η.
Il
tempo aveva insegnato a Thomas Heisenhover che la pazienza era una
delle doti principali di un buon leader. A volte, però,
mantenere la
maschera di indifferenza e giovialità per cui il Ministro
era noto
si rivelava particolarmente difficile.
«Che
vuol dire, Beatrisa?». La sua voce vibrava di rabbia.
Nell’ufficio
spoglio e semibuio c’erano soltanto il Ministro, seduto
dietro una
scrivania con le dita intrecciate sulle ginocchia, e una donna. A
guardarla distrattamente la si sarebbe detta piuttosto un uomo basso
e tarchiato, con le spalle larghe e una muscolatura pronunciata sotto
la pelle cotta dal sole; portava i capelli cortissimi, a spazzola, e
il vestiario militare ‒ canottiera di tessuto termo-resistente,
pantaloni di feltro e anfibi ‒ trasmetteva un’impressione di
durezza confermata dallo sguardo deciso dei suoi occhi neri. Beatrisa
Zajitzeva era un soldato semplice nel dipartimento anti-contrabbando
dell’esercito di Fegith e uno dei luogotenenti più
spietati di
Thomas Heisenhover.
«Abbiamo
scoperto una spia nell’organizzazione». La sua
postura era rigida,
i pugni stretti «Il suo nome è Weike Sommer, un
pesce piuttosto
piccolo. Al dipartimento non mi occupo della sezione spionaggio, ma
mi è bastato fare un controllo approfondito
nei database
protetti della centrale per scoprire l’identità
della nostra
talpa. Vendeva informazioni all’esercito in cambio di soldi,
evidentemente quello che guadagnava con noi non gli bastava».
«Porco
ingordo». Thomas serrò le dita sul bordo della
scrivania «Dov’è
adesso? Sappiamo esattamente quante informazioni ha passato
all’esercito?».
Beatrisa
annuì.
«È
ancora vivo, ma abbiamo usato gli psicodroni per accertarci che non
si inventasse niente. Lo teniamo in un magazzino fuori
città, in
attesa dell’ordine di esecuzione».
Gli
psicodroni erano insieme un’infallibile macchina della
verità e
un’arma di tortura spaventosa. Venivano introdotti nel
cervello
attraverso le orecchie, il naso o i bulbi oculari, e potevano
tradurre i segnali elettrici inviati dai neuroni in informazioni
leggibili che scorrevano su uno schermo come un film: il dolore, per
chi subiva quel genere di interrogatorio, era
atroce, i danni
al cervello irreversibili. Il loro uso era severamente vietato a meno
che non si incorresse in circostanze limite ‒ la minaccia di un
gruppo terroristico ai danni dell’intera città,
per esempio ‒ ma
l’organizzazione di Thomas Redthorn era solita ignorare ogni
tipo
di regolamento.
Il
Ministro sorrise: chiunque fosse stato Weike Sommer, in quel momento
non doveva essere molto più che un vegetale.
«Quindi?
Cosa sappiamo?».
«Non
ha avuto tempo di passare informazioni rilevanti. Come ho
già detto,
lavorava ai piani bassi: ha causato un paio di arresti tra quelli che
smerciavano Progestal per strada, tutto qui. Da quello che ho potuto
vedere nel database, era l’unica talpa a disposizione del
dipartimento».
«Meraviglioso.
Sarebbe davvero molto sgradevole occuparsi dell’eliminazione
di
altre spie a due mesi dalla prossima consegna. In ogni caso voglio
che vengano intensificati i controlli, siate più
cauti… e fate in
modo che nessuno ritrovi il corpo di quel Wieke Sommer».
Beatrisa
annuì di nuovo, senza smuovere di una virgola i muscoli
mimici.
«Il
carico sul satellite Amaterasu è quasi pronto.
Arriverà a
destinazione senza intoppi».
◦○◦
Sapeva
di non avere tempo per pensare.
Con
le dita strette sul naso fino a far scricchiolare la cartilagine
saltò di lato una frazione di secondo prima che, annullata
in un
battito di ciglia la distanza che li separava, Joseph piombasse sul
futon. Ringhiando, ringhiando come un cane rabbioso.
«Joseph−»
provò, indietreggiando verso la porta che collegava la
camera da
letto alla zona giorno «Joseph, sono io. Sono Lienhard. Tu
non ti
rendi conto di quello che stai facendo». Nella sua voce c'era
una
nota isterica. I ferormoni del soldato erano capaci di attrarlo anche
se respirava soltanto con la bocca − organo
vomeronasale di
merda e adesso che cazzo mi invento non posso usare un braccio sono
nudo come un verme - e sapeva che se avesse trascorso troppo
tempo in sua compagnia non avrebbe più potuto fare
affidamento sulla
parte razionale del suo cervello. Il profumo dell'alfa era
intossicante, irresistibile.
