The Last Time
" Il grilletto destinato a sconvolgere la vita di una persona si
preme in un secondo. "
- Corro disperata, nella fobica ricerca di una via
d’uscita.
- Mi inseguono. Ancora.
- - Andate via - urlo tra le lacrime. Ma non mi
sentiranno. Non sarà diverso dalle altre volte.
- Salto quel cancello. Di nuovo.
- Sono libera. Finalmente il mio respiro può essere
regolare.
- Mi appoggiò alle ginocchia. I palmi sanguinanti delle
mani imbrattano di un liquido cremisi i pantaloncini grigi. Qualche stilla
gocciola anche sulle scarpe.
- Il maglione blu che indosso è sudato sul colletto. Le
maniche si sono macchiate.
- - Cazzo!
- Mi devo disfare di ogni indumento incriminato prima di tornare alla base.
La mia casa. Da sempre.
- Prendo uno zaino nero che ho nascosto dietro un
cespuglio prima di entrare nella fabbrica abbandonata. Ne estraggo il
contenuto. Un cambio di vestiti, nessuna scarpa.
- Devo sbrigarmi.
- Prima che sia l’alba. Prima che il sole illumini il
mio peccato.
- Lancio lo zaino contenente i vestiti sporchi in un
cassonetto vicino, poi gli do fuoco.
- Adoro il fuoco. È una mia perversione.
- Sentirne lo screpitio è un piccolo, ma immenso
piacere, per me.
- Ma devo correre, non posso godere di questa distruzione. Non
oggi.
- Riprendo la mia corsa. Sono meno ansiosa, ma ancora
svelta, decisa a non voler tardare.
- Le prime luci di un nuovo giorno sorgono
all’orizzonte, illuminando fiocamente i contorni squadrati delle case di una
periferia disabitata..
- Odio il giorno.
- Penso fermamente che sia più affascinante la notte.
Con le sue sfumature dolci, ma passionali e violente, sotto alcuni aspetti.
- La notte è sfaccettata, possiede mille incantevoli
volti, mentre il giorno è refrattario, spesso uguale.
- Solo se piove, le ore diurne sono più apprezzabili.
- L’odore della pioggia è un’altra deliziosa voluttà
della mia vita, volta solo alla distruzione.
- L’asfalto batte veemente sotto i miei piedi scalzi.
- Freddo e ristoratore riflette i primi raggi di sole.
- Nel cielo non si osserva neanche una nuvola.
- Sono uscita dalla città. Le case di ricchi signori
stagliano la loro incerta ombra sulla terra battuta di ampi sentieri di
campagna.
- Proseguendo la mia corsa, ora più veloce, mi imbatto in una casa bianca
dalle persiane blu. La casa di quella volta.
"Non voglio più dedicarmi ai furti. Sono cose da bambini. Desidero
qualcosa di più impegnativo!"
- Capricci di ragazza cresciuta tra la morte.
- Desideri malsani di una bambina divenuta donna troppo
presto e nella maniera scorretta.
Cammino a passo sostenuto verso la campagna circostante la città.
"Io chiedo fiducia e loro mi affibbiano un’altra ruberia da quattro
soldi".
- Se lo fosse stato!
- Magari non sarei nella mia situazione.
- Forse potrei scappare. Anche oggi.
- Ma quella non fu una "ruberia da quattro soldi".
Sono di fronte al portone di legno massiccio di una casa troppo
sfarzosa per essere di persone qualunque.
Sono pronta all’azione.
Suono il campanello.
Una volta.
Mi schiarisco la gola.
Due volte.
Umetto le labbra.
Tre volte.
- Chi è?
Non rispondo. Fingo un singhiozzo e, intanto, scendono piccole lacrime
sul mio volto.
La porta si apre e una cameriera dal viso preoccupato mi guarda
inorridita.
- Chi sei?!
Alzo lo sguardo, implorante. Falso.
La signora, che non avrà più di venticinque anni, mi osserva
stranita.
Indosso una maglia troppo lunga e troppo sudicia per appartenere a un
abitante della zona.
Non ho pantaloni.
Continuo imperterrita nel mio pianto illusorio e sleale.
Una donna anziana e vestita elegantemente si affianca alla cameriera,
rimasta spiazzata dalla mia scenata.
- Cosa succede?
La sua voce è gentile, dolce.
Improvvisamente mi sembro crudele. Inizio a pensare che il mio scopo
non sia nobile, come mi è sempre parso, che se io sarò felice sarà solo
perché altre persone hanno sofferto. Capisco che il mio comportamento non
è giusto.
