And wilt thou weep when
I am low?
{Sweet
lady!
speak those words again:
Yet if they grieve thee, say not so-
I would not give that bosom pain.}
Constance
è morta.
Violet
lo scopre quasi per caso, mentre passeggia senza meta nel giardino
silenzioso
della casa, nel punto in cui i rami degli alberi sono talmente
appesantiti da
tendere verso terra per sfiorare i fili d’erba con le loro
protuberanze adunche
e arcuate, simili ad artigli.
È
un caso che si trovi lì – ultimamente esce poco,
prediligendo il riparo della
sua camera, dove tiene tende e imposte chiuse per impedirsi di gettare
uno
sguardo all’esterno e rammentare tutto ciò che ha
perso per colpa di lui – e si rende conto
che è stato
qualcosa al di là della sua volontà a spingerla
ad uscire. Qualcuno dei
fantasmi – preferisce non soffermarsi su chi
in particolare – direbbe che sono state le voci della casa a
metterle l’idea in
testa, ma Violet non crede a queste stronzate – o meglio,
preferisce non
crederci. Ad ogni modo ne ha approfittato per fumare una sigaretta
– ormai le
fuma con parsimonia, centellinandole, perché anche se ad
Halloween può uscire a
comprarne (rubarne) delle altre,
mancano ancora sette mesi al suo unico giorno di libertà e
non può permettersi
di rimanere senza – ed è stato mentre ne espelle
il fumo acre che ha fatto la
sua scoperta.
Oltre
la fitta siepe lungo la recinzione della Murder House, nella casa
adiacente,
poliziotti e paramedici stanno facendo avanti e indietro
dall’abitazione,
occupando il portico e il vialetto. In strada un’ambulanza ha
le portiere
posteriori aperte e la luce rossa ancora lampeggiante, ma la sirena
è spenta,
segno che non c’è più
l’urgenza di raggiugere l’ospedale. Due volanti
della
polizia sono parcheggiate di sbieco, e intorno ad esse una folla di
curiosi
accorsi da tutto il vicinato riempie l’aria di sussurri
concitati.
Le tragedie
attirano i ficcanaso come il miele le api, pensa amaramente.
Non che il quartiere sia
estraneo a questi eventi: considerando la triste fama della Murder
House, in
passato deve aver assistito ad almeno un omicidio a settimana. Eppure
eccoli
lì, i vivi, pronti a nutrirsi dei drammi altrui!
Violet
inspira un’altra boccata di fumo, lo assapora lentamente, poi
lo rilascia. Lo
spettacolo a cui sta assistendo non le fa più effetto di
quanto le farebbe
schiacciare una mosca, perché ormai è prigioniera
di quella casa maledetta da
più tempo di quanto non sia stata viva. Che
diamine, ha visto il suo stesso cadavere mangiato dalle mosche e dai
vermi,
cosa ci potrà mai essere di peggio?
All’inizio il suo pensiero non corre
neanche a Constance – quanto piuttosto alla sua donna delle
pulizie, dato che,
come Moira stessa può testimoniare, non è molto
sicuro essere alle dipendenze
di quella donna. Ma poi vede tale signora uscire tremante e piangente
dalla
casa accompagnata da un giovane infermiere, e finalmente inizia a
sentire anche
lei qualcosa: una cupa e macabra curiosità.
Curiosità
che viene saziata prima che abbia il tempo di finire la sigaretta.
Finalmente
dalla porta d’ingresso viene trasportata fuori una barella, e
anche se i
paramedici cercano di farle scudo con i propri corpi per impedire a chi
osserva
la scena di scattare fotografie di quel lugubre show, è
palese che là sopra,
accuratamente coperto da un telo scuro, ci sia un cadavere.
Violet
quasi spera che gli infermieri inciampino e lo lascino cadere,
così che lei
possa vedere chi è lo sfortunato
–
anche se ovviamente ne ha già una chiara idea – ma
là fuori i suoi desideri non
hanno giurisdizione; così il cadavere viene consegnato
all’oblio misericordioso
dell’ambulanza, le porte sigillate dietro di esso e il mondo
sbattuto fuori
insieme alla sua delusione.