In
quel momento si ricordò delle p'vorot.
Joseph
emise un verso che si collocava a metà tra un gemito di
frustrazione
e un basso brontolio, poi artigliò con la mandritta la
federa del
cuscino e la stracciò in un gesto che gettò
Lienhard in un vortice
di terrore gelido. Il soldato era più vicino di lui alla
porta del
bagno, era più forte e più veloce. Non sarebbe
mai riuscito a
raggiungere le p'vorot e a chiudersi dentro prima che l'altro lo
raggiungesse, e comunque sarebbe servito a poco: nel bagno c'era
un'unica finestrella, troppo piccola per permettergli di scappare, e
la porta era sottile.
«Vieni
qui, Leny». Quando Joseph parlò la sua voce era
quasi
irriconoscibile, un gorgoglio cupo e velenoso come il ringhio di una
iena «Ti prego, ti prego. Stai solo
rendendo le cose più
difficili, puttana bugiarda». La schiena tesa sotto il
tessuto di
una maglietta chiazzata di sudore, l'espressione a metà tra
la
ferocia incontrollata e un disappunto che scavò nelle
viscere di
Lienhard con il dolore metodico del senso di colpa. Non sarebbe
servito a niente, ma provò lo stesso a giustificarsi.
«Non
potevo dirtelo». Un passo indietro, poi un altro; il tavolo
della
cucina non troppo lontano, qualcosa dietro cui nascondersi.
«Mi
avresti denunciato. Per quelli come me c'è la condanna a
morte».
Deglutì, mentre Joseph si voltava lentamente −
ancora in ginocchio
sul letto sfatto − e i suoi occhi brillavano, fiamme fredde
nell'oscurità. «E anche perché non mi
avresti mai dato una
possibilità, da omega. Mi avresti etichettato... come una cosa
inferiore. E io non volevo».
Redthorn
scoprì i denti e fece un passo avanti, lo sguardo appannato.
Le
pupille dilatate sembravano voler inghiottire l’iride.
«E
perché non volevi?». Un passo avanti, i muscoli
del collo tesi fino
a scoppiare «E perché, Lienhard? Per evitare questo?».
Si
lanciò in avanti, abbrancando l’aria. Di nuovo lo
evitò, con una
mezza piroetta che lo mandò a sbattere con il fianco contro
il
tavolo ‒ «Ah, cazzo!». ‒ mentre Joseph scivolava
sul pavimento
e si aggrappava allo schienale di una sedia per non cadere. Si
ritrovarono a poco più di un metro di distanza, a fissarsi
dai lati
opposti del tavolo. Joseph ansimava pesantemente, chiazze rosse sulla
guance e sulla fronte, mentre Lienhard cercava di controllare il
tremito delle gambe e inghiottiva un rantolo terrorizzato dopo
l’altro.
È
più forte, non riuscirai a scappare. E dopo, quando si
sarà ripreso
e sarete Legati, ti odierà al punto da ammazzarti.
«Non
sei in te». Esalò, stringendo una sedia con la
mano libera «Joseph,
te ne pentirai. Non devi farlo. Trattieni il respiro per qualche
secondo, io sono sicuro che‒»
«Stai
zitto». Si chinò in avanti, uno
spostamento lento e
millimetrico «Se solo potessi sentire il tuo odore,
Leny… è come
se mi stesse chiamando». Socchiuse gli
occhi e inspirò a
fondo, con un viso che era quello Joseph e al tempo stesso non lo era
«Pensavo di essere strano, malato. E invece…
invece mi ero
soltanto fatto fregare dalle tue cazzate».
Il
connubio tra massicce dosi di testosterone e rabbia non era migliore
di quello tra fiammiferi accesi e nitroglicerina. Gli alfa, per
natura aggressivi, diventavano completamente incapaci di
controllarsi.
«Tu…»
non riusciva a concentrarsi, l’odore pungente di Joseph lo
riempiva
di brividi e sudore «… tu mi avresti trattato allo
stesso modo se
mi fossi presentato come un omega?».
No,
certo che no. Non
gli interessava la risposta
in sé, ma gli istanti di tempo prezioso che gli avrebbe
fatto
guadagnare: Joseph corrugò le sopracciglia, il suo sguardo
si fece
per un attimo più lucido in un impeto di concentrazione, e
Lienhard
ebbe il tempo di elaborare un’idea. Un’idea folle,
quasi
impraticabile per il suo corpo distrutto, ma che rappresentava
l’unica alternativa.