Ma non posso smettere. Devo arrivare fino in fondo. Devo farlo per
tutta la banda.
- Non so...questa bimba...
- M-mi sono p-persa...
- Quando, cara?
I lineamenti facciali della padrona di casa mutano, ma il timbro vocale
è identico, quasi distaccato.
- Qualche... tante, settimane fa...
Mi strofino le mani contro le braccia fredde e intorpidite.
- Vai pure, Louise.
La domestica, congedata, si allontana in fretta, e mi lancia occhiate
fugaci e ansiose, probabilmente spaventata dal mio aspetto.
- Quanti anni hai, piccolina?
Flette leggermente le gambe, per raggiungere la mia altezza e guardarmi
negli occhi.
Non temo che la mia finzione venga smascherata. Sono troppo esperta per
fallire.
- Sette.
Ne ho dieci, ma sono bassa e magra.
- Entra, avrai preso tanto freddo...
E se non l’avesse detto, ora io non avrei rimorsi.
Se non fossi stata tanto brava, ora sarei meno sicura di me
stessa.
- Sarei stata cacciata dalla banda. Sarei fuggita da
questo mondo ingiusto in cui devo vivere.
- Forse sarei morta.
- Abbandonata a me stessa, senza una ragione concreta
di vita.
- Ma non posso riscrivere il passato e, anche se
potessi, probabilmente, lascerei scivolare la mano sulle stesse antiche e
profonde orme della mia esistenza e cadrei nello stesso incubo.
- Perché soffrire di nuovo?
- Questa è la mia vita e quella fu l’azione che ne
traccio le coordinate.
Dopo avermi dato vestiti e cibo caldo, mi offre ancora il suo
aiuto.
Margaret, la donna che mi ha accolto con tanto, forse eccessivo,
calore, mi guida lungo il corridoio luminoso e grande. Tiene una mano
sulla mia spalla, come se temesse di perdermi.
- Eccoci arrivate, Marina.
È un nome falso, quello che uso di solito.
- Che cos’è?
Non mi ha ancora informata sul luogo dove mi stava portando.
- Sarà la tua camera per la notte.
Rimango estremamente colpita. Abbasso lo sguardo, conscia di essere
sull’orlo di un pianto.
Provo ribrezzo verso me stessa, ora, come mai prima.
Mi faccio forza e le sorrido.
Lei ricambiando, spalanca la porta bianca e mi accompagna al grande
letto a baldacchino, nel centro della stanza.
- Ora dormi; sarai molto stanca, piccola.
- Si.
Mormoro piano, per non farle notare l’incrinatura di delusione nella
mia voce.
- Ero scontenta di me stessa, proprio come lo sono ora.
- Ma vado avanti. Devo farlo.
- Chiudo gli occhi, stringo i pugni, ora, come tutte le
volte che ripenso al mio passato.
- Ricomincio a correre.
- Tento di scacciare i ricordi dalla mente, ma mi viene
difficile.
- Rimembrare è un mio dovere. Un rispetto verso me
stessa.
- Farlo mi serve per non scordarmi quella che sono e
che sono stata.
- Sono sdraiata sul letto, accoccolata tra le morbide
lenzuola rimboccate dall’anziana.
- Si è seduta sul bordo del letto. Mi sta cantando una
ninna nanna.
Percepisco le palpebre pesanti, ma il mio compito deve ancora essere
svolto. Non posso permettermi di dormire.
La donna continua a cantare e il mio corpo viene cullato dal pensiero
di un dolce sonno ristoratore.
Poi tutto tace.
Margaret ha terminato la canzone.
- Buonanotte, piccolina!
Avvicina il suo viso al mio e mi sfiora la guancia destra con un
morbido bacio.
Sono sconvolta da tanta tenerezza.
Anche spaventata, se così si può dire, dalla fiducia scontata che mi ha
concesso.
Vorrei urlarle di non credere in me, nelle mie azioni, ma ancora una
volta vengo frenata dagli ordini che mi sono stati imposti.
- ‘Notte...
Le parole riescono, finalmente, a districarsi dal nodo di pensieri che
mi affliggono la mente.
La signora si alza dal letto e mi sorride bonaria.
- Mi dona una carezza sulla fronte; gliene sarò eternamente
grata.
-
-
- Ancora oggi, ricordando
quella sera, penso che avrebbe potuto essere mia madre.
