l'addio che mi aspettavo
L’addio
che mi aspettavo
Tenevo
stretti sotto il braccio i miei pochi averi ed ora mi accingevo ad andarmene. Avrei
lasciato presto quella casa alla quale mi ero ormai abituata e che mi era diventata
così familiare, tanto da esserlo più di casa mia.
Al
piano terra incrociai Tanneke che spazzava il pavimento. La guardai per un
momento mentre lei interrompeva il suo lavoro per ricambiare il mio sguardo. Non
dissi nulla e nemmeno lei parlò. Dopotutto sapevamo esattamente cosa stava
succedendo considerando anche che tra di noi non c’era mai stata molta
simpatia. Io me ne stavo andando da quella casa e lei sarebbe ritornata ad
essere l’unica serva fedele e onesta di casa Vermeer. La serva che sapeva stare
al suo posto, quella che non aveva insidiato il padrone sotto gli occhi della
moglie. Mi voltai per non dover più vedere lo sguardo accusatorio e vittorioso
di Tanneke e la sentii riprendere la pulizia del pavimento.
Dovevo
fare solo un’ultima cosa prima di andarmene da quella casa. Lo dovevo fare per
me stessa. Ero stata umiliata, avevo taciuto ed ora venivo scacciata
ingiustamente.
Salii
in fretta le scale e raggiunsi con circospezione la porta del suo atelier. Avevo
imparato a muovermi lesta e senza fare il minimo rumore. Era stato necessario
acquisire queste capacità poiché, fino al giorno prima, mi occupavo di pulire
il suo studio e questo compito richiedeva sempre la massima attenzione.
Ora
non avrei più dovuto preoccuparmene. Stavo per uscire per sempre dalla sua
vita. Ma non potevo semplicemente uscire di scena così. Ero diventata più forte
da quando ero andata a servizio a casa dei Vermeer. Più forte non in senso
fisico, anche se il lavoro mi aveva temprata parecchio, ma in senso
caratteriale. Avevo imparato a subire, ma adesso era giunto il momento di
dimostrargli quanto valevo, di fargli vedere quanto lui mi aveva cambiata e di
fargli capire che era solo colpa sua se ora non avevo più un lavoro; era solo
colpa sua se ora sarei stata per il resto dei miei giorni la moglie di un
macellaio.
Lui
era lì, nell’atelier. Ne ero sicura. Sicura come so che ogni mattina il sole si
alza nel cielo nonostante a volte sia coperto dalle nuvole.
Lui
era lì, nel suo mondo di colori e luci e ombre; mi stava aspettando. Ne ero
certa.
La
porta era socchiusa e in quel momento una scarica di adrenalina mi attraversò
il corpo.
Lui
era lì, a soli pochi passi da me. Solo una porta di legno ci separava. E allora
lo feci. Feci il medesimo gesto che avevo fatto il giorno in cui mi stavo
occupando della pulizia delle finestre del suo studio. Alzai il braccio destro
e accarezzai il ruvido legno della porta massiccia per scostarla leggermente. Questa
volta però non prestai attenzione a non fare rumore. La porta scricchiolò,
aprendosi appena, e una mano comparve sulla porta, vicinissima alle mie dita.
Non
mi spaventai: avevo percepito la sua presenza. Sapevo che lui era dietro quella
porta. Probabilmente mi stava aspettando. Feci scorrere le mie dita sul legno
della porta ma la sua mano me lo impedì. Con un gesto rapido e silenzioso, la
sua mano grande si posò sulla mia. Non mi allontanai. Non sarei di certo stata io
questa volta ad interrompere il contatto, tanto più che ora non avevo più nulla
da perdere.
Poi
improvvisamente la mia mano tornò libera e una forte luce illuminò il
corridoio. Mi sentii afferrare per un polso e venni trascinata nell’atelier
mentre la pesante porta si chiudeva alle mie spalle con un tonfo sordo.
La
luce di mezzogiorno illuminava lo studio e il mio doppio mi guardava,
posizionato al centro della stanza sul cavalletto.
Era
il dipinto più vero e bello che avessi mai visto. Non tanto perché mi ritraeva,
ma semplicemente perché sembrava dire ciò che io non avrei mai potuto spiegare
a parole.
Lui
se ne stava in piedi davanti a me e mi fissava. Distolsi lo sguardo dal dipinto
per dedicare a lui tutta la mia attenzione. Nonostante mi fossi rafforzata nel
carattere, non riuscii a trattenere il rossore che i suoi occhi grigi mi
provocarono quando incontrarono i miei e lui, ovviamente, se ne accorse.
Mi
regalò un mesto e semplice sorriso a mezza bocca. Poi mi disse: “Vorrei che tu
facessi un’ultima cosa per me, Griet, prima di andartene.” La sua voce era
profonda, roca e poco più alta di un sussurro.
Deglutii
e gli feci un lieve inchino per acconsentire. Era ancora il mio padrone.
“Chiudi
gli occhi” mi disse.
Non
mi stupii. Da tempo, con lui, avevo smesso di chiedermi il perché di certe sue
richieste e mi ero semplicemente adeguata.
Ubbidii
anche questa volta e chiusi gli occhi.
Per
un attimo non sentii nulla poi capii che lui si era fatto più vicino, così
vicino che potevo cogliere l’odore della sua giacca impregnata del profumo di
olio di lino. Poi, improvvisamente, colsi il suo respiro sul mio collo ed
infine le sue labbra si posarono sulle mie che si dischiusero appena, proprio
come nel dipinto.
Sospirammo
insieme a quel contatto e io capii che quello era il suo modo per dirmi addio,
un dolce e tenero addio.
Avrei
voluto che quel momento durasse tutta la vita perché era lì che volevo stare, nello
studio di un artista; e soprattutto era con lui che avrei voluto passare il
resto dei miei giorni, con il famoso pittore Johannes Vermeer. Ma questo non
era possibile e come tutto era iniziato, tutto improvvisamente finì.
Lui
si allontanò da me e si voltò a guardare il suo dipinto, il mio ritratto.
“Mi
dispiace.” Fu tutto quello che mi disse prima che io abbandonassi per sempre
quella maledetta casa che sarebbe stata perennemente nei miei ricordi.
Angolo
Mirty_92:
Un
piccolo esperimento su un libro che mi è piaciuto molto e una coppia che mi ha
fatto appassionare e commuovere. Spero vi possa piacere questa mia
interpretazione alternativa dell’ultima scena del film che, in realtà, vede
protagonisti, separati e distanti, Vermeer e Griet.
Buona
lettura.
A
presto!
Mirty
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