«Io
avr‒» Liberò il naso, trattenne il respiro e
agganciò il bordo
del tavolo con entrambe le mani. Lo rovesciò addosso a
Joseph prima
che avesse il tempo di finire la frase o di rendersi conto di quello
che stava succedendo, un grido galvanizzato tra le labbra arricciate.
Il soldato cadde a terra, intrappolato tra il bordo del mobile ‒
era pesante, di legno pieno ‒ e la sedia a cui si era aggrappato,
vomitando imprecazioni. A quel punto Lienhard prese l'unica sedia
rimasta in piedi e assestò un colpo non troppo
forte sulla
schiena di Joseph− se anche si fosse impegnato dubitava di
poter
fare davvero del male all'alfa, che emise un grido di dolore e poi
rimase immobile, boccheggiando, sul pavimento di assi. L'aria nei
polmoni cominciava a scarseggiare.
Barcollò
fino al bagno, urtando ogni spigolo possibile, e spalancò
l'armadietto dei medicinali con una forza che per poco non
fracassò
l'anta. Infilò una p'vorot con gesti affrettati, incamerando
una
boccata d'aria che sapeva − grazie alle due lune di Nenya -
di
niente, e, afferrata la seconda forcella, si
precipitò su
Joseph. Non poteva permettersi di esitare, ma le sue mani tremavano
come fuscelli mentre sollevava il viso del soldato −
«Maledetto
bastardo, maledetta puttana bugiarda...» − e
posizionava la
p'vorot. Il corpo del soldato sembrò sgonfiarsi, rilasciare
in un
colpo solo tutta la tensione accumulata.
Dopo
ci fu un attimo di quiete, in cui Lienhard crollò a terra ed
emise
un lamento − l'eco della disperazione, forse, o della paura.
Il suo
corpo appariva miseramente magro nella luce azzurrognola che lo
inondava dalle pareti vetrate, rivoli umidi tra le cosce e chiazze
arrossate dove il bacino aveva colpito il legno. Si sentì
svuotato,
debole.
Joseph
tossicchiò, facendolo sobbalzare.
Un
attimo dopo la sua voce − ed era veramente sua, stavolta,
morbida e
roca al tempo stesso − emerse dall'intrico di legno e stoffa
e
rabbia malamente imbrigliata. Come un riverbero stanco, scheggiato.
«Quindi
è questo che si prova,» mormorò,
abulico, le labbra a sfiorare
appena il pavimento «ad essere una bestia senza
controllo». Ogni
parola strappava via un pezzo di carne dal cuore di Lienhard, lo
divorava a poco a poco.
«Joseph,
perdonami, non vole−»
«Per
tutta la vita ho cercato di controllarmi, Lienhard. Di bloccare
questi impulsi disgustosi che sono la parte più vile
dell'essere un
alfa». Il professore vide il luccichio indistinto di quella
che
sembrava una lacrima sulle ciglia nere del soldato «E per
colpa
delle tue bugie ho tirato fuori il peggio di me».
Si
coprì il viso con le mani, Lienhard, per non guardare il
corpo
sconfitto di Joseph e la luce incantevole delle lune, per non
guardare il tavolo rovesciato e il groviglio di coperte sul pavimento
della camera da letto. Stavolta non c'era nessuno a salvarlo dalle
conseguenze dei suoi errori, a ricucire le ferite da cui fiottava
sangue amaro di senso di colpa.
Rimasero
entrambi immobili, respirando piano, senza sapere esattamente cosa
stessero aspettando.
Fu
Joseph, quasi un'ora di silenzio più tardi, a parlare.
«Quando
hai scoperto di essere un omega?». Chiese, il tono soffice,
senza
accennare a togliersi di dosso le sedie. Le ombre cadevano sul suo
viso, nascondendolo, e Lienhard ne cercò a lungo i
lineamenti prima
di rispondere − straniato, le braccia avvolte intorno alle
ginocchia in una posa che poco si addiceva ad un uomo adulto.
Camminava sul limite estremo di un baratro, barcollando, a pochi
metri dalla persona che avrebbe potuto ferirlo più di tutte
le altre
e a cui rischiava di fare del male con ogni parola. Era come lucidare
un vaso di cristallo con la lana d'acciaio.
«Avevo...
undici anni, credo. Me lo disse mio padre». Si tenne sul
vago, ma
una risposta come quella non avrebbe mai soddisfatto la
curiosità di
Joseph.