- Anche quel giorno quell’idea tanto strampalata quanto
impossibile mi balenò nella mente.
- Volevo crederlo, ma la durezza della verità mi
s’infrangeva addosso, come un’onda di marmo.
- Mia madre mi aveva abbandonata sotto un ponte di
questa campagna. Anni dopo era morta.
- Mi avevano trovata, poche ore dopo, due bambini del paese vicino, e mi avevano portata a casa loro.
- Ero cresciuta sana e felice, senza sapere della
verità sui miei parenti.
- Senza conoscere la realtà sul lavoro del mio padre
adottivo.
- Credetti veramente, durante quella giornata, di aver
trovato la mia vera famiglia.
Spegne la luce della cameretta ed esce dalla stanza.
Chiudo gli occhi.
Non per dormire, ma per piangere.
Lascio alle lacrime libero sfogo sulla mia pelle.
Ed esse scivolano.
Scivolano sempre più giù, fino ad inumidire perfino il collo.
Mi siedo a gambe incrociate sul letto.
Prendo il viso tra le mani. Arresto la caduta delle lacrime.
Se mi lasciassi andare, potrei piangere per tutta la notte.
Ho troppi rimpianti.
Troppe tristezze ed ingiustizie alle spalle, per poter essere
completamente felice.
Scendo dal letto ed infilo i piedi freddi nelle ciabatte azzurre.
Cammino lenta e cauta verso la porta; la socchiudo e tendo
l’orecchio.
Attendo un qualche rumore.
Un minuto.
Due.
Tre.
Quattro.
Cinque,
Finché non appuro il fatto di essere l’unica rimasta sveglia nella
casa.
Scendo le scale con esagerata prudenza. E poi arrivo al piano di
sotto.
Quello più ricco.
Quello più ornato.
L’obbiettivo della serata.
Raggiungo la cucina e apro il mobile dove sono contenuti i sacchetti.
Me lo sono fatta dire apposta, quella sera, con la scusa di voler cambiare
quello del cestino dell’ufficio del signor Ahent, il defunto marito di
Margaret.
Ne prendo un paio e mi dirigo nel salone principale.
Al centro, un tavolo pieno di cimeli preziosi e importanti nelle
memorie familiari.
Ai lati della stanza, vetrine piene d’argenteria e suppellettili di
rara manifattura.
Non mi hanno mai detto di rubare contanti o oro.
"Solo quello che trovi nei salotti. Non andare mai nelle camere da
letto".
Con un nodo alla gola e le lacrime secche sulle guance, apro la prima
vetrina e metto gli oggetti più preziosi nel primo sacchetto, a motivi
marroni e beige.
L’ho quasi riempito, quando un fruscio di vestaglia s’insinua nelle mie
orecchie.
- Marina?!
Il sangue gela nelle mie vene.
Il cervello smette di pensare e il soprammobile a forma di cavallo che
tenevo in mano mi cade rovinosamente a terra, con un rumore tagliente.
- Che cosa stai facendo?
- Lo sai benissimo cosa sto facendo, Margaret.
Non avrei voluto dirlo, ma i pensieri si sono tramutati all’istante in
parole e la sincera verità è scaturita libera dalla mia bocca.
- Perché lo fai?
Questa volta mi mordo la lingua, per non parlare.
-
- Arresto la mia corsa.
- Porto un braccio agli occhi, per asciugarli dalle
lacrime.
- Non voglio piangere.
- Mi ero ripromessa di non farlo mai più, per quel
ricordo.
Afferro svelta un coltello appartenuto al signor Ahent e lo punto
contro Margaret.
È corsa al telefono per chiamare la polizia.
Non deve farlo. Non devo essere scoperta.
Piango.
Singhiozzo.
Soffro, moltissimo.
Mi avvicino a lei, la mano tremante.
Aggancia la cornetta di masonite nera e mi guarda con occhi
allarmati.
- Non lo fare Marina. Non lo dico per me: ormai sono vecchia e dovrò
morire; ma per te, perché ti rovineresti la vita... te lo assicuro. Non lo
fare!
Scuoto la testa con violenza e urlo.
- Stai zitta!
Lei arretra. Ma dopo pochi passi la sua schiena incontra i mattoni del
muro.
Faccio un balzo in avanti e le sono addosso.
- Scusami Margaret! Scusami veramente tanto!
Affondo il coltello nel suo petto.
Con forza e convinzione; ne sono subito pentita.