La
sigaretta finisce e Violet la getta per terra, schiacciandola con la
suola
logora della propria scarpa. Sta quasi per rientrare in casa
– ormai fuori non
c’è più niente da vedere, e quel breve
guizzo di interesse le è già passato –
quando un movimento sulla soglia di casa Langdon attira la sua
attenzione. Un
ragazzo è fermo sull’uscio, rigido e immobile come
una statua – anche con un
cappuccio in testa a coprire quei folti capelli biondi Violet lo
riconoscerebbe
tra mille – e il suo sguardo non è puntato verso
l’ambulanza né verso il poliziotto
che gli sta parlando. No, i suoi occhi azzurri sono puntati oltre la
sua
tragedia, oltre il giardino, oltre la siepe, esattamente su
di lei.
Non
importa che Violet si sia resa invisibile a ogni occhio mortale
– lui non è mai
stato umano, in fondo. E la vede, la vede come se si trovasse al suo
fianco, e lui non ha paura dei fantasmi, non ne ha
mai avuta, e quando si accorge di avere la sua attenzione le
sorride.
È
un sorriso che fa paura, il sorriso del gatto che ha inghiottito il
topo, o
dell’assassino che ha appena compiuto un omicidio e
l’ha fatta franca. Violet
rabbrividisce e indietreggia di un passo, involontariamente,
dimostrando al
ragazzo che a quanto pare sono i fantasmi a temerlo, e non viceversa.
Subito si
odia per quella manifestazione di debolezza e raddrizza schiena e
spalle,
ricambiando lo sguardo con un’aria – almeno
così spera – abbastanza severa e
altezzosa da rimediare alla misera figura appena fatta.
L’unica reazione che
ottiene da lui è di accrescere il suo sorriso, che tuttavia
svanisce non appena
torna a rivolgersi al poliziotto con quella che ha tutta
l’aria di essere
un’espressione triste e smarrita, ignorando completamente il
fantasma al di là
della siepe.
Brutto stronzo, lo insulta Violet mentalmente,
stringendo gli occhi e incrociando le braccia. Chi si crede
di essere? Dovrebbe rispettare un po’ di più gli
abitanti
della Murder House, anziché prendersene gioco.
Il
suo sguardo irritato torna a posarsi sull’ambulanza, e
malgrado tutto qualcosa
dentro di lei si incrina. Non è dispiaciuta per Constance in
sé, quanto
piuttosto per il fatto che, con lei, se ne va l’ultimo legame
che aveva con il
mondo esterno, con il mondo dei vivi – il fragile filo che
ancora le impediva
di sentirsi davvero morta. Di tanto
in tanto la donna sgattaiolava ancora nella casa – non
è mai riuscita a levarsi
quella brutta abitudine – saliva nell’attico per
trovare Beau e scendeva nel
seminterrato per salutare Travis – qualche volta incontrava
anche l’altro
figlio, ma erano momenti rari che in genere si concludevano con una
battuta
sferzante del ragazzo e le lacrime di coccodrillo della madre
– e poi, se gli
altri fantasmi erano in vena di ricevere visite, passava per un saluto
veloce
anche a Moira e Vivien.
Dovrà dare anche a
loro la notizia, sempre se non l’hanno già scoperto,
riflette. Per quanto fosse
sempre stata una persona irritante e invadente, la sua morte avrebbe di
sicuro
portato un briciolo di tristezza. Forse. Ripensandoci, forse no.
Comunque,
Constance è morta, e a quanto pare è stata uccisa
nientemeno che dal suo stesso
nipote – il nipote che amava più di ogni altra
cosa al mondo, a cui aveva
votato gli ultimi tristi anni della sua vita come se fosse
l’unico modo di fare
ammenda per i suoi numerosi peccati passati.