«Com'è
stato?». Sentì un fruscio, immaginò il
corpo dell'alfa disteso in
una posa inerme sotto l'intrico di legno.
«Prova
a pensare di essere un bambino di undici anni come tutti gli altri,
in una classe piena di alfa che non fanno altro che sognare la loro
futura carriera militare e raccontare di quanti omega possiederanno
quando saranno adulti». La voce di Lienhard, incerta fin
dall'inizio, si incrinò: «Prova ad immaginare di
fare come uno di
quei bambini, con la testa piena di favole sulla forza degli alfa e
l'intelligenza degli alfa e il potere degli alfa. Poi, un giorno, tuo
padre ti tira in disparte e ti dice senza troppi preamboli che quei
sogni li puoi anche buttare nel cesso». Joseph si mosse, un
frullare
lieve di ombre. «Che sarai proprio quella persona debole e
meschina
che ti hanno insegnato a disprezzare fino a ieri. Che, non so, tutte
i tuoi amici un giorno ti vedranno come qualcosa di non molto diverso
da un'incubatrice sforna-alfa, che diventerai un oggetto sessuale e
nient'altro. Che qualsiasi cosa tu dica la tua opinione avrà
poco o
nessun valore, perché le tue saranno le parole di
un omega».
Il
soldato si schiarì la voce e fece per dire qualcosa, poi
rimase in
silenzio.
«Non
riesci ad immaginare com'è, vero?». La domanda
sfumò nella
tenebra, Lienhard sospirò: «Hai tutte le ragioni
per odiarmi,
Joseph. Ti ho preso in giro fingendo di essere qualcosa che non sono.
Questo è un crimine punibile con la pena di morte o
l'ergastolo, e
io non−»
«Una
parte di me,» Joseph lo interruppe, spezzando il flusso
concitato
delle sue parole senza il minimo riguardo «vorrebbe chiamare
la
centrale e farti arrestare in questo preciso istante. Un'altra parte
vorrebbe strapparsi questo dannato affare dal naso e finire quello
che avevo cominciato, e solo le Stelle sanno quanto sia dolce il tuo
odore, Lienhard». Inspirò, una sedia cadde da una
parte con un
tonfo secco «Ma l'ultima parte, quella che ho intenzione di
ascoltare, sa che nei tuoi panni avrei fatto la stessa cosa. Tu
sei... più intelligente di me, più consapevole.
È come se
capissi le cose più a fondo di quanto fanno tutti gli altri.
Lo
pensavo quando credevo che fossi un alfa e lo penso anche
adesso».
Si alzò in piedi, e le due lune improvvisamente illuminarono
il suo
sguardo deciso. «Se mi trovassi in pericolo e dovessi
scegliere
qualcuno da cui farmi guardare le spalle, quello saresti tu. Non
c'è
nessun alfa che sceglierei prima di te».
Il
professore trattenne il respiro, attonito. Il complimento si
scavò
un posto nel suo cuore e mise radici lì, in un angolo da cui
poteva
guardare speranzosamente il mondo e sperare di venire irradiato da un
po' di luce, ma la paura rimaneva ad assediare quella minuscola oasi
di calore. Cercò di deglutire, ma la bocca secca glie lo
impedì.
«Però
c'è una cosa che voglio sapere. Quando hai detto che ti sei
preso
gioco di me, intendevi anche...» Joseph si guardò
intorno, come se
l'arredamento spoglio del bungalow potesse suggerirgli le parole
giuste. E Lienhard capì cosa voleva chiedergli anche solo da
quello,
dalla tensione delle spalle e dall'imbarazzo malcelato delle mani
contratte.
«No».
Sicuro, per la prima volta da quando era iniziata quella
conversazione «No, Joseph».
Il
soldato non sorrise − erano successe troppe cose −
ma annuì
bruscamente e il suo viso si rilassò.
«Non
potresti rivestirti?». Aggiunse «Non riesco a
parlarti come si
deve, altrimenti».
Mentre
correva in camera da letto, una confusione febbrile nel cervello, a
Lienhard arrivò un'ultima frase, come trasportata
dall'oscurità.
«Mi
chiedo se riuscirai mai a perdonarmi».
