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Disclaimer: I personaggi e
le ambientazioni non mi appartengono
La storia è scritta senza fine di lucro alcuno.
A tutti coloro che mi hanno seguito, mi seguono e mi seguiranno.
A chi ha fiducia, biscotti al cioccolato e un po’ di follia.
Alla MogliaH, alla mia Tony, a Leslie, alla Steve e alla
Tonia,
alla mia Coulson di fiducia
Alla mia Splendore, alle Massoni.
A voi di EFP.
Allo zio Stan.
A me (?)
Oh, basta.
Troppo drammatico.
PARY HARD!!
(Se volete, andate QUI per il trailer )
Heroes?
There is no such thing.
Our Own
Demons
.
.
.
We are each our own devil
And we make this world
Our hell.
O. Wilde
{ Prologo ~ File - 0.0 }
Polo
Nord.
2011.
Ad Harlem, Jacobson aveva imparato ad
aspettare.
Aspettare che a sua madre passasse la
sbronza per camminare in punta di piedi in cucina e rubacchiare qualcosa dalla
dispensa. Aspettare che la schiena si fosse fatta un po’ più robusta per
caricare cassoni d’acqua sulle spalle. Aspettare che le braccia fossero un po’
più muscolose per deviare il setto nasale del maniaco che aveva cercato di
insidiare sua sorella.
Aspettare, dentro la cella in cui i
poliziotti l’avevano cacciato a male parole e pugni nello stomaco, che l’uomo
in giacca e cravatta davanti a lui dicesse qualcosa. Qualsiasi cosa.
Aveva aspettato un’intera notte che
il Man In Black stracciasse la nebbia del proprio Destino, aveva aspettato che
gli indicasse la porta della centrale e poi a destra, invece di sinistra, e
alla fine, quando l’uomo aveva torto la bocca in un sorriso soddisfatto,
Jacobson aveva capito che tutto quell’attendere aveva finalmente cominciato a
germogliare.
Non sapeva quali frutti avrebbe dato,
se sarebbero stati Pomi D’Oro o semplice gramigna, ma non vedeva il problema:
avrebbe aspettato.
Un’intera vita ad esercitare l’arte
dell’aspettare, pensava, avrebbe
dovuto essergli d’aiuto in quel momento. Messo a riposo sulla lunga panca
bianca della struttura provvisoria, Jacobson sedeva con sopra la testa filari
oblunghi di neon candidi, sotto le suole degli scarponi isolanti una
pavimentazione dalla dubbia origine e dal nome impronunciabile, il vuoto ai
lati e arazzi di plastica accartocciata che sospiravano pesantemente,
agonizzando, al fiato rauco della ventilazione artificiale.
Fino ad una ventina di minuti prima
c’era stato Piotrowski con cui parlare: il polacco era sceso con lui nel
budello di ghiaccio incrostato e aveva tenuto alta la torcia perché la luce
fiammeggiasse sul lastrone congelato ai loro piedi, creando un effetto non
troppo dissimile a quello che ci si sarebbe aspettati da un’epifania divina.
Quindi, quale compagnia migliore per
ingannare il tempo. intanto che anche gli altri entravano ed uscivano dallo
studio improvvisato del dottor Marlowe? Avevano addirittura scommesso un giro
di bevute, una volta tornati a Manhattan. Piotrowski, da buon polacco, diceva
che la roba su cui avevano messo le mani era una bomba sovietica o qualche
altra ferraglia del genere –Nulla di buono, sosteneva, poteva venire da chi
aveva dato i natali a Pierre Bezuchov(1). Jacobson, invece, era
sicuro che qualche collega, uno in particolare, avrebbe dato un rene se non
tutti e due, per essere al loro posto e godersi lo spettacolo in prima fila.
E tra un’ipotesi ed una teoria, una
manata alla spalla, una risata, incredulità, invocazioni a Dio e colorite
bestemmie in slang, dialetto e inglese, era giunto anche il turno di Fabian di
incontrare lo psicologo.