Sussurra dolcemente, come se fossi sua figlia, da sempre.
- Va tutto bene, Marina... tutto bene...
- Ma non andava tutto bene.
- Non andava bene assolutamente niente!
- Una bimba di dieci anni era marcata dall’orrore di un
delitto.
- I suoi occhi erano velati da lacrime di rancore e
rimorso.
- Le sue mani, imbrattate del sangue di una donna che
l’aveva amata.
- Se tutto questo andava bene, allora il mondo è una
causa persa.
- Mi asciugo le lacrime.
- Me ne infischio della promessa.
Il giorno dopo l’omicidio, la banda mi festeggia.
A modo loro sono diventata grande. Ho ottenuto la tanto agognata
fiducia.
Ma io non gioisco.
Io non canto ubriaca nel giardino in fiore.
Mi sono allontanata dalla tavola imbandita d’ogni prelibatezza e ho
raggiunto il pergolato delle rose. È il mio posto preferito. Da
sempre.
Non mi piace particolarmente l’odore delle rose, ma adoro il loro
colore.
Rosso come il fuoco.
O bianco come la neve dell’inverno scorso. La prima nevicata di tutta
la mia vita.
Ricordo di esserne rimasta colpita.
Pensavo che una cosa tanto bella e delicata dovesse essere anche
calda.
Mi pareva un’ingiustizia.
Ma ieri ho capito che il mondo è ingiusto.
Mi sdraio su una panchina verde del giardino. Alzo gli occhi e osservo
le stelle brillare sulla trapunta candida della notte.
I miei occhi glaciali si perdono tra tutti i luccichii; le mie lacrime
si confondo nel bagliore notturno.
Tirò su col naso e mi giro su un lato.
Porto le gambe al petto e le braccia sotto la testa.
Contemplo la bellezza delle rose.
La purezza di quelle bianche è imbrattata dalla tonalità violenta di
quelle vermiglie.
Intrecciano i loro toni in una trama unica e magica. La coperta del
mondo.
Tra le immagini della mia mente s’infiltra anche quella di
Margaret.
Sono rimasta profondamente colpita dal suo sguardo vacuo, dopo che l’ho
uccisa.
Aveva un sorriso malinconico sulle labbra e una lacrima invisibile sul
volto che, se avesse avuto la possibilità, avrebbe pianto.
"Perlomeno, ha aggiunto il signor Ahent".
Cerco di tranquillizzarmi con quella constatazione, ma mi agito ancora
di più.
Passano le ore e io non riesco a dormire.
Lo scopo dell’andare nel pergolato, infatti, era sempre quello di
dormire.
Quando ero piccola funzionava. Sì, perché adesso sono
grande...
- Ho ripreso a correre da circa mezz’ora.
- Le gambe invocano un istante di pausa, ma io persisto
in questa maratona contro me stessa.
- Voglio sudare. Voglio perdere la percezione delle
gambe. Voglio affaticarmi.
- Voglio questo, per poter trovare pace, almeno nel
prossimo sonno.
- Dopo un ulteriore tornante, giungo alla base.
- È una piccola villetta con un giardino enorme.
- Siamo in sette ad abitarci, normalmente, ma il più
delle volte il numero degli inquilini sale fino a venti.
- La mia camera è all’ultimo piano, in una piccola
torretta dove arriva sempre pochissima luce.
- Spalanco la porta d’ingresso ed arrivo al salone
principale attraversando un corridoio angusto alle cui pareti sono appesi
orribili quadri dei miei fratellastri.
- Vantano la fama di grandi pittori, ma, in realtà, le
loro opere servono solo come mezzo per il trasporto della droga.
- Anche in quelli alle pareti, ne sono certa, ci sono
piccole quantità di stupefacenti.
- Non dovrei saperlo, secondo il mio patrigno, perché
sono ancora troppo piccola; ma sono diciassette anni che abito in questa casa,
con queste persone. Ho imparato a conoscerle e a comprenderne i gesti.
- Le capisco meglio di loro stessi.
- - Salve a tutti.
- La mia voce è neutra, quasi infelice.
- - E’ arrivata la piccoletta!
- Mio fratello più grande, quello cui sono più
affezionata e che tiene più a me, mi viene incontro e mi abbraccia.
- Sussurra al mio orecchio.
- - Mi dispiace, tanto!
- Lui sa come mi sento.
- È l’unica persona con cui, raramente, mi confido.
- Il nostro legame non è superficiale come quello che
ho instaurato con gli altri membri.