Come
i fatti hanno appena dimostrato, i suoi sforzi si sono rivelati inutili.
Quando
si volta per rientrare in casa, al sicuro,
si accorge di non essere stata l’unica ad aver assistito
all’intera scena.
Qualcun altro le ha fatto inconsapevolmente compagnia –
è ritto davanti alla finestra
del corridoio del secondo piano, immerso nell’ombra, vestito
di nero dalla
testa ai piedi: Violet avrebbe dovuto immaginare che lui
non si sarebbe perso un simile evento. Chissà che
soddisfazione
doveva provare, nel vedere che finalmente la causa della maggior parte
dei suoi
problemi era morta, ed era morta lontano da quella casa che le avrebbe
garantito una sorta di eterna vita terrena?
Eppure
sul volto di Tate si legge tutto fuorché sollievo, o
soddisfazione. I suoi
occhi sono vuoti ma cerchiati di rosso, come ormai lo sono quasi ogni
volta che
le capita di incrociare il suo sguardo – deve aver pianto
parecchio,
ultimamente – e le sue labbra sono strette in una linea
sottile, pericolosa.
Per un attimo, Violet vede in lui la stessa espressione che ha visto
nella
faccia di Michael. Non sa se preoccuparsi, se spaventarsi – o
se fregarsene,
più che altro, perché davvero,
che
cosa gliene importa di quello che prova Tate nell’aver
scoperto che suo figlio
ha ucciso la donna che avrebbe voluto ammazzare lui? –
così, nel dubbio, rotea
gli occhi e scrolla le spalle.
Non
ha tempo per quelle stronzate, decide. Ha già abbastanza
rabbia e rancori
repressi per permettere che quell’incidente si aggiunga alla
lunga lista di
motivi per cui disprezzare la sua attuale esistenza.
È
un problema di Tate, quello, e lei ha giurato diverse volte sulle sue
stesse
ossa che Tate non sarebbe mai più stato un suo problema.
Ovviamente,
la casa non è d’accordo.
{My heart is sad, my
hopes are gone,
My
blood runs coldly through my breast;
And
when I perish, thou alone
Wilt
sigh above my place of rest.}
«È
stato lui.»
Violet
alza gli occhi dal libro che sta cercando di leggere ormai da diverse
settimane
senza riuscire a proseguire più di due paragrafi per volta
– un volume sulla psicologia
sgraffignato dalla collezione del padre – e li posa sul suo
ospite
indesiderato. Tate è ritto in mezzo alla stanza, pallido e
serio, gli occhi
scuri e ancora umidi di lacrime e cerchiati di rosso, le braccia
abbandonate
lungo i fianchi, le mani strette a pugno con così tanta
forza che le nocche
sono ormai bianche e le vene sul dorso sembrano pulsare, livide.
Vederlo lì, in
carne, ossa ed ectoplasma, fa sembrare la stanza tutto ad un tratto
più piccola,
claustrofobica, come se le pareti si stessero richiudendo su loro
stesse, collassando
e vertendo su di lui – come se
riconoscessero il loro vero padrone e lo accogliessero con nostalgia e
desiderio.
A
Violet basta sbattere due volte le palpebre per scacciare quella
stupida
immagine dalla testa.
In
realtà non è la prima volta che si parlano in
tutti gli anni trascorsi – anzi,
è capitato diverse volte che si incontrassero casualmente in
qualche corridoio
o nell’attico, quando vanno a trascorrere un po’ di
tempo con Beau – ma è la
prima volta che lui appare nella sua (loro)
camera da letto, o perlomeno è la prima volta che si fa
vedere. Violet non è
stupida, sa che uno dei passatempi preferiti di Tate è
osservarla in silenzio
come lo psicopatico pervertito che è, ma
fintantoché il ragazzo rimane
invisibile per lei è facile ignorarlo e pretendere di essere
sola.
