosse la sua ordinazione e
portandogliela pochi minuti dopo.
Finito il suo caffè, Hiccup lanciò un'ultima
occhiata
alla ragazza – ancora completamente assorta nella sua lettura
sul
tablet – per poi recarsi al banco e pagare la sua
consumazione.
Probabilmente la cosa sarebbe dovuta finire con lo scambio di denaro,
resto e scontrino, ma qualcosa dentro di lui continuava a suggerirgli
indistintamente che la sua curiosità doveva trovare una
risposta, anche vaga, alla domanda che si era posto appena accortosi
che quella testolina bionda era lì anche oggi, alla stessa
esatta ora del giorno prima.
«Chi è lei?» si azzardò
dunque a chiedere con riservatezza a Ben.
Col suo solito bicchiere passato e ripassato nello straccetto tra le
mani, Ben rivolse una fugace occhiata alla diretta interessata, per poi
abbozzare un ampio sorriso – bianchissimo, illuminante, e
ancora
una volta Hiccup si ritrovò a pensare a quanto quel
dettaglio
contribuisse ad accostare l'uomo all'aspetto fisico di quelli del sud
Italia. Aveva visto diversi film ambientati nella calda Sicilia, e Ben
pareva assurdamente essere uno di quegli attori appena uscito dalla
pellicola.
«So solo che si chiama Astrid e che viene qui tutti i giorni
alla
stessa ora, niente di più» gli rispose dunque.
Hic strinse le labbra tra loro, fino a risucchiarle e farle sparire tra
i denti. Improvvisamente non fu più così sicuro
di quella
sua uscita verbale, tanto che dell'imbarazzo iniziò a
colorare
le sue guance senza che lui potesse fare nulla per impedirlo
– e,
insensatamente, sperava che la massiccia presenza delle sue lentiggini
potesse mascherare quella tonalità lievemente rossiccia.
«Prende sempre del tè caldo»
osservò Ben,
come se se ne fosse reso conto solo in quel momento, «e non
l'ho
vista usare mai una volta i nostri filtri. Ne porta sempre dietro uno
suo».
«Ed è un problema?».
«No, affatto. E' molto silenziosa e ordinata, solitaria. E ha
un bellissimo sorriso».
Non sapeva spiegarsene il motivo, ma quella puntualizzazione Hiccup la
ricevette più come una raffinata provocazione nei suoi
riguardi
per vedere che reazione potesse suscitare in lui – e per
quanto
fosse stata fatta con simpatia e gialla investigazione, la maledisse
per averlo costretto a scuotersi nervosamente i capelli con una mano.
«Che tè è quello che porta sempre con
sé? E'
sempre la solita bustina viola di ieri e oggi?»
deviò
dunque la piega del discorso, rifocalizzandola sull'argomento
antecedente.
Percependo chiaramente il tentativo, Ben sorrise ancora senza indagare
ulteriormente sulle sue motivazioni di interesse per quella ragazza,
limitandosi dunque a rispondere semplicemente a quella banale domanda.
«Sì, è sempre la stessa bustina, ma non
ho idea di come si chiami o a quale gusto sia».
Probabilmente Hiccup non avrebbe voluto fare così tante
domande
a una persona che non sapeva assolutamente chi fosse e su una ragazza
che non conosceva nemmeno minimamente, ma ogni loro frase sembrava
nascere in maniera così automatica e confidenziale che
dentro di
sé continuava a domandarsi per quale motivo si trovasse
così tanto a suo agio con il responsabile di un bar che
aveva
iniziato a frequentare da appena due soli giorni – ma non gli
dispiaceva affatto, però, quel feeling ricucito sul quel
loro
bislacco rapporto, tanto che, nonostante tutto, probabilmente sarebbe
ritornato anche il giorno dopo.