- Posso sempre contare su di lui.
- Intreccio le dita tra i suoi capelli ramati e ricci e
annuso l’odore del suo petto.
- Lo stringo più forte, come se temessi di perderlo.
- Lui mi accarezza la schiena con la mano ruvida e mi
bacia i capelli.
- Gli unici gesti d’affetto che mi concedo sono quelli
con lui.
- Il suo braccio s’immobilizza, le sue dita stringono
convulse i miei fianchi, il suo petto trema di rabbia.
- Alza gli occhi per osservare la sua espressione. È
atona e priva d’emozioni.
- Seguo con la mente il suo sguardo.
- Il mio patrigno è entrato.
- Ecco il motivo di tanta agitazione.
- Mi allontana all’istante e, fingendo indifferenza, si
reca in un’altra stanza.
- - Ciao Simone.
- - Papà.
- Non ha mai sopportato che lo chiami per nome. Anche
se non è realmente mio padre pretende di essere nominato come tale da me.
- - Com’è andata?
- Sento il petto stringersi e le gambe farsi molli nel
rimembrare ciò che ho compiuto quella stessa notte.
- - Ho adempito il mio compito. Sono morti...tutti.
- - Tutti quelli che dovevi uccidere, suppongo...
- Devo sempre lasciare una persona viva. Perché mio
padre possa minacciarla di morte e ricevere soldi da essa.
- - Certo...tutti tranne Marletti.
- Si avvicina con aria austera a me. Si ferma al mio
fianco e mi snocciola un sorriso soddisfatto.
- Passa una mano tra i miei capelli e si allontana.
- Rimango immobile nel centro del salotto.
- I capelli arruffati sul viso stanco; il corpo rigido,
incapace di compiere alcuna azione.
- - Simone!
- Una piccola bambina dai capelli chiari mi raggiunge
allegra.
- Mi salta in braccio e, d’istinto, le afferro le
gambe, esili e sporche di terra.
- - Sei tornata! Mi sei mancata tanto, sai...nessuno
voleva giocare con me in giardino, ma poi è arrivato Giulio e siamo andati al
parco, sull’altalena...mi sono divertita, ma è più bello quando ci sei tu a
spingermi!
- Socchiudo gli occhi, addolorata dalla spontaneità
della frase e dall’innocenza della sua voce.
- Le stringo uno dei codini con cui si è pettinata i
capelli, sorreggendola con la forza di un solo braccio.
- - Sono contenta che almeno tu ti sia divertita.
- Maddalena salta giù dal mio petto e si porta le mani
ai fianchi, cercando di sembrare più grande e più decisa.
- - Tu dove sei stata?-
- Ecco il motivo di tanta serietà nel prendere quella
posa.
- Ogni volta che torno a casa dopo un omicidio, mi
chiede dove sono stata.
- - Lo sai che non posso dirtelo.
- Potrei. Il mio patrigno vuole che io le parli
liberamente delle mie azioni, per abituarla alle malignità della sua famiglia,
ma io desidero preservare la sua infanzia.
- Voglio che i suoi sogni siano fatti ancora di fate e
principesse. Che le sue paure più grandi siano i draghi e le streghe cattive.
- Deve rimanere una bambina.
- Deve crescere come ragazza.
- Diventare donna in un mondo migliore, tra persone che
meritano la sua purezza.
- - Ma io lo voglio sapere!
- Si avvicina alle mie gambe e mi tira il bordo dei
pantaloncini.
- I suoi occhi vivaci m’implorano.
- - Ti prego?!
- Sciolgo la sua presa e mi allontano da lei.
- - Non devi saperlo!
- Non vorrei urlare, ma è quello che sto facendo.
- - Lo vuoi capire che non sono favole?! È brutto
quello che faccio e tu non devi saperlo.
- Prendo fiato, dopo tanta brutalità.
- Gli occhi della bambina s’inumidiscono di lacrime, ma
le nasconde dietro una delle sue minute mani.
- Sospiro. Mi accovaccio al suo fianco e le bacio le
manine sporche di polvere mista ad acqua.
- Lei le allontana dal viso e le mette nelle ampie
tasche del suo vestitino violetto.
- - Non volevo spaventarti.
- È vero.
- - È una cosa proprio brutta?
- Sbatto le palpebre di fronte alla maturità che
dimostra rivolgendomi quella domanda.
- - Sì. È la cosa più brutta del mondo.