Precauzione, quella, che Jacobson
trovava di per sé altamente inutile: d’accordo, era stata una scoperta
eccezionale, ma da lì dal richiedere un supporto
per l’intera squadra onde evitare crolli nervosi, psicosi collettiva e altre
amenità simili, bhè…Non che Jacobson avesse da ridire o volesse contestare gli
ordini dai Grandi Vertici, però gli sembrava una misura di sicurezza davvero, davvero esagerata.
Inoltre, forse per effetto di Marlowe
o per qualche calmante disciolto di nascosto negli integratori, nessuno dei
compagni uscito dalla conversazione col dottore si era dimostrato così eccitato
dalla situazione.
Al contrario, nei loro occhi era
visibile una punta di rassegnato rincrescimento, un noncurante disappunto,
quasi l’operazione cui erano stati assegnati fosse stata meno di una
scampagnata non richiesta al Polo e non avesse portato altro che arsura sulle
labbra e dita congelate.
Aveva provato a chiedere dove fosse
finito l’iniziale entusiasmo, ma si era sentito rispondere soltanto qualche
farfuglio vagamente annoiato.
Ordinaria
amministrazione bofonchiavano
Sono d’accordo col dottor Marlowe: alla
fine non è stato niente di così eclatante come mi aspettavo.
A peggiorare l’umore di Jacobson,
poi, era anche la sensazione di non dover essere lì, di star perdendo minuti
preziosi in un corridoio impersonale che risucchiava ossigeno e artigliava i
polmoni come uno sgradevole attacco di panico.
Non era l’aspettare cui aveva improntato la vita, non c’era all’orizzonte promessa o deviazione sul
sentiero dell’esistenza. Era mera, fastidiosa, snervante attesa, priva di scopo e senza obiettivi.
Non sarebbe dipeso niente dal tempo sprecato ad aspettare
che Fabian uscisse e gli dicesse di prendere posto su una seggiole o sgabello o
qualsiasi altro aggeggio si fossero portati dietro per far riposare le terga.
Non poteva impiegare quei minuti in
preziosi in niente di meglio che torcersi le dita, contare i cristalli di
ghiacci spenzolanti fuori della curva gibbosa del corridoio, e ripetersi a
memoria, mandare a mente ogni singolo fotogramma di quanto gli era appena
successo.
Nonna Julie doveva essere messa al
corrente di ogni particolare, non avrebbe sentito rimostranze di sorta a
riguardo.
Jacobson appoggiò i palmi delle mani
sulle ginocchia e affondò le dita nel tessuto spesso della tuta. Il casco,
appoggiato accanto alla coscia, ingoiava e trangugiava il asettico della luce e
un po’ balbettava, traslucido, e un po’ ansimava e boccheggiava di grigio e
nero.
L’uomo curvò la schiena in avanti, i
brividi che saltellavano nervosi da una vertebra all’altra. Non esistevano
rumori all’infuori proprio respiro, dell’ossigeno aspirato con rabbia crescente
tra i denti digrignati. Non esistevano colori, se non l’immenso, immane,
pressante candore che premeva e soffocava da sopra, da sotto, dai lati, da ogni
parte e in ogni dove l’occhio potesse guardare.
Per gente abituata a vestire solo ed
esclusivamente di nero, tutto quel bianco faceva venire il voltastomaco e
girare la testa.
Jacobson sospirò, raddrizzò le spalle
e reclinò la nuca all’indietro.
Sperava solo che l’incontro con
Marlowe non durasse troppo.
Nel rifugio che avevano tirato in
piedi insieme al perimetro d’ordinanza, il cellulare aspettava solo di essere
acceso e Jacobson non aspettava altro che digitare veloce il numero di Nonna
Julie e raccontare per filo e per segno quanto era accaduto. In vivavoce,
ovviamente, perché anche la piccola Sofia, dall’alto del suo metro e dieci, non
si perdesse una sola parola.