Il pavimento del Binario 11 aveva esattamente duecento ottantaquattro
mattonelle nere e duecento ottantatré bianche – le
aveva
contate, in quelle due settimane di attiva frequentazione nelle quali,
più che prendere un caffè seduto al suo solito
tavolo,
non sapeva cos'altro fare – e, una nota di
curiosità lo
aveva spinto a domandarsi se i suoi calcoli, secondo i quali aveva
dedotto il numero esatto di mattonelle nascoste dal bancone, fossero
esatti come supponeva.
Lasciò scivolare la sua postura lungo la sedia, fino a farsi
sorreggere completamente le spalle dallo schienale della stessa
–
emettendo un profondo respiro ad occhi chiusi rivolti al soffitto.
Era ancora lì intanto, lei; lei che lo aveva incatenato in
quel
posto senza che nemmeno lo sapesse – o così gli
piaceva
credere, per quanto fosse molto più probabile ipotizzare che
si
fosse accorta, in realtà, della sua costante presenza pochi
tavoli più in là, ma sembrava così
intensamente
rapita da quella lettura di cui ancora non conosceva il nome, che
Hiccup aveva deciso di cullarsi della presunzione di non aver dato
nell'occhio.
E così continuava a recarsi lì, alle undici in
punto
della mattina, a bere un piccolo sorso di caffè al ginseng
seduto su quella sedia – a farsi prendere visivamente in giro
da
Ben, che non mancava di scambiargli occhiate allusive capacissime di
farlo sentire simpaticamente uno stupido che rincorreva
l'impossibilità di riuscire a diventare più
aperto e
sicuro di sé, di avvicinarsi a quella ragazza che ora sapeva
chiamarsi Astrid.
In fondo, però, doveva ammettere di non sapere come si fosse
ritrovato così tanto coinvolto da quel principio di
curiosità innestatosi nella sua testa giorni e giorni prima,
da
quella briciola di interesse che lo aveva spinto a trovare bizzarra e
al tempo stesso interessante l'abitudine di Astrid di fare sempre la
stessa ordinazione – per poi caratterizzarla con il suo tocco
personale quale era la sua bustina di tè che ogni volta
tirava
fuori dalla borsa, quella bustina di tè viola il cui filtro
lo
stava sinceramente facendo impazzire con la colorazione forte e intensa
che rilasciava nell'acqua bollente, ma che non era capace di
suggerirgli né odore né sapore.
Una serie di eventi che lo aveva portato, infine, a trovare tutto
così tanto curioso e stimolante da essere arrivato a
considerare
se stesso un completo incapace e un perfetto idiota, per essersi
innamorato di qualcuno di cui non conosceva né voce
né
personalità – e non riusciva a fare a meno di
rimproverarsi, per essere caduto nella ragnatela che da solo aveva
tessuto, un po' per gioco un po' inerzia. Ma lo sentiva, l'amava,
l'amava per quel suo piccolo naso lievemente rivolto
all'insù,
l'amava per la profondità di quei laghi artici che erano i
suoi
occhi – acqua gelida con infinite sfumature del cielo a
riflettercisi dentro, a creare contrasti di freddo blu e tenue celeste
in costante conflitto di prevalenza l'uno sull'altro. Amava quel
piccolo vizio di portare l'indice e il medio dietro all'orecchio, come
se ci stesse trascinando fastidiose ciocche di capelli che, in
realtà, erano ottimamente in ordine in quell'acconciatura
laterale – perfetta ogni giorno più di quello
precedente,
come se fosse la natura stessa a intrecciare ogni volta i suoi fili
lucenti e dorati.
Gli piacevano le trecce; gli piacevano così tanto che erano
anni, ormai, che portava costantemente quelle piccole due nella sua
chioma – e la banalità che le aveva fatte nascere,
la noia
che lo aveva spinto in quel pomeriggio di un'afosa estate a sdraiarsi
sul letto ad articolarle nel mentre che guardava il nulla, piuttosto
che studiare, ancora lo ricordava.