- La abbraccio, avvolgendola completamente tra le mie
braccia.
- - Ma ci sono io, qui. Ti prometto che a te non
succederanno quelle cose brutte. Non devi avere paura.
- Si divincola. Mi guarda negli occhi e sorride.
- - Allora va bene.
- Corre via. Il giardino è illuminato dal sole allegro
di una giornata estiva e serena.
- Il suo vestitino svolazza ai capricci del vento
caldo.
- Si volta e mi urla una domanda.
- - Vieni a giocare anche tu?
- Sorrido malinconica dietro una maschera di gioia.
- - Forse dopo.
- Mi volto e salgo i gradini marmorei che dividono il
resto della casa dalla mia stanza.
- Sbatto a porta, richiudendola e mi sdraio esausta sul
letto.
- Affondo il volto nel cuscino morbido, nel vano
tentativo di dormire.
- Non ci riuscirò, lo so.
- Chiudo gli occhi, accogliendo rilassata l’oscurità.
- Le persiane di legno della mia stanza sono sempre
chiuse. La luce che penetra attraverso le finestre è fioca. L’aria umida e
afosa.
- La mia camera era una soffitta.
- Le travi di legno del soffitto sono marce e i topi si
rincorrono su di esse.
- Ma io non ci faccio caso.
- Per me questa stanza è perfetta.
- Non ho mai amato la luce.
- È una camera piccolissima e spoglia, arredata solo da
un letto, una scrivania che funge anche da cassettiera e una sedia a dondolo.
- In un angolo, c’è un baule di legno solido e scuro. È
coperto da un antico tappeto dalla trama complicata e dai colori sbiaditi.
- Apro la cassa solo quando torno da un omicidio.
- Al suo interno, ripongo un oggetto che ho prelevato
sul luogo dove ho svolto il mio atroce compito.
- Questa volta ho portato via una scatola di
cioccolatini.
- La copertura degli uomini che ho ucciso, infatti, era
che fossero operai in una fabbrica di dolciumi. In realtà erano produttori di
banconote false su larga scala.
- Creavano le banconote di tutta l’Europa e anche di
qualche paese estero.
- Mi alzo a fatica dal materasso scomodo; i muscoli
delle gambe dolgono dopo la corsa di questa notte.
- Tiro fuori della tasca dei pantaloncini una piccola
scatoletta rossa, adornata da un fiocchetto rosa e da uno blu.
- Non l’ho neanche aperta, ma percepisco l’odore del
ripieno al liquore fino a qui.
- Mi avvicino al cassone; sollevo il tappeto con cura,
per non far sprigionare la polvere al suo interno, e lo ripongo sulla sedia a
dondolo.
- Senza troppa fatica, isso il coperchio del baule.
- Osservo con mesta indifferenza gli oggetti riposti in
esso.
- Ci sono troppe cose.
- Troppi simboli delle mie debolezze.
- In un angolo luccica la piccola suppellettile a forma
di cavallo che ho preso da casa Ahent. L’ho riparato come meglio ho potuto.
- Alla memoria riaffiorano nuovamente ricordi
insopportabilmente dolorosi.
- Scaglio innervosita la scatola di cioccolatini nella
cassa e la richiudo.
- La mente piena di rimorsi.
- Le mani tremanti al ricordo di tanta ed inaudita
violenza.
- Rimango pietrificata di fronte alla finestra chiusa.
- Tra le stecche delle gelosie riesco a vedere Giulio e
Maddalena giocare.
- Sento le loro risa gioiose.
- Hanno dieci anni. Proprio come me quando ho compiuto
il mio primo omicidio.
- Le lacrime iniziano a scorrere sul mio viso,
contratto da una smorfia di profondo dolore.
- In ogni libro, in ogni scatola, in ognuna delle cose
contenute nel baule, risuona indistinta la mia voce che giura a me stessa
- "Questa volta sarà l’ultima".
- Quando volto le spalle all’edificio in cui ho deciso
di stroncare le vite di persone innocenti, mi riprometto di scappare da quelle
atrocità.
- Obbligo la mia mente a credere che non ricadrò più
negli stessi errori.
- Ma poi ogni volta non è l’ultima.
- Le grida di dolore non faranno da tappo ad un vaso
d’infiniti pianti e d’altrettanti lutti.
- E così ricomincio da capo. Un nuovo assassinio. Una
nuova vittima. Un altro rimorso nel cuore.
- Mi siedo sul bordo del letto e osservo la scrivania
di fronte a me.