(È una situazione inquietante comunque,
ripensandoci:
lei non lo vede mai ma lo sente, sì, avverte la sua presenza
con un brivido
lungo tutta la schiena che è il campanello
d’allarme, sente il suo odore
dolorosamente familiare, ed è come se l’aria
presente nella stanza venga d’un
tratto risucchiata da una qualche forza malsana. A volte a dir la
verità le
capita di cogliere un lieve tremolio nell’aria con la coda
dell’occhio, un
guizzo di biondo, un lembo di pelle, ma quando poi si gira del tutto
capisce
che lui si è accorto di essere stato beccato ed è
sparito – lo capisce perché
poi può tornare a respirare normalmente.)
Eppure,
malgrado con quelle tre parole sussurrate lui abbia infranto
praticamente tutte
le tacite regole che in genere disciplinano la loro tregua, Violet non
se la
sente di mandarlo via. È stupido, se ne rende conto: Tate
non si merita questa
delicatezza da parte sua, questa tenerezza, questo tatto –
non si merita di
provare quella lieve e tremolante sensazione di speranza prodotta dal
fatto che
lui sia in quella camera da quasi cinque minuti e lei non gli abbia
ancora
urlato di sparire. Si è sempre vantata di essere migliore di
lui – Vivien le ripete
in continuazione di quanto sia orgogliosa della donna che è
diventata, si fa per dire – ed
è così che ha
intenzione di comportarsi: dopotutto sua madre è appena
morta, e per quanto
possa averla odiata quando era in vita, Violet scommetterebbe la sua
preziosa
scorta di sigarette che adesso Tate si senta da schifo.
Decide
quindi di mostrargli la compassione di cui lui è sempre
stato privo, e chiude
il libro con delicatezza quasi che un rumore un po’
più forte possa rovinare
quella strana atmosfera di quieta attesa. «Lo so»,
risponde semplicemente. «Hai
intenzione di fare qualcosa?»
Più
tardi Violet si chiederà se quella sua domanda, fatta in
realtà in completa
innocenza, non potesse essere interpretata come una qualche forma di
istigazione. Per ora, si limita ad osservare Tate, il capo leggermente
piegato
di lato come se stesse studiando il comportamento di un qualche animale
selvaggio rinchiuso dietro le sbarre d’acciaio di uno zoo.
È vagamente
incuriosita (è anche preoccupata, per lui,
ma questo non lo ammetterà mai neanche a se’
stessa) e per la prima volta dopo
tanto tempo non si sente del tutto indifferente a ciò che la
circonda. Chi
avrebbe immaginato che sarebbe servita l’ennesima morte per
scuoterla dal suo
torpore?
Tate
emette un suono che è a metà tra sbuffo e
singhiozzo.
«Non
fare domande di cui conosci già la risposta»,
replica con una voce spezzata, roca,
ripetendo qualcosa che le aveva detto tanto – tantissimo
– tempo prima, quando lei
aveva un vero battito cardiaco e la sua vita non si era ancora
trasformata nell’infinito
susseguirsi di un eterno e mortalmente
noioso presente.
Violet
scrolla le spalle, gli occhi ancora fissi su di lui (non le
è difficile, è
l’eterno bel ragazzo, non c’è niente di
male nel guardarlo e apprezzare la sua
bellezza dannata, davvero) e una
maschera abilmente costruita di impassibile distacco. «Non
potrai fare nulla fino
ad Halloween, comunque, e se Michael è intelligente come
sembra non sarà in
città quel giorno. E dubito che riuscirai a farlo entrare
qui in casa.»
Un’ombra
passa negli occhi cupi di Tate, un’ombra che Violet ha
imparato da tempo a temere – ad
attribuire al ragazzo che ha
ucciso a sangue freddo i suoi compagni di scuola e non al ragazzo con
cui giocava
a carte e che le sussurrava ti amo
sulle labbra e tra i capelli. «Lui appartiene a questa casa
più di quanto non
le apparteniamo noi. Ci verrà, perché
è arrogante, e vorrà vantarsi e gongolare
con me su quello che ha fatto.»