◦○◦
Appostato
in una traversa poco lontano dalla Via delle Lanterne, Kaïre
si
rigirava una capsula di Progestal tra le dita e attendeva l'arrivo di
qualche compratore. Ogni tanto facevano capolino nel vicolo,
controllavano che non ci fossero militari in vista e si avvicinavano
con i soldi già in mano: lo scambio avveniva in pochi
istanti
silenziosi, tanto che a volte l'albino non riusciva nemmeno a
guardare in faccia i suoi clienti − conosceva le loro dita,
quelle
sì, la sensazione di sfregamento sudaticcio e
fastidiosamente umano
dei polpastrelli. I ragazzi giovani e benestanti avevano mani di
velluto, affusolate e gentili mentre ghermivano le capsule, mentre i
calli della classe operaia grattavano la pelle come carta vetrata.
Puoi
anche riempirti la faccia di trucco per mascherare chi sei veramente,
pensava l'albino,
vendita dopo vendita, ma
le tue mani racconteranno sempre la verità.
Non
abbassava mai la guardia. La minima distrazione sarebbe risultata
fatale in un lavoro come il suo, dove non erano infrequenti gli
incontri con disperati disposti a tutto per un paio di capsule di
progesterone.
Dal
fondo del vicolo spuntò un uomo alto e magro, sulla
trentina, con i
capelli cortissimi e una camminata rigida che dava piuttosto
nell'occhio. Kaïre tese ogni muscolo del corpo e si
staccò dal muro
con un mezzo passo, veloce, immergendosi più profondamente
nell'ombra tesa del palazzi neri; cacciò una mano tra le
pieghe
della felpa, le dita strette sul fusto sottile di uno storditore
antisommossa, e attese con il fiato sospeso.
«Due».
Il viso dell'uomo era parzialmente nascosto dall'oscurità,
ma i suoi
occhi castani perforavano la cortina di tenebra.
«Quant'è?».
Kaïre
inspirò a fondo e non trovò nessun odore omega.
Piuttosto una scia
sottile, abilmente nascosta ma impossibile da celare al suo naso
allenato, gravida di testosterone − attivò lo
storditore con una
pressione lieve delle dita e frugò nella tasca della felpa
con
l'altra mano, per dare l'impressione di star cercando il Progestal.
Tendini tesi sotto la pelle, respiro corto.
«Trenta».
Lo storditore era ricoperto da un rivestimento opaco, color carne,
che non catturò la luce della luna mentre l'albino allungava
la mano
verso il compratore sospetto. Ci fu un momento di trambusto quando
l'alfa gli strinse le dita in una morsa d'acciaio e lo
strattonò
verso di sé, flettendo il braccio libero nell'anticipazione
di un
pugno da manuale. In quel preciso istante lo storditore
entrò in
azione, sfrigolando contro la pelle dell'alfa, e quello si
afflosciò
a terra come un sacco vuoto.
Kaïre,
minimamente scosso, assestò un calcio nel ventre dell'uomo
− non
che lui potesse percepire alcunché, con il sistema nervoso
in
blackout per almeno un quarto d'ora − e si chinò a
frugargli nelle
tasche. Ne emerse una piastrina O-screen di un blu cobalto difficile
da fraintendere.
"Un
soldato semplice". Aggrottò
le
sopracciglia, preda di un fremito di disprezzo. "Da
quando l'esercito si immischia nei nostri affari?".
Piastrine
O-screen come quella venivano distribuite ai soldati troppo poveri
per permettersi di acquistare un dispositivo più avanzato.
L'albino
ne aveva già viste diverse, considerato che sottrarle alle
reclute
più sprovvedute e rivenderle per pochi soldi sul mercato
nero era
una specie di sport nazionale, nel ghetto; c'era chi le collezionava
e se le appendeva al collo per dimostrare quanti soldati era riuscito
a fregare.
Nella
piastrina, dunque, nulla di insolito. Il problema stava nel fatto che
un soldato, evidentemente alfa ed evidentemente malintenzionato,
l'aveva avvicinato con l'intenzione di aggredirlo − voleva
arrestarlo, forse? Ma perché? C'era sempre stato un accordo
tacito,
tra militari e abitanti della Via delle Lanterne, per cui i primi
ricevevano sconti sulla droga e sulle case di tolleranza e i secondi
non venivano infastiditi.
"Nessuno
spezzerebbe quell'equilibrio". Rivoltò
le altre tasche del soldato, ma non ne uscì nulla. "Questo
è folle".
Sgattaiolò
fuori dal vicolo, e via di corsa nelle strade deserte del ghetto.
Doveva avvertire gli altri prima che quella situazione inquietante
rivelasse delle pieghe ancora peggiori di quanto sospettava.
◦○◦
«Voglio
farti vedere una cosa». Zoppicando, affaticato, Lienhard si
appoggiò
alla porta del bungalow e abbassò la maniglia
«Andiamo».
