Nota importante: questa storia è ambientata nel
1996. Si
può notare da alcuni particolari (il più
importante: non
ci sono i cellulari.)
Per
lei
Autore: ellephedre
1.
Shun Yamato si svegliò con la gola secca e le
ginocchia che
colpivano il
tavolino del sedile anteriore dell'aereo. Afferrò
l'acqua prima che cadesse, la mano stretta attorno al bicchiere, il
polso che roteava scoprendo l'orologio. Dallo spiraglio di un
finestrino un
raggio di sole si riflesse sul quadrante. La luce lo
colpì dritto agli
occhi. Shun strizzò le palpebre e
guardò
oltre il doppio strato di vetro, verso il cielo azzurro fuori
dall'aereo.
Si era fatto
giorno. Dovevano trovarsi nelle vicinanze della East Coast.
Passò una hostess, la stessa donna solerte che gli
aveva
servito
i pasti durante il volo. Notando che era sveglio, lei si
fermò. «Stiamo per atterrare. Le ho
lasciato sul tavolino
il modulo per
la dogana.»
«Ariga...» Shun si schiarì la
gola e
passò
all'inglese. «Grazie.»
Prese in mano il modulo più per riflesso che
per utilità: non
aveva nulla da dichiarare. Sapeva cosa chiedeva quel foglio, non
era la prima volta che usciva dal Giappone. Era solamente la prima
volta che
lo lasciava per sempre. Chiuse gli occhi e si fece passare la
malinconia.
In futuro poteva tornare a Tokyo tutte le volte che voleva, le
vacanze erano fatte per questo. Magari non avrebbe rivisto
l'appartamento dove aveva vissuto negli
ultimi sei anni - prima o poi bisognava venderlo - ma poteva visitare
il suo quartiere e l'università che
aveva frequentato. Soprattutto, poteva andare a trovare il suo miglior
amico, Alexander.
Si era lasciato dietro tante cose nel paese che aveva chiamato
casa,
ma lo aveva fatto per un ottimo motivo. Era stato ammesso al
MIT
di Boston e quell'università era il punto
di
partenza per tutti i sogni che
aveva. Valeva qualunque sacrificio.
Per convincersi a partire, aveva cercato di non vedere rinunce
nella sua scelta. Come persona aveva un problema: si
attaccava troppo
alle
cose e ai luoghi. Erano la sua sicurezza, ma rinunciare
all'istruzione
eccellente a cui puntava da sempre sarebbe stato... già, da
idioti. In passato lo aveva fatto quando, dopo le
superiori, aveva
deciso di non partire.
Si era trovato bene in un posto in cui si era
sentito a casa, in una università che era stata
già ottima, e
con accanto l'unica persona di cui si fidava - Alexander, sempre lui,
l'unico vero amico che si fosse mai fatto nella sua vita.
Fox - come lo chiamava sin da quando si erano conosciuti, da bambini -
aveva fatto benissimo a trovarsi una ragazza fissa. Shun aveva
creduto che sarebbero stati compari solitari ancora per molti anni,
invece Alexander
aveva trovato Ami e lui era rimasto solo, come si
meritava.
Non aveva amato Sakura - la sua prima fidanzata, gentile e
disponibile - e non aveva ricambiato Rika, la sua relazione
più
importante - una ragazza dolce, disposta a volergli bene nonostante i
suoi difetti. Con Kazue aveva sperimentato, per vedere se dalla
compatibilità di carattere poteva nascere un'intesa
seria,
ma la cosa non aveva funzionato. Infine, Himeno... Con lei si era
solo divertito. Per allora aveva già saputo di dover
partire; ne era stata cosciente anche lei e nessuno si era fatto male.
Shun era una persona che aveva bisogno di pochi individui a
cui
affezionarsi. In Giappone gli era bastato Alexander, ma ora che si
staccava dal suo migliore amico... Sì, magari avrebbe avuto
un incentivo
maggiore a far funzionare una relazione. Non aveva paura di
innamorarsi; anzi, voleva che gli capitasse. Era una cosa pratica e
conveniente: ne derivavano compagnia continua, affetto e sesso a
volontà. Purtroppo non era riuscito a rendere
duratura quella combinazione di vantaggi. Si era
fortemente
limitato nel perseguire quello e altri obiettivi nella sua vita, per
timore del cambiamento - la paura di abbandonare una
stabilità
che già funzionava per lui. Aveva riconosciuto il proprio
errore per tempo, perciò aveva deciso di non tenersi quella
palla al piede. Era ora di spiccare il volo, si era detto, e
così
aveva fatto.