- È vuota. Inutile. Non serve a niente, ma è lì, perché
qualcuno prima di me ce l’ha messa.
- E io sono come lei.
- Sono come ogni effimero fiore che sboccia sul prato
del giardino.
- Qualcuno lo calpesterà e la sua vita cesserà di
scorrere.
- Io spero tanto che qualcuno mi calpesti.
- Perché io voglio morire. Voglio porre fine alle mie
spregevoli azioni.
- Ma non ne sono in grado. Non ho la volontà necessaria
a portarmi una pistola alla tempia e premere il grilletto.
- Posso uccidere qualcuno che non conosco.
- Posso osservare nei suoi occhi il riflesso della
morte, ma non riesco a rendermi partecipe di tale sofferenza.
- Chiudo gli occhi e mi asciugo le lacrime.
- Il letto è situato accanto ad una parete scrostata e
piena di crepe.
- Appoggio la schiena al muro e osservo il soffitto.
- Alcuni raggi di sole trapassano le travi e feriscono
i miei occhi con la loro luminosità.
- Intreccio le braccia dietro la testa e tiro un lungo
sospiro.
- Toc toc.
- Qualcuno bussa alla mia porta, con una certa
veemenza.
- - Chi è?
- - Sono io, devo parlarti.
- Mi alzo dal letto e mi ricompongo i vestiti.
- Il mio patrigno mi vuole vedere sempre in ordine.
Davanti a lui non posso manifestare debolezze. Devo essere seria e attenta ad
ogni sua parola.
- - Vieni pure, papà.
- Apre la porta e con stizza arriccia il naso.
- - Cos’è questa puzza?!
- Inizia a girare per la stanza. La suola dura delle
sue eleganti scarpe nere scricchiola a contatto col parquet.
- Indossa un raffinato completo bianco.
- Fuma, come suo solito, un sigaro cubano e col fumo,
impesta l’aria della stanza.
- Sferra una gomitata alla sedia a dondolo e ci si
siede sopra.
- Temo che possa rompersi da un momento all’altro,
considerata la stazza molto pesante dell’uomo.
- - Dovresti aprire la finestra, ogni tanto, Simone!
- Inspira una profonda boccata di nicotina e poi la
espelle dalla sua bocca. Una nuvoletta grigia gli circonda la testa.
- Io sono ancora in piedi, davanti alla porta.
- - Non mi dare le spalle, signorina!
- Mi giro velocemente. È meglio non infastidirlo,
quando è già nervoso.
- - Così va meglio...
- Un’altra alitata di fumo invade la stanza.
- - Beh...non mi racconti niente della tua nottata.
Sono molto interessato...ti ascolto.
- Non so cosa dirgli. La mia procedura è sempre la
stessa, i dettagli cambiano, ma per lui sono insignificanti.
- - Ho aspettato che si radunassero per imballare la
merce contraffatta e poi ho sparato un colpo in testa ad ognuno si loro.
- Dalla mia voce non trapela incertezza.
- - Mm...bene. Sono soddisfatto, come al solito!
- Una risata cupa e gutturale rimbalza sulle pareti e
riecheggia in tutto il perimetro della camera.
- - Bene...stasera dovrai andare a casa di Marletti e
minacciarlo per bene.
- Spalanco gli occhi.
- - Stasera?!
- Lui spegne il sigaro sulla scrivania e, con calma,
incrocia le mani sulla camicia gialla.
- - Sì, stasera. C’è qualche problema?
- Le parole incespicano nella gola, prima di venire
pronunciate.
- - Oggi sarebbe il mio compleanno e stasera pensavo di
fare qualcosa con...
- La sua voce fredda e cupa interrompe la mia
richiesta.
- - Allora buon compleanno...
- Si alza innervosito dalla piega che ha preso il
discorso e si avvicina alla porta.
- Stringe il pomello tra le mani e poi si volta verso
di me, per un’ultima volta.
- - Ma, stasera, la tua unica "festa" sarà a casa
Marletti! Ci siamo capiti vero?!
- Abbasso lo sguardo, infastidita dalla sua prepotenza.
- - Si, certo.
- - Bene...
- Esce in fretta dalla stanza e io mi siedo dove poco
fa era appollaiato il mio patrigno. Malvagio capo mafioso di una grande banda
di criminali.
- Spalanco la finestra per permettere al fumo di uscire
e all’aria di risanarsi da quell’acre odore.
- - Stasera...