Joseph
non se l'aspettava. Aveva sistemato le sedie attorno al tavolo della
sala da pranzo e si era seduto, la testa tra le mani, senza sapere
cosa fare; gli sembrava di incespicare su una crosta di vetro
sottilissimo, prossima a spezzarsi e ferirlo al minimo passo falso, e
per quanto si sforzasse non riusciva a guardare il viso di Lienhard
senza precipitare in uno stato di profondo malessere.
"Mi
ha mentito," emergeva,
ogni tanto, nella
baraonda dei suoi pensieri "e
io per
poco... io per poco non l'ho..."
Arricciava
le labbra, cercando di concentrarsi su qualcos'altro. Joseph era
sempre stato abituato a vedere il mondo sotto un filtro perenne di
bianchi di neri, di colpevoli e innocenti: in quella circostanza,
però, trovare qualcuno che fosse colpevole e allo stesso
tempo non
lo fosse era impossibile. Poteva incolpare Lienhard per aver violato
la legge, per avergli mentito, ma ogni volta che pensava alla sua
voce mentre leggeva e al suo sguardo − alfa tra gli
alfa −
gli sembrava che quello fosse giusto, che quello fosse naturale. Non
poteva immaginarlo in un vivaio, con il camice bianco delle fattrici
e il cranio rasato − il chip impiantato poco sotto l'orecchio
destro, i tentacoli biomeccanici a sporgere dalla pelle sottile
−
senza provare raccapriccio. Ricordava gli omega che componevano gli
harem dei suoi cugini, la casata regnante dei Redthorn, con le loro
divise sfarzose e i collari a elettroshock e le teste chinate e gli
occhi pieni di rassegnazione, docili: Lienhard Heisenhover non era e
non sarebbe mai potuto essere nulla di tutto ciò.
"Puoi
davvero accusarlo perché si è ribellato?".
Affondò
le dita tra i capelli, squassato da quel conflitto invisibile. Non si
meritava la pace, ma in quel momento la desiderava più di
ogni altra
cosa − "Se solo tu non esistessi, se solo non ti
avessi mai
incontrato..."
Ed
era vero, anche quello, fino ad un certo punto. Non sapeva
più cosa
pensare.
«Andiamo».
Lienhard
si era infilato una tuta di ultraneoprene e sopra i pantaloni e una
camicia aperta. Era strano vederlo con qualcosa di così
moderno, con
la luminescenza dei polimeri sintetici ad accarezzargli il collo fin
sotto la mandibola, e Joseph si disse che la tuta doveva avere a che
fare con il calore.
«Dove?».
Si tirò in piedi come se qualcuno gli avesse attaccato delle
zavorre
pesantissime alle spalle, a fatica «Forse sarebbe meglio se
me ne
andassi».
«Non
credo». Lienhard si sistemò uno zainetto sulle
spalle, cinghie di
cuoio consumato e stoffa crivellata di buchi «E
perché, poi? Per
rinchiuderti da qualche parte e avvelenarti il sangue?».
«È
così sbagliato avvelenarsi il sangue per
una cosa del
genere?». Joseph alzò la voce «Lienhard,
adesso non puoi fare
finta che sia tutto−»
«Stop».
Aprì la porta, rivelando uno scorcio di campagna immersa nel
chiarore lunare «Stop alle conclusioni affrettate. Andiamo,
Joseph,
ormai ti ho fatto tutto quello che potevo farti. Questo non
sarà
peggio di una sediata».
Un
sorriso appena accennato si dipinse sul viso del soldato, che
sussurrò: «Non ne sono così
sicuro».
Lo
seguì, alla fine, fuori dal bungalow e attraverso una
boscaglia di
felci alte e fronzute che nascondevano l'orizzonte. Il terreno era
morbido, coperto da un'erbetta violacea che ricordava la mucillagine,
e Lienhard si muoveva come se stesse seguendo un sentiero preciso in
quel sottobosco privo di riferimenti.
«Dove
stiamo andando?».
«C'è
un frutteto». Il professore si abbassò sotto le
fronde di una felce
particolarmente grossa e sparì in una macchia di
oscurità nera come
lo spazio profondo «Öbstgrun, file di alberi a
perdita d'occhio. Ci
andavo da piccolo».
«E
perché dovremmo andare proprio lì?». A
malincuore, Joseph ricordò
un bambino con lo sguardo troppo severo che sedeva tra i tronchi alti
degli öbstgrun, tremando mentre i richiami irati di suo padre
echeggiavano nella lontananza.