La
sua voce è bassa e pericolosa, ma in fondo lei non ha paura
– sa di non essere
la destinataria di quella rabbia e delle minacce che cela.
«Come fai a esserne
sicuro?»
Tate
si irrigidisce leggermente. «Sono suo padre.»
Ecco, è questo che
fa scattare qualcosa dentro di lei.
«No,
non lo sei.» Violet mette finalmente da parte il suo libro,
raddrizzandosi
contro la spalliera in ferro del letto e incrociando le braccia. Quella
risposta l’ha irritata, e se deve essere sincera è
già da un po’ di tempo che
muore dalla voglia di dirgli qualche parolina al riguardo.
«Non sei suo padre
solo perché gli hai fornito qualche cromosoma. Non sei suo
padre più di quanto
non lo sia Ben, ed è ora che tu lo capisca.» Oh
mio Dio, Violet, che cosa stai dicendo? Fermati prima che sia troppo
tardi – zitta zitta zitta zitta!
«È Constance che l’ha cresciuto. Gli ha
fatto da madre, e da padre, e tutti e due sappiamo quanto sia stata un
genitore
schifoso, in linea di massima. Se Michael è cresciuto
così, a prescindere dall’inferno
da cui è venuto, la responsabilità è
interamente di Constance. Si è
letteralmente allevata una serpe in seno, e di questo non puoi
incolpare te
stesso.»
Non
appena le ultime parole le escono di bocca, però, Violet se
ne pente. Ecco, hai fatto il danno. Brava, Violet
Harmon, davvero brava. Il tuo libro di psicologia non ti è
servito a niente,
allora? Non sai cosa si dice, sull’assecondare e compatire
uno psicopatico?
Ma non l’ha fatto
per confortarlo,
cerca disperatamente di convincersi, cercando di non riversare
all’esterno il
conflitto che la divora da dentro. L’ha
fatto per istruirlo, per non farlo cadere nella tentazione di
incolparsi per i
peccati di altri anziché concentrarsi sui suoi.
Ciò
nonostante, non può impedire che Tate la guardi con la
stessa espressione che
avrebbe un fervente cattolico all’apparizione miracolosa del
suo santo
protettore. Di sicuro non si è aspettato parole di conforto
quando ha deciso di
rendersi visibile a Violet – nella sua stanza, poi
– e adesso che invece quelle
parole aleggiano intorno a loro, pesanti, Tate pensa che forse, forse,
stavolta non verrà cacciato.
«Mi
fa piacere che la pensi così», mormora,
infilandosi le mani nelle tasche dei
jeans.
Scende
il silenzio. Quell’incontro non sta decisamente andando nella
direzione che
Tate aveva immaginato, né in quella che Violet si era
augurata: è strano
trovarsi così vicini e non avere più il diritto
di allungare una mano e
toccarsi, o sorridere, poiché uno qualsiasi di questi gesti
sarebbe ambiguo, e
alimenterebbe crudelmente una speranza che la ragazza non è
certa di voler
riaccendere. Neanche ora, per consolare il lutto del suo vecchio e
unico
fidanzato, neanche adesso, dopo venticinque anni.
Si
è abituata alla solitudine, in un certo senso – a
quella fisica, perché ormai
ha trascorso un numero infinito di notti da sola in quel letto o in un
qualche
altro angolo della casa, e a quella sentimentale, perché non
ha mai più amato
un altro con la stessa cieca e stupida passione con cui aveva amato
lui, un
tempo – e anche se fa male, anche se è doloroso,
anche se così facendo non fa
che rendere ancora più miserabile il suo inferno di sua
spontanea volontà,
Violet è sicura che niente, niente,
farà mai tornare le cose come erano una volta.
Dimenticare
è impossibile, e perdonare troppo difficile.