Iniziò a giocherellarci, nel mentre che osservava, ancora
una
volta, l'ordinazione di Astrid giungerle al tavolo; teiera e tazza
poggiati sul tavolo, una bustina scelta a caso, un sorriso di cortesia
ed eccola estrarre, come al solito, il consueto pacchettino viola dalla
borsa – con annesse abituali sette inzuppate.
Ci provava ogni volta, ad assottigliare la vista per cercare di
scorgere – e soprattutto capire – la scritta bianca
impressa sulla carta viola, ma per quanto vicini fossero, a quanto
pareva non lo erano abbastanza affinché il nome di quel
tè – che ormai era diventato per lui un peccato di
gola
irraggiungibile – gli risultasse chiaro e leggibile.
Giorno dopo giorno, Hic continuava a presentarsi al Binario 11 puntuale
come mai lo era stato nemmeno per gli esami e per le lezioni
universitarie – e il rendersene conto lo ricopriva di una
certa
ansia, considerati i pochi giorni che ormai mancavano alla data della
sua tanto sudata laurea. Non riusciva però a fare a meno, di
quel suo appuntamento che si era dato da solo con Astrid –
senza
che lei ne fosse a conoscenza, anche se ci partecipava inconsciamente
ogni volta – e la mancanza di risultati in quel suo
rincorrerla
in maniera tanto improduttiva e sterile, non aiutava affatto quel suo
sovreccitato periodo che aveva deciso di caricare anche di
quell'impegno – di quell'imprevisto che in fin dei conti
aveva
strategicamente calcolato. Eppure poteva continuare a pensare quel che
più preferiva a riguardo; che fosse un'assurdità,
che
fosse capitato nel momento sbagliato, che fosse tutto a suo sfavore
– perché dubitava che tutta quella impacciata
costruzione
giovasse alla sua figura e reputazione –, ma, a forzata
scongiura
di tutti i lati negativi del suo comportamento, Hiccup non riusciva a
fare a meno di smettere di recarsi lì ad aspettare che il
destino iniziasse a gonfiare le sue vele – senza muovere un
muscolo, senza sforzarsi più di così.
Ben non mancava di dedicargli frecciatine visive che Hiccup si
ritrovava costretto a subire ogni volta, e si sentiva così
vittima di quel sistema che aveva tirato su lui stesso, da vergognarsi
di essere semplicemente un singhiozzo in una situazione che sapeva di
non essere in grado di gestire fin dall’inizio.
Non smise mai di recarsi lì, però,
perché per
quanto ci avesse pensato, qualche volta, l’idea di saltare
anche
solo un giorno – di mancare anche solo una timbratura sul suo
invisibile carnet – gli sembrava una decisione sconsigliabile
ancor più di prendere seriamente in considerazione la
possibilità di smettere di frequentare il Binario 11
– di
smettere di frequentare astrattamente Astrid – e,
trascinandosi
così dietro il peso di una scelta che preferiva ignorare, le
giornate che fino ad allora lo avevano distanziato
dall’incontro
con la sua laurea, si ridussero a una. Una soltanto.
L'ordinazione finalmente arrivò e il suo caffè
tornò, come ogni giorno, a rilasciargli la sua fumante aroma
sotto al naso – e solo in quel momento, Hiccup, si rese conto
di
un qualcosa che scattò nella sua mente come una razionale ma
elettrizzante scintilla.
Rimase immobile con gli occhi puntati sul liquido scuro e cremoso
all'interno della tazzina in ceramica bianca che aveva davanti; erano
passati esattamente trentuno giorni da quanto aveva iniziato a fare il
conto alla rovescia per l'arrivo della data in cui si sarebbe tenuto il
suo esame finale – dal giorno che aveva messo per la prima
volta
piede dentro al Binario 11 – ed erano esattamente trentuno i
giorni che aveva dedicato allo stare accanto a quella ragazza dal nome
tanto inusuale almeno quanto il suo.