«Perché
quel frutteto è mio». Si stavano spostando sul
limitare di un campo
di papaveri, che Lienhard indicò con un gesto ampio
«Li vedi
quelli? Sono controllati da unità volanti che si spostano in
sciami
lungo i perimetri e sentinelle armate. Se provi a staccare un solo
bocciolo sono autorizzati a disgregarti, e non sarebbe saggio
accamparsi lì in mezzo».
«Accamparsi?».
Joseph aggrottò le sopracciglia e si rese conto, con un
certo
sollievo, che quella camminata in campagna lo stava effettivamente
distraendo «E perché mai hai un frutteto? Non mi
sembri un amante
dell'agricoltura».
«Era
di un vecchio che mi lasciava sempre stare lì,
purché non gli
rovinassi le piante e cose così. Mi sdraiavo sotto gli
alberi e
potevo mangiare tutte le bacche che volevo. Poi il vecchio è
morto e
ho comprato il frutteto per evitare che qualche compagnia
interplanetaria lo trasformasse nell'ennesimo campo di papaveri da
oppio». Lienhard fece spallucce, un accenno di nostalgia
nella piega
delle labbra «Di quelli ce ne sono già
abbastanza».
Gli
alberi di öbstgrun comparvero come una macchia scura sul cielo
buio,
un merletto dai bordi irregolari che si estendeva per metà
dell'orizzonte e spandeva il suo profumo zuccherino a decine di metri
di distanza. Gli alberi erano piantati secondo uno schema regolare,
una griglia di tronchi lisci da cui pendevano grappoli di fiori
bianchi − chiusi, sembravano punte di lancia intagliate
nell'osso −
e bacche bioluminescenti, rosa pallido.
Lienhard
si fermò in uno spiazzo tra quattro alberi e
radunò alcuni sassi,
con cui formò un piccolo recinto approssimativamente
circolare.
Joseph si sedette a pochi centimetri dal circolo di pietre,
osservando le danze di qualche insetto notturno che depredava i
grappoli di bacche e spariva ronzando nell'intrico di fronde
− a
quanto pareva, il proprietario del frutteto non si era mai
preoccupato di potare gli alberi, i cui rami lasciavano vedere appena
qualche squarcio di cielo stellato.
Corrugò
le sopracciglia quando Lienhard si chinò a raccogliere
qualche ramo
secco e sistemò una piccola pira al centro del recinto, per
poi
armeggiare con uno strano arnese di metallo che aveva tirato fuori
dallo zaino. «Che stai facendo?». Chiese, mentre il
professore
usava l'aggeggio per vaporizzare chissà quale sostanza sui
rametti
«È una trappola per insetti?».
«Immagino
che tu non abbia mai acceso il fuoco». Lienhard
ridacchiò «Non
nella maniera antica, almeno».
«Fuoco?».
Stupito, Joseph si protese verso i ramoscelli una frazione di secondo
prima che una scintilla scaturita dall'attrezzo metallico facesse
scaturire una vampata di fiamme; sobbalzò, colto alla
sprovvista,
mentre strie di fuoco arancione si avviluppavano come serpenti sul
legno secco e rischiaravano lo spazio scuro tra gli alberi.
«Non è
legale accendere del fuoco vero, soprattutto in un posto pieno di
materiale infiammabile come−»
«Lo
so, lo so... ma guarda quant'è bello». Lienhard
appoggiò il mento
sulle ginocchia e si accostò al falò, una mano
protesa per
scaldarsi «È vivo, a
differenza degli ologrammi. Senti che
caldo».
Joseph
inarcò le sopracciglia, trattenendosi dall'imitare il gesto
del
professore, e sbottò: «Sì, è
bello, ma che senso ha tutto
questo?».
«Shhh...»
l'omega socchiuse gli occhi «... prova a non
pensare, Joseph.
In questo momento è una facoltà più
dannosa che utile».
«Vorrei
avere la tua calma». Ringhiò, in risposta
«E la capacità di
ignorare i problemi come se non−»
«Shhh».
Lo interruppe di nuovo, aggiungendo un ciocco più robusto al
fuoco
ormai avviato «Abbi pazienza».
Le
stelle crebbero, disegnando i loro archi bizzarri nella volta
celeste, mentre lo sguardo di Joseph si faceva assente, perso
nei guizzi sinuosi delle fiamme. Lienhard riavviò il fuoco
con
qualche ramo secco e si sdraiò su un fianco, giocherellando
con i
fiocchi di cenere che cominciavano ad accumularsi ai margini del
falò
improvvisato.