Bisognava, ovvio, tener conto di un
dettaglio trascurabile detto segreto di
Stato, ma tanto bastava rattoppare qui, tralasciare un po’ là, omettere
questo, modificare quell’latro, e il gioco era presto che fatto.
Non poteva nascondere tutto a Nonna Julie. Una scoperta del
genere, un ritrovamento di tale portata andava al di là di quanto Jacobson si
aspettasse e per cui avesse mai aspettato.
Harlem.
Casa Famiglia di Nonna Julie.
2011.
Nonna Julie non si chiamava davvero
così e di sicuro non era una nonna.
Di nomi ne aveva avuti tanti e tanti
gliene erano stati affibbiati nel corso degli anni, ormai aveva perso il conto:
aveva più identità di un Agente della CIA o di qualche altra organizzazione da
strapazzo il suo piccolo Adrian facesse parte –Accidenti all’età che avanzava,
se ne scordava ogni volta il nome.
Adrian faceva buon visto a cattivo
gioco quando lei chiedeva di ripeterglielo: diceva che, in caso qualcuno avesse
cercato di prenderla in ostaggio per strapparle informazioni vitali,
l’organizzazione per cui lavorava sarebbe stata al sicuro anche senza memorie
fasulle o altre diavolerie tecnologiche da fantascienza. Al che, Nonna Julie
replicava che l’eventualità nemmeno si poneva. Qualunque brutto ceffo avesse
avuto la malsana idea di intrufolarsi nella sua Casa Famiglia si sarebbe
ritrovato col mattarello a spuntare dalla bocca, ma infilato dall’entrata
opposta alla gola.
Non una persona poi così fine e
delicata, Nonna Julia, nonostante l’aspetto minuto, le spalle strette strette,
la schiena curva e i pince-nez tondi
calati sul nasino appuntito e gli occhietti neri, liquidi e amabili.
Ai tempi degli spettacoli nei locali
notturni di Harlem era stata la Stella Di Bronzo, acclamata per il colore saettante
della pelle sotto le luci del palco, per la linea carezzevole del ventre e del
seno, e i capelli che gemevano, ricci e scuri, ad ogni movimento languido del
collo. Di quella danzatrice provetta e sensuale, da sogno bianco di colore, era
rimasta un’adorabile vecchina con le labbra rugose, uno chignon grigio e sempre
abbigliata con simpatici colletti all’uncinetto.
Incuteva ancora timore, però, e
Adrian la prendeva spesso in giro, dicendole che avrebbero dovuto arruolare lei
al suo posto. Caro Adrian. Era stato lui il primo a chiamarla Nonna Julie e le
era tanto piaciuto da non esserlo più scrollato di dosso.
«Via le dita dalla marmellata, Sofia»
ammonì Nonna Julie, col suo vocino alto e squillante, mentre si girava a
guardare la bimba e si rassettava il grembiule da cucina, lasciando vistose
macchie di farina e uovo tra le pieghe e i rattoppi.
Sofia, colta sul fatto, ritrasse la
mano e drizzò la schiena, impettita, le labbrucce pressate l’una sull’altra e i
pugni tesi contro i fianchi sporgenti. Sollevò il mento con un che di comico e
imperioso all’insieme, sbatté le ciglia sottili e raggiunse a passo di marcia
una delle seggiole sgangherate attorno al lungo tavolo rettangolare. Lisciò la
gonnellina blu a fiori, s’arrampicò appendendosi alla schienale come una
scimmietta, e infine si sedette tutta compita, gli occhi da gatta fissi sul
cellulare al centro della tovaglia a scacchi bianchi e rossi.
«Chiamerà presto, Sofia.»