Un mese di lei, un mese
di tè. Un
mese del suo incognito tè di cui non era riuscito a scoprire
null'altro oltre al colore della sua busta e alle sfumature che
acquisiva l'acqua calda nella quale veniva intinto il suo filtro. Solo
questo, niente di più – ma quel pretesto lo aveva
portato
a scoprire molto più di un semplice nome elaborato e
stampato da
una qualche azienda produttrice di tè e miscele. Astrid era
solita usare sulle unghie delle mani uno smalto della stessa
tonalità porpora della sua bevanda. Astrid sembrava non
amare
particolarmente i capelli sciolti – ne era probabilmente
insofferente, addirittura, a giudicare dalla sua abitudine a cadenza
regolare di riavvolgere dietro l'orecchio ciocche che in
realtà
non avevano mai osato sfiorarle il volto. Astrid aveva le sopracciglia
esattamente di due gradazioni più scure rispetto all'oro
predominante della sua chioma. Astrid aveva un incisivo centrale appena
più sporgente dell'altro – ma questo, a suo
avviso, non
penalizzava in alcun modo il suo sorriso, a contrario, lo
caratterizzava. Astrid era quanto di più umanamente
comparabile
alle acque degli oceani più incontaminati – degli
oceani
più puri e limpidi, più sani e vivi,
perché i suoi
occhi erano un'immensità di riflessi indistinguibili,
abbaglianti e splendidi, esattamente come la superficie dei mari,
esattamente come tutta l'incommensurabilità che il cielo ci
rovesciava sopra.
Sorrise nel rendersi conto di quanti suoi dettagli avesse studiato e
assimilato, e di sicuro il suo preferito era il delizioso rossore del
quale le goti di Astrid si intingevano sempre,
dopo aver bevuto il suo tè – e adorava come questo
riuscisse ad addolcire ancor più i suoi già fini
e
delicati lineamenti.
Erano esattamente trentuno giorni che si sedeva lì, in quel
punto preciso del bar, in quella sedia in particolare e a quel tavolo
specifico. Con gli occhi ancora incollati sul suo caffè,
trovò ridicolo come si fosse concentrato e immerso tanto
nell'impresa di scoprire quale fosse il tè che Astrid era
solita
portarsi dietro per berlo lì al Binario 11 – e per
quale
motivo ne fosse così incantevolmente assuefatta da non
rinunciarci mai – perché, in fondo, ripercorrendo
rapidamente tutti quei paio d'ore che aveva passato ogni giorno
lì dentro, non ricordava di aver mai chiesto nulla di
diverso
dal suo caffè al ginseng – e questo lo reputava
assolutamente buffo, a conti fatti.
Non sapeva per quale motivo se lo sentisse, ma era certo di avere gli
occhi di Ben incollati su di lui in quel momento – e alzando
lo
sguardo, si rese conto di non aver sbagliato con la sua presunzione.
Per un qualche strano motivo, Hiccup si sentì come se
quell’uomo avesse guardato nella sua mente per tutto quel
tempo,
come se fosse a conoscenza di tutto quel che aveva pensato fino a quel
momento, come se avesse letto ogni sua emozione, ogni suo dubbio, ogni
sua curiosità – e non sapeva come classificare
questa
bislacca sensazione.
Ed ecco che gli rivolse un sorriso – uno di quei suoi soliti
sorrisi mediterranei – e Hiccup ricambiò
imbarazzato il
gesto, perché quella gli risuonò precisamente
come una
conferma alle sue supposizioni che Ben era come se avesse sempre avuto
e sfruttato la possibilità di insidiarsi nella sua testa per
osservare tutto – come uno spettatore al cinema, con tanto di
popcorn in mano. L'aveva avvertita fin da subito quella strana
connessione con lui e, per quanto piacevole fosse sentire che qualcuno
era in grado di capirti senza conoscerti davvero – con solo
uno
sguardo, con solo un gesto di solidarietà e qualche parola
–, percepì una nota d'imbarazzo accarezzargli il
volto,
costringendolo a sorridere più ampiamente e nascondere il
tutto
tra le mani.