In fondo era fortunato. Negli
States, a Boston,
lo aspettava l'unica famiglia che aveva.
A breve avrebbe toccato terra nella sua nuova vita -
un'esistenza in cui avrebbe spremuto
al massimo le proprie capacità per costruire qualcosa di cui
il mondo
intero
si sarebbe ricordato. Come incentivi aveva la gloria, la soddisfazione
personale e il
brevetto milionario che voleva inventare e patentare a suo nome.
Realizzandosi sarebbe anche riuscito a sistemarsi finanziariamente
entro i
trent'anni e, da quel momento in poi, non
avrebbe più
sentito
l'impulso di risparmiare per sentirsi al sicuro. Con impegno e
una buona dose di genialità, avrebbe
risolto tutti i problemi che aveva sentito di
avere. Il futuro aspettava solo Shun Yamato.
Eccomi, sto
arrivando.
Roteò il polso e guardò
l'orologio. Erano le due e
venti del
mattino,
quindi l'ora locale era... mezzogiorno e venti. Il volo sarebbe
atterrato
in orario.
Ripassò mentalmente il percorso che
avrebbe fatto in città: una volta
fuori
dall'aereoporto doveva prendere un bus della linea Silver Line e
scendere alla South Station. Da lì le linee Red
Line e
Orange Line della metropolitana lo avrebbero portato a destinazione.
L'appartamento di sua
sorella Asuka si trovava circa due minuti a piedi dalla fermata
più
vicina, a sentire lei. Lui aveva con
sé anche una mappa dettagliata della città, oltre
che
l'indirizzo
esatto.
Erano tutte indicazioni di cui poteva non aver
bisogno: era
probabile che
Asuka lo stesse aspettando all'uscita dell'aereoporto, nonostante la
pancia di quaranta settimane che si portava dietro. Sarebbe
stato epico se lei fosse già andata in
travaglio, un'ottima storia da raccontare a sua figlia.
"Mentre tuo zio
si
trasferiva dal Giappone agli Stati Uniti, io sono dovuta
correre in
ospedale a partorirti. Lui ci ha raggiunto con calma, sai?
Quell'egoista
non voleva
assistere alla tua nascita."
In effetti lui non ci teneva. Avrebbe subìto la
tortura di entrare in una
sala parto
quando avesse avuto un figlio suo - forse, tra non meno di dieci anni -
ma nel frattempo intendeva fare lo zio e
prendersela comoda.
Se sua sorella fosse già andata in
ospedale, lui comunque sarebbe passato prima dall'appartamento di lei,
per liberarsi delle due valigie di quaranta chili complessivi che si
era portato da Tokyo. La metà del peso era dovuto a roba di
Asuka - stupidaggini, a parer suo, ma lei li chiamava
'cimeli', ricordi preziosi.
D'altronde, gli aveva detto sua Asukla, lei aveva creduto di
poter
recuperare i propri averi con calma. Ma ora che lui andava via del
Giappone, bisognava essere realistici: difficilmente lei sarebbe
tornata in terra nipponica nel prossimo futuro. Non aveva
più nessuno da andare a trovare e già quando
c'era
stato lui ci era tornata una volta sola. Era stato Shun a muoversi per
incontrarla, di solito in estate.
Loro due non vivevano insieme da quasi cinque anni, da quando
lui ne
aveva
compiuti sedici.
Sarebbero andati ancora d'accordo come
coinquilini? Shun era pronto a essere paziente. Per cause di
forza
maggiore a breve sarebbero stati in
tre nell'appartamento di Asuka. Aveva intenzione di essere di supporto
a sua sorella, o almeno di provarci, dato che non c'era in giro
un altro uomo a
sostenerla.
"Avevo
il cuore in gola
quando gli ho rivelato di aspettare un bambino" gli aveva
raccontato Asuka. "Ero pronta a sentire di
tutto - che non se la sentiva, o che era troppo presto per noi.
Ma sai cosa mi ha detto lui? Scusa,
sono già sposato. Quello stronzo,
maledetto figlio di-!»
Al telefono Asuka non aveva pianto. Non versava
lacrime da quando era bambina.
"Vada al diavolo! Io