- Mi butto sul letto, ma non posso dormire con l’idea
di essere in procinto di compiere una nuova minaccia.
- - Cazzo!
- Urlo a me stessa. A quella me stessa che vorrei
uscisse dal mio cuore e prendesse il controllo del mio corpo.
- Perché lei sarebbe capace di mettere fine a questa
situazione. Saprebbe scappare e non essere inseguita. Ma io non sono in grado
di liberarla.
-
-
- La sera è arrivata in fretta e, prima che il sole
tramonti all’orizzonte, devo prepararmi ed uscire.
- Mi sfilo i pantaloncini e infilo un paio di jeans
neri e stretti.
- Mi tolgo anche la maglietta. Troppo colorata per la
notte. Eccessivamente sbarazzina per una signora quale la luna. Indice fuori
luogo di una spensieratezza inesistente.
- Indosso un maglione grigio.
- Le scarpe da ginnastica nere e poi mi lego i capelli
in una coda.
- Apro la porta e con lo sguardo saluto il mio alter
ego che rimarrà in quella stanza.
- Ad uscire sarò solo io. Solo la Simone malvagia.
Vigliacca. Incapace di reagire.
- Scendo correndo le scale.
- Il salone è deserto, come anche il corridoio e il
cortile.
- "Sono andati al ristorante...!"
- A questo pensiero, sento ammontare una rabbia
incontenibile al mio interno.
- Infilo le mani in tasca e, uscendo, osservo la
facciata bianca della villa.
- - Vaffanculo!!!
- Urlo con quanto più fiato ho in gola.
- Urlo perché vorrei essere anche io al ristorante.
- Perché odio tutto ciò che quella casa rappresenta:
una vita dedita a malvagità, un patrigno ingiusto, una bambina senza
protezione dal mondo che la attende nel futuro.
- Sprofondo le mani nei capelli e m’inginocchio davanti
alla mia vita.
- - Toglietemela! Toglietemi questa vita di merda!
Fatemi scappare!
- Invocazioni disperate di un’anima vuota. Di una
ragazza vittima di scelte errate e predatrice di morti ingiuste.
- - Basta!
- Grida di una mente in balia del delirio.
- Il silenzio avvolge ogni oggetto della campagna.
- Mi assale e mi spaventa.
- Mi rialzo con la gola dolorante e le lacrime
intrappolate in occhi abituati alle ingiustizie.
- Comincio a correre per raggiungere la città il prima
possibile.
- Non osservo il mondo che mi scorre affianco.
- Non godo del fuoco che brucia il sole all’orizzonte.
- Continuo a correre nella mia infausta direzione,
senza rendermi conto di nulla.
- Sono sconcertata da me stessa.
- Disgustata da ogni mia cellula.
- E vorrei piangere e urlare, ancora e per sempre. Per demolire le mie sensazioni,
per ricominciare a provare delle emozioni concrete.
- I miei piedi battono sul terreno irregolare e le mie
gambe invocano una pausa. Ma la mia mente è impegnata in pensieri più
importanti e più significativi.
- E anche se i miei arti gemono di dolore, non li
ascolterò.
- Sono quasi arrivata alla periferia della città.
- "Marletti abita vicino alla fabbrica, dovrei
sbrigarmela in fretta".
- Accelero il passo.
- "Devo arrivare prima che posso, per finire subito".
- Mi arresto dopo un’ora di corsa ininterrotta.
- Sono arrivata. Adesso arriva la parte più difficile.
Quella che richiede freddezza e razionalità.
- Mi trovo di fronte ad una villetta di città.
- I mattoni della casa tendono al rosso e il cancello
che contorna il giardino è verde acceso.
- Ci sono molti alberi.
- Un bambino gioca in mezzo ai fiori colorati insieme
ad un cagnolino di piccole dimensioni.
- Non mi resta che aspettare che tutti stiano dormendo,
poi potrò entrare in azione.
- Mi nascondo dietro un angolo riparato dal buio delle
ore serali.
- Sento il bambino ridere e il cagnolino abbaiare Sono così felici.
Adesso.
- Quando dovranno trasferirsi, cambiare città perché
loro padre è stato minacciato di morte, i loro sorrisi saranno oscurati dalla
triste ombra della paura.
- La porta d’entrata si apre con un leggero
scricchiolio. Stringo la pistola al petto.
- - Tesoro, la cena è pronta. Vieni che sennò si
fredda!
- "E’ solo la madre che lo richiama per la cena!
Stupida!"
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