Era tutto così folle e insensato che non sapeva
assolutamente
come reagire nemmeno con se stesso – e Ben andava oltre
l'umana
concezione, perché era sicuro non potesse essere terreno.
Rise ancora più, silenziosamente, divertito dai suoi stessi
e
insensati vaneggiamenti, finché non si decise a rivolgere
finalmente uno sguardo alla protagonista di tutto quello – al
soggetto di quella frase disarticolata che erano quei trentuno giorni
– e lei era ancora lì, Astrid era ancora
lì,
incurante di tutto ciò che le stava accadendo attorno,
apparentemente disinteressata ad ogni cosa che non riguardasse il suo
tè e il contenuto sul suo tablet.
Il solito cameriere le si avvicinò a quel punto, con il
consueto
vassoio con tazza, teiera e bustine di tè sopra. La classica
routine incominciò a prender piede, e dopo averle dato la
possibilità di scegliere il pacchetto che più
preferisse,
il ragazzo si allontanò per tornare nelle cucine.
Non sapeva per quale motivo avesse deciso di farlo – e chi
fosse
stato a spingerlo a compiere finalmente quel gesto di coraggio
–,
ma Hiccup si ritrovò improvvisamente in piedi sulle sue
gambe,
lontano dalla sua sedia, lontano dal suo tavolo, ad attraversare la
trentacinquesima mattonella bianca del pavimento, la trentaseiesima
nera e poi ancora la trentasettesima, per ritrovarsi, infine, davanti a
lei, ad una distanza che non si aspettava di ridurre fino a quel
minimo, tra di loro.
Per un secondo Astrid continuò a fare quel che aveva in
previsione di fare, riponendo dunque la bustina di tè del
bar
nella sua borsa ed estraendone di conseguenza fuori la sua, ma,
accorgendosi finalmente di lui, alzò dunque lo sguardo in
sua
direzione – bagnando le foreste delle iridi di Hiccup con
l'acqua
cristallina delle sue.
Continuando a guardarlo, movimenti istintivi la indussero a poggiare il
pacchetto viola del suo tè sul tavolo – e Hiccup
non
poté credere a quanto chiaramente gli apparissero ora quelle
scritte bianche in Times
New Roman.
Contrariamente a quanto aveva sempre supposto in tutti quei trentuno
giorni di agognante curiosità, quello che Astrid era solita
imbevere nell'acqua calda non era un tè, bensì un infuso. Un
infuso all'uva nera e fragola.
Nel trovare divertente quella
piccolezza – che a lui
appariva però molto più di questo –, cercò di trattenere
quanto più ordinatamente possibile un
mezzo sorriso, per poi ritornare a
guardarla negli occhi, per continuare a guardarla ancora lì
ad
aspettare di capire cosa lui potesse volere da lei – e non
gli
importava più, a quel punto, di vedere quella stranezza nel
suo
sguardo e nella sua espressione, perché ormai era
lì e
finalmente le avrebbe parlato.
«Ciao».
F I N
E
»
N O T E
A U T R I C E
;
Gh.
Gh gh. Non so cosa dire, NON SO COSA DIRE! Amo questa fanfiction, e a
costo di risultare superba e arrogante, non mi priverò il
diritto di dire che è la mia fanfiction preferita in
assoluto
– e non solo tra quelle che ho scritto io. x°
Mi piace da morire,
mi piace
l'idea, mi piace la scelta del titolo a doppio significato, mi piace
come l'ho strutturata, mi piace la cadenza tempistica che le ho voluto
dare... Mi piace! Mi piace e basta, e ci ho dedicato così
tanto
amore, interesse e cura, che spero proprio si sia percepito –
ogni singola riga, giuro, è intrisa della più
concentrata
attenzione al dettaglio, della più intensa valutazione sulla
scelta dei termini e di ciò che volevo trasmettere.
Io spero, spero con
tutto il cuore che vi possa essere piaciuta almeno quanto
piace a me – e quanto mi è piaciuto elaborarla e
scriverla.
