Someone

di Tripudium tantum
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Someone
 
 
Prologo.
 

Solo un pensiero attraversò la sua mente appena vide i due cadaveri inermi nel pavimento.
Assassinio.
Aron Styles non aveva mai neanche lontanamente pensato che una cosa del genere potesse succedere a loro, ma quella parola gli alleggiava nella mente come dell'acqua dentro una bottiglia. Indietreggiò piano, pensando che stessero dormendo. Andò vicino a scuotere suo padre, e, notando che non accennava al solito sbadiglio, accompagnato da un “Buongiorno eroe” si preoccupò.
Si catapultò verso la madre, invocando più volte il suo nome; ma niente, non rispondeva.
Si guardò intorno spaventato, accartocciandosi sul muro. Cominciò a piangere atterrito, in attesa che da un momento all’altro i due si alzassero e scoppiassero a ridere, facendolo sentire idiota ma tremendamente felice.
Ma questo non successe.


Elisabeth correva veloce sotto la pioggia battente, rischiando di perdere l'equilibrio più volte nelle mattonelle scivolose dei marciapiedi. La sua bambina continuava a piangere, chiedendole disperatamente cosa stava succedendo. Si guardò a destra e a sinistra: le case della periferia di Londra erano tutte dannatamente uguali.
Sorrise senza pensarci, quando vide la targhetta su un campanello: “Astrea, Harry e Aron Styles
Suonò ripetutamente, ma nessuno si decideva a rispondere. Così, guardando meglio trovò il cancello aperto a calci, e la porta scassinata. Il cuore le saltò in gola. Entrò velocemente nell’abitazione, vedendo due corpi stesi per terra e Aron che piangeva a dirotto. Il suo istinto materno la portò a lasciare un attimo la mano della sua bambina e andare ad abbracciare il piccolo, che ormai era un fiume di lacrime.
- Shh, va tutto bene.- sussurrò la donna portandosi al petto Aron.
- Chi li ha uccisi, zia?- domandò singhiozzando.
La donna spalancò la bocca, riportandoselo al petto. Gli accarezzò premurosa i capelli, sussurrando un: - qualcuno che non esiste…
Aron, aveva dodici anni, ma era straordinariamente intelligente. Infatti si alzò, andando verso i suoi defunti genitori.
- Intendi quelli di cui parlavano ogni sera, quando credevano che dormissi?- sussurrò privo di voce.
Elisabeth fece un balzo, chiedendogli cosa intendesse dire.
- Ogni sera parlavano di persone che li cercavano, e che dovevano tenermi al sicuro. Che se li avessero trovati avrebbero preso anche me, che non dovevo sapere niente.-
Ad Elisabeth vennero i brividi. Non aveva idea di come rispondere, non lo sapeva proprio. Poteva dirgli: “Di cosa stai parlando?” oppure spiegargli tutto. Sapeva che Astrea e Harry non avevano mai voluto che Aron facesse la vita di un fuggitivo, ogni trasloco, per lui, era per il lavoro del padre.
- Tu ne sai qualcosa?- domandò il ragazzo, risvegliandola dai suoi pensieri.
Ci fu un lungo minuto di silenzio, poi la donna rispose:- Non ne ho idea, piccolo mio.

-Alzatevi, prego. Siamo qui oggi riuniti, per celebrare il quinto anniversario di morte di Astrea e Harry Styles, mancati tragicamente all’affetto dei loro cari.-
Aron strinse i pugni, guardando in basso alle sue scarpe da ginnastica. Una volta finita la messa fu il primo a catapultarsi fuori, ma nessuno lo guardò. Ormai lui era conosciuto, era conosciuto nel modo in cui non era. Era quel ragazzo asociale, quello dal comportamento strano, quello incapace di amare e di essere amato.
Il suo telefono vibrò impercettibilmente, e scocciato stava per mettere giù, quando vide che era sua zia.
- Aron, dove sei?- domandò lei preoccupata.
Lui sbuffò senza farsi sentire:- sono al parco vicino casa, zia. Tranquilla.
La donna emise un sospiro di sollievo, sorridendo dall’altro capo del telefono.
- Ti prego, torna entro le sette che dobbiamo…-
- Sì sì, dobbiamo traslocare ho capito.- e riattaccò.
Lui non era sempre stato così; anzi, era stato il ragazzo più dolce del mondo pochi anni fa. Poi, la morte dei suoi genitori lo cambiò radicalmente. Si chiuse in se stesso, parlava con meno gente possibile, e se qualcuno gli dimostrava affetto, si ritraeva volontariamente.
Si sedette sulla panchina di legno marcio, e cominciò ad osservare l’orizzonte. Il sole era dimezzato da una striscia di terra, il che lo rendeva uno spettacolo mozzafiato.
- E anche quest’anno è andata.- sussurrò una voce femminile.
Il ragazzo non si voltò. Skyler Jhonson si sedette di fianco a lui, stando attenta a mantenere le distanze. I lunghi capelli castani scendevano morbidi lungo le spalle, incorniciando i suoi occhi del colore del mare.
- Non dovresti essere con i tuoi amici, ora?- domandò Aron senza un filo di emozione.
La ragazza si alzò, posizionandosi davanti a lui. Il ragazzo alzò quasi senza volere lo sguardo, e appena incontrò i suoi occhi, si stupì di quanto fossero belli. Era stupido, ogni volta che la guardava non poteva fare a meno di meravigliarsi. Aron non si era mai permesso di pensarlo, ma in quel momento, sotto la calda luce del tramonto, Skyler era bellissima.
- Dovrei.- sussurrò, risvegliandolo dai suoi pensieri.
Poi si voltò ad osservare il tramonto, spostandosi per farlo vedere anche ad Aron.
- Tutti i libri che leggo parlano di “lieto fine”; ma cosa c’è di lieto, nella fine?- pensò ad alta voce. – non è altro che il termine delle prove che hai affrontato per ottenere ciò che hai. Ma dopo averlo avuto, cosa c’è? D’altronde, si dice “non è la meta che conta, ma il viaggio”. Eppure, perché tutti alla disperata ricerca del “lieto fine”?-
Aron si chiese se avesse dovuto rispondere, ma in ogni caso non l’avrebbe fatto. Skyler si voltò verso di lui, guardandolo negli occhi.
- Allora ci vediamo a casa.- e senza lasciargli il tempo di replicare se ne andò.
Aron rifletté sulle parole appena dette da Skyler, come suo solito. Ogni sera, senza dirsi niente s’incontravano là, e, nonostante volessero stare soli, a loro piaceva restare soli insieme.
Era come un appuntamento segreto, mai divulgato dalla bocca dei due.
Il loro appuntamento.




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