«Il
fuoco insegna parecchio». Sussurrò, gli occhi di
Joseph nei suoi.
«Se non te prendi cura si spegne. Se non lo controlli ti
scotta non
appena abbassi la guardia. Ma il bello è che a volte si
spegne o ti
brucia lo stesso, anche quando ci hai messo tutto l'impegno
possibile».
«Mi
ricorda qualcuno».
«Dovrebbe.
Quella di essere imprevedibili è una prerogativa di tutti
gli
uomini».
«Di
alcuni più che di altri». Asciutto, Joseph
spezzò distrattamente
un ramoscello e lo buttò nel fuoco «Mi hai portato
qui per
impartirmi una lezioncina filosofica? Funziona meglio nella tua
biblioteca, credimi».
Lienhard
ridacchiò senza nemmeno darsi la pena di aprire bocca,
riflessi
arancioni e bagliori metallici nei capelli biondi. «Trovo che
il
modo migliore per riportare una situazione alla normalità
sia
ristabilire le consuetudini». Tra le sue mani comparve, come
per
magia, un libretto sottile «Le mie lezioni ti sono mancate,
Joseph?».
L'espressione
sul viso del soldato non poteva definirsi altrimenti che sconvolta.
«Lienhard,
non mi sembra il momento».
«È
sempre il momento per i sonetti di
Shakespeare». Aprì il
volume con un gesto distratto, voltando velocemente le pagine
«Non
ci sono istan-traduttori, quindi ascolta e goditi il suono. Si narra
che Shakespeare abbia scritto opere di pregio ben maggiore, ma
sfortunatamente ci sono rimasti solo frammenti delle sue opere
teatrali. A me personalmente i sonetti piacciono molto».
«Di
che parlano?». Joseph decise di assecondare le stramberie del
professore − l'alternativa, alzarsi e cercare di ritrovare la
strada in quei campi sterminati e bui, non era praticabile. Lienhard,
realizzò, l'aveva confinato in quel boschetto oscuro senza
possibilità di fuga.
«Amore».
Il modo in cui lo disse inviò una serie di scariche
elettriche lungo
la schiena del soldato «Amore per un uomo ricco e dalla
bellezza
favolosa. Torniamo all'argomento della prima lezione,
ricordi?».
Joseph
ripensò al Lienhard Heisenhover di quei giorni, al suo
sorriso
sfrontato e allo sguardo luccicante dietro le lenti degli occhiali.
Era tutto incredibilmente lontano, quasi irreale, come la danza dei
granuli di polvere nella luce dorata del sole e il lento serpeggiare
delle fiamme.
La
voce di Lienhard, però, non era cambiata − il suo
incantesimo non
aveva perso di efficacia.
«Devouring
time, blunt thou the lion paws, and make the earth devour her own
sweet brood». Con
il mento appoggiato tra le braccia conserte e una vaga sensazione di
vacuità nell'animo, Joseph ascoltò senza fiatare
parole di una
lingua che non capiva, inintelligibili dichiarazioni d'amore fatte da
un uomo la cui memoria era stata divorata dal tempo. In qualche modo
gli sembrò che il senso profondo della poesia penetrasse
comunque in
lui, così come lo colpiva la bellezza delle stelle senza che
ne
conoscesse i nomi o il vero aspetto − così come
l'aveva colpito la
bellezza di Lienhard anche quando non sapeva chi fosse realmente. A
volte, si disse, la vera essenza del mondo trapela anche quando si fa
del tutto per nasconderla, e solo dopo capì di trovarsi uno
di quei
momenti in cui ogni cosa trova miracolosamente il suo posto e si ha
quasi paura di muoversi per non infrangerne la perfezione.
Inspirò
l'odore forte di legna bruciata, chiuse gli occhi, e ascoltò
la voce
di Lienhard fino allo spuntare dell'alba.
«Yet,
do thy
worst, old Time: despite thy wrong, my love shall in my verse ever
live young».
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Questo
capitolo ha vari difetti, il primo dei quali è quello di
essere
arrivato *appena* in ritardo. Poi c'è il fatto della
smielatezza
molesta, che mi auguro non risulti eccessiva (in genere non sono una
persona zuccherosa, ma con questi due devo trattenermi per evitare di
sfornare la brutta copia omegaverse di Tre Metri Sopra il Cielo).
Vi
faccio i soliti ringraziamenti per
recensioni/seguite/ricordate/preferite e spero di trovarvi ancora qui
per il prossimo capitolo. I cestini con le uova marce sono alla
vostra sinistra.
Lovvovi,
Greedfan
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