Il Binario 11
è in
realtà un bar che esiste realmente qui a Milano, dove abito
io,
e trovavo il nome fin troppo carino per non riutilizzarlo –
così come trovavo fin troppo carino lo stile
londinese/Harrypotteriano del locale, per non ispirarmici.
Confidenzialmente – ma nemmeno troppo, visto che lo sto
scrivendo
pubblicamente. x° – devo confessare che l'idea
è nata
proprio durante un mio pomeriggio assieme a Mania trascorso al Binario
11; avevamo difatti ordinato entrambe un tè caldo ma, avendo
appena comprato un paio di scatole di tè, abbiamo preferito
usare i filtri una di queste piuttosto che quelli scelti per
l'ordinazione – e così ho iniziato a vaneggiare
col mio
cervellino fino a sviluppare l'idea che ha fatto sì che
questa
storia prendesse vita.
Tutte le bustine che Astrid sceglie in accompagnamento col
tè
– e che puntualmente infila in borsa –, avrei
voluto
avessero più significato di così, e per
un attimo ho
seriamente pensato di allungare il brodo inventandomi qualcosa a
riguardo, ma alla fine ho pensato anche che tutto avrebbe preso pieghe
sbagliate, distogliendo l'attenzione dal centro della storia
–
dal punto focale –, così, ho lasciato che
rimanessero
anonimamente di passaggio. x°
L'infuso che invece si porta da casa, quello all'uva nera e fragola, così
come il bar, esiste realmente anch'esso – ed è
tipo la
bevanda di cui mi sono drogata quest'inverno e di cui continuo a
drogarmi, di tanto in tanto, nelle giornatine più fredde
hahaha.
Provatelo, è davvero buonissimo e si reperisce facilmente in
qualunque supermercato.
Ben.
Parliamo di Ben, ora.
Questo personaggio in realtà non ha così
importanza come
ho lasciato intendere, ma ho pensato che dare parecchio spessore anche
ad un personaggio secondario, avrebbe reso tutto molto più
verosimile – oltre che più carino, o almeno credo.
In
realtà ha avuto quasi più consistenza lui di
Astrid, in
un certo senso haha, ma anche qui è stata una cosa premeditata – dato
che
Astrid l'ho volutamente raffigurata come una perfetta estranea per
tutto il racconto, essendo che è lei l'obiettivo da raggiungere e doveva
dunque
rimanere, nei limiti, distante.
Per quanto io abbia sottolinato diverse volte che Ben appare
fisicamente come un uomo presumibilmente siciliano – o con
comunque discendenze di quella terra –, non c'è un
vero
motivo per il quale io abbia voluto riproporlo così;
semplicemente – figurandolo istintivamente nella mia mente
– l'ho subito immaginato con tale aspetto, e così
ho
dunque voluto presentarlo.
Il fatto che il giorno successivo, alla fine di tutto, Hiccup dovesse
sostenere l'esame di laurea, è una cosa assolutissimamente
soppesata, e non solo perché ho voluto scandire bene lo
scorrere del tempo, ma anche perché ho voluto accostare due
importanti risvolti per la vita di Hic; riuscire a parlare ad Astrid e
ottenere appunto la laurea – e il primo ha avuto modo di esistere
soprattutto per via del secondo, dato che Hic, anche se non l'ho
specificato, spero si sia percepito abbia pensato una cosa tipo 'o la va o la spacca', come se fossero scesi tutti i granelli della clessidra non solo per l'attesa all'esame finale, ma anche con lei.
Bbbene, penso che sia tutto. Come ho già detto, mi stra
auguro
che la storia vi sia piaciuta – e se voleste lasciarmi un
commento, anche piccino, io potrei schizzare in aria fino a toccare il
cielo con un dito, davvero. x°
Nessun obbligo comunque, a vostra discrezione e buon cuore! Grazie
infinite, intanto, per le letture e alla prossima. ♡
©
a u t u m n
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