Arrivata
a quel punto non sa neanche più se si sta tenendo alla larga
da lui perché lo
odia per ciò che ha fatto alla sua famiglia o
perché riallacciare un rapporto
la farebbe sembrare una persona orribile e ipocrita, e lei deve
comunque trascorrere
l’eternità insieme ai suoi genitori. Forse, se
fossero solo loro due… se non
dovesse guardare tutti i santi giorni Vivien e Ben cullare quel bambino
–
davvero, non riesce ancora a considerarlo un fratello – ecco,
forse dimenticare
sarebbe più facile.
Ma
così non è, e siccome deve costantemente
confrontarsi con le conseguenze delle
stronzate di Tate, inciampandoci letteralmente sopra ogni volta che
esce dalla
sua camera, lasciar correre e riaccoglierlo a braccia aperte sembra un
quadro
sempre più improbabile.
Violet
sospira, passandosi una mano tra i capelli.
«Perché sei qui, Tate?»
All’improvviso
si sente stanca, sfinita – è lui che le fa
quell’effetto, che la prosciuga di
tutte le sue forze, che l’annienta con la sua sola presenza.
È sempre stato
così – perché si è convinta
che adesso che sono sullo stesso piano, che sono
alla pari, sarebbe stato diverso?
Quella
domanda – una domanda abbastanza semplice, in
realtà, e più che legittima –
sembra prenderlo alla sprovvista, e per una lunga e imbarazzante
manciata di
secondi il ragazzo si limita a rimanere lì, al centro della
stanza, ondeggiando
sui piedi e con gli occhi che vagano ovunque pur di non posarsi su di
lei. È
un’immagine che malgrado tutto le stringe il cuore
– andiamo, è il suo primo e
probabilmente anche unico vero amore, è
naturale che si senta ancora attratta da lui come lo è una
falena dalla luce,
no? – e sta quasi per dire che non importa,
davvero, non c’è bisogno di
rispondere, quando invece lui apre la bocca per farlo.
«Perché…
sei… ah… sei l’unica persona che volevo
vedere, in questo momento – l’unica,
sai, con cui… volevo parlare», mormora quasi
timidamente, incespicando sulle
parole, frammezzandole di umidi sospiri e singhiozzi.
«Nora… lei non capirebbe,
lo sai, e non credo che dirò a Beau di Constance, e tuo
padre… beh, a tuo padre
credo che vada bene se di tanto in tanto parliamo, ma, ecco,
non… Non volevo.
Tu… tu sei l’unica con cui voglio condividere
queste cose», conclude con un
tono di voce ancora più basso, tanto che Violet è
costretta a piegarsi
leggermente in avanti per cogliere le ultime parole.
E
quasi vorrebbe non averlo fatto, perché quando Tate tace, in
attesa di una
risposta che lei proprio non sa dargli, si sente gli occhi prudere
dalle
lacrime non versate, e deve quasi farsi violenza psicologica per
impedirsi di
piangere come una bambina davanti a lui. Certo, potrebbe sempre sparire
e
riapparire da qualche parte – dai suoi genitori, magari, per
avere l’impressione
di essere al sicuro – ma una simile reazione sembra sbagliata
sotto tutti i
punti di vista.
«Lo
so che è stupido», riprende lui con un mezzo
gemito, asciugandosi le lacrime
con l’orlo di una manica senza notare la reazione di Violet.
«È solo che… non
so, non so spiegarlo, ma qualsiasi cosa succeda è a
te… a te, che voglio dirla.
L’altro giorno ero in soffitta, stavo
giocando con Beau, e… e ho sentito dei rumori strani, quindi
ho dato
un’occhiata in giro e ho visto che c’era un nido,
nel sottotetto… pieno di uova,
e con un uccellino azzurro grande quanto il mio pugno. E la prima cosa
che ho
pensato è… lo devo dire a Vi…
ma poi…
poi mi sono ricordato che non potevo, e… e – ho
pianto. Non… non sono venuto
qui per farti pena, solo… Solo perché volevo
parlare… con te. Perché volevo
parlare con te.»