Nonna Julie sorrise con dolcezza e abbandonò
l’impasto della torta per avvicinarsi alla bimba. Le accarezzò i capelli,
pettinandoli con le dita nodose e le unghie sorprendentemente curate e smaltate
di rosa pallido. Aveva detto a Sofia che Adrian era andato in viaggio di
lavoro, senza specificare la destinazione, e sebbene cercasse di mostrarsi
tranquilla per la bambina, non poteva negare a se stessa un’inquietudine nervosa
alla bocca della stomaco.
Un crocchiolio preoccupato di
sussurri e mormorii, che la teneva sveglia la notte e mal s’accordava alle
rosee previsioni di Adrian sull’esito positivo della missione.
Nonna Julie era sorda al bisbiglio
della preveggenza: al contrario della sorella, che era in grado di leggere il
futuro di mille uomini nei granelli adamantini della sabbia, lei al massimo
coglieva uno stralcio quasi inudibile di conversazione, un lampo di colori
sfumati, gocce di presentimenti e poco altro. Mai come in quel momento avrebbe
scambiato i cerchi dell’iride per la visione mistica di Tabitha -Convinzione,
questa, che aumentò e si fece praticamente bollente, le affondò nel costato
nell’istante preciso in cui il telefono prese a squillare.
Sofia si tese tutta e Nonna Julia
afferrò rapida l’apparecchio. Le dita ebbero un tremito tanto improvviso da
rischiare di far cadere il cellulare a terra e romperlo in mille pezzi.
«Adrian?» domandò e tossì un paio di
volte per cancellare il balbettio ansioso della voce «Adrian, piccolo mio, come
stai? L’op…» la bimba scattò in alto con la testa e la vecchina fu svelta a
correggersi «Il lavoro?»
«Oh.» fu la risposta incolore di
Jacobson dall’altra parte della cornetta, il tono smangiato da interferenze e
cali di linea «Ordinaria amministrazione, Nonna Julie. Sono d’accordo con il
dottor Marlowe: alla fine non è stato niente di così eclatante come mi
aspettavo.»
Triskelion.
2011.
«Il Colonnello sulla Linea Uno.»
Fu l’avviso professionale della
segretaria, la voce al caramello addolcita da un sorriso accondiscendente e
impreziosito dall’adorabile riflesso del sole sul collier di perle.
«Grazie, Sonja.»
Chiuse la chiamata precedente e
premette il pulsante per dare il via libera alla nuova comunicazione. Intanto
che il ronzio della cornetta andava scemando, incastrò il telefono tra spalla e
orecchio, appoggiò la mano sinistra alla scrivania e portò le dita della destra
a sistemare e giocherellare coi bottoni del gilet grigio.
«Il giorno in cui la Russia
dichiarerà guerra all’America so che verrai a trovarmi di persona» disse, non
appena al clic! della presa in chiamo
si sostituì la voce impaziente del Colonnello.
Mentre l’altro iniziava e continuava
e sbraitava la sua arringa, lui incurvò la bocca e prese tra indice e pollice la
terminazione della cravatta scura: una macchia giallognola -Forse il residuo
spumoso di un cappuccino ingollato alla buona tra un brief e l’altro-
campeggiava sorniona tra le striature oblique, rovinando completamente l’elegante
raffinatezza del completo.
«No, alla fine si è concluso con un
nulla di fatto» replicò, nel sollevare le sopracciglia.
Roteò gli occhi al soffitto,
palesando l’esasperazione di cui era preda, si girò a guardare il vasto
orizzonte dei tetti newyorkesi oltre le finestre dell’ufficio e appoggiò la
base della schiena tra il portapenne e un fermacarte a forma di cubo. Battè la
lingua contro i denti e sul palato, si grattò la punta del naso e la guancia
destra, pizzicandosi i polpastrelli con la barba ispida; abbozzò un’espressione
poco interessata, gli occhi che già vagavano versi altri lidi e tutt’altri
pensieri.
«Era soltanto un Pallone Sonda.» si
osservò le unghie, annoiato «Ordinaria amministrazione. Niente di così
eclatante come ci aspettavamo.»
Note
(1) Personaggio di “Guerra
E Pace”
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