A
quel punto trattenere le lacrime è impossibile, e Violet le
lascia scorrere,
perché sfogarsi è più terapeutico che
tenersi tutto dentro – o perlomeno questa
è la teoria di suo padre. Non ha bisogno che il ragazzo
aggiunga altro, perché
lei lo sa, lo capisce, sa che cosa
intende: è, in effetti, la stessa cosa che succede a lei.
Ci
sarebbero mille cose che potrebbe ribattere, a volerla dire tutta:
potrebbe
essere cattiva e dirgli che usare la morte di sua madre non gli
dà il diritto
di venire in camera sua a piangere miseria, e potrebbe anche dirgli che
le sue
sono lacrime di coccodrillo, perché lui Constance
l’ha sempre odiata. Potrebbe persino
sottolineare che adesso può finalmente capire che cosa si
prova a sapere la
propria madre morta, e che davvero, lei dovrebbe essere
l’ultima persona sulla
faccia della terra in cui cercare un po’ di conforto.
Potrebbe mandarlo via,
aggiungendo dolore ad altro dolore, e proseguire con la lettura del suo
libro.
Ma
Violet decide di non fare nulla di tutto questo.
È
un sospiro rassegnato quello che scappa dalle labbra socchiuse, mentre
batte la
mano sul punto del materasso accanto a lei in un chiaro invito ad
avvicinarsi. «Vieni
qui, Tate», dice piano, senza guardarlo.
Per
un po’ non accade niente – pare che
l’intera casa stia trattenendo il respiro. Poi,
Violet sente il letto abbassarsi sotto il peso del suo nuovo occupante,
e
allora solleva gli occhi per vedere il ragazzo gattonare piano verso di
lei,
ancora indeciso, ancora sorpreso – anche un po’
spaventato? – e rimanere poi
immobile, senza toccarla, senza sapere bene che cosa ci si aspetta da
lui.
È
lei che allunga un braccio per prendergli la mano, gentilmente, e
attirarlo
verso di sé, e a quel punto Tate capisce e assume
istintivamente la sua
posizione preferita – accucciato nel letto di Violet, immerso
nel suo profumo,
con le sue braccia sottili avvolte intorno a lui e lei accoccolata
contro la sua
schiena. È una posizione che porta alla mente di entrambi
una lunga lista di
ricordi, più o meno amari – quante volte si sono
addormentati così,
semplicemente, ancora vestiti o completamente nudi, quando le cose tra
loro non
si erano ancora deteriorate e amarsi non faceva un torto a nessuno?
Violet l’ha
odiato tanto, per quello – sarebbe potuto essere sempre
così tra di loro, se
solo Tate non avesse mandato tutto a puttane per accontentare un
fantasma che
vive nel seminterrato e che a malapena è consapevole di
ciò che la circonda.
Cerca
di ignorare tutti questi pensieri mentre lo stringe contro di
sé, seppellendo
il viso nell’incavo del suo collo e inspirando il suo odore
familiare che sa di
polvere e lacrime e casa.
Non c’è nulla di
male a rimanere così per un po’,
pensa, cullandosi nel suo calore. Non cambierà niente tra di
loro, ma almeno
per una notte la farà sentire meglio. Meno
sola.
Il
silenzio adesso non è pesante; non la soffoca e non la
opprime, forse perché il
silenzio è oscurità e lei
quell’oscurità la sta tenendo tra le mani.
È
piacevole ascoltare il suo respiro spezzato – il suo pianto
non fa rumore, ma
Violet lo conosce abbastanza bene da accorgersi quando inghiotte i
singhiozzi
invece di lasciarli uscire – e muoversi seguendo
l’alzarsi e l’abbassarsi del
suo petto. Rimarrebbe così per sempre, se
potesse, pensa, ed è proprio quella consapevolezza
– la consapevolezza di amarlo ancora
– che le spezza il cuore.
«Sei
triste?» Gli domanda sottovoce, pur di distogliere la sua
mente da tetri
ragionamenti. Non è una cosa stupida da chiedere come sembra
– le lacrime di Tate
potrebbero essere causate dalla rabbia o dal nervoso o dal fatto di
trovarsi tra
le braccia di Violet o da tutto un altro insieme di cose. I suoi
sentimenti
sono sempre dannatamente complicati da decifrare –
chissà, forse è colpa del
suo bipolarismo.
Lui
non ribatte con una delle sue solite perfide battutine, e Violet sa di
aver
fatto la domanda giusta.
Tira
su col naso, aggrappandosi come un naufrago alla mano che lei gli tiene
sopra
il cuore, e fa di sì con la testa. «Credevo che
Constance non sarebbe mai morta»,
risponde con lo stesso tono. Lei non sa bene come interpretare questa
risposta
– è sollievo? Delusione? Rancore? –
così decide di non interpretarla affatto.
D’istinto
rafforza la stretta con cui lo tiene contro di sé, e si
preme se possibile
ancora di più contro la sua schiena. Le loro dita si
intrecciano, e senza
vederlo sente Tate che solleva la sua mano per portarsela alle labbra,
e
baciarle delicatamente i polpastrelli. Le sue labbra sono umide e
calde, e
Violet non si scosta.
Domani
mattina potrà anche fingere il contrario, ma le è
mancata questa intimità.
«È
solo per stanotte», ci tiene comunque a precisare, in un
sussurro – più per
convincere se stessa che lui.
Lui
annuisce. «Lo so», risponde piano.
Più
tardi si addormentano, ancora abbracciati.
{And yet, methinks, a
gleam of peace
Doth through my cloud of
anguish shine:
And for a while my
sorrows cease,
To know thy heart hath
felt for mine.}
________________________________________________________________________________
-
La
poesia frammentata tra i paragrafi è “And
wilt thou weep when I am low?” di lord Byron.
________________________________________________________________________________
Angolo Autrice.
Ormai io e i personaggi macabri/folli/psicopatici/che si dovrebbero far
vedere da uno bravo/e no Ben Harmon non
sto parlando di te/ andiamo letteralmente a braccetto.
Principe Azzurro? Relazione
sana? Che è? Roba che si mangia? xD [Ho una cotta per
Hannibal Lecter, okay?
Quindi quello che provo per Tate è davvero il minore dei
miei problemi ù__ù]
Comunque. Benché ormai ne sia praticamente ossessionata,
questa è la
prima volta che scrivo qualcosa su American Horror Story; dubito di
aver colto
il carattere di Tate (c’è qualcosa che non mi
convince in come l'ho reso, non so), mentre in fin
dei conti sono abbastanza soddisfatta di Violet…
Chissà, magari la prossima
volta miglioro. Non ho da aggiungere nulla alla storia, non credo che
ci siano
spiegazioni da dare – è solo un piccolo momento
della loro infinita eternità.
Non c’è niente da fare, malgrado tutto quello che
ha fatto Tate non riesco a
odiarlo, e nel mio piccolo cuoricino di fangirl sopravvive
l’idea che queste
due povere anime tormentate vivranno per sempre odiandosi e amandosi,
lasciandosi e riprendendosi, in un ciclo infinito (sì, nel
mio Headcanon Violet
in fin dei conti tornerà sempre da lui, e parafrasando
Catullo lo odierà se potrà, altrimenti
lo amerà suo
malgrado; ma questa è una storia per un altro
giorno).
Quindi, niente. In alto i calici per la morte di Constance –
no dai,
scherzo – e spero che abbiate gradito questi dieci minuti di
one-shot! Spero di
essere riuscita a dare un po’ di tenerezza a questi due
personaggi, che dopo
tutto l’angst che hanno attraversato direi che se la
meritano. xD
Detto questo, vi saluto! Grazie di aver letto, e buon proseguimento di
serata :)
La vostra
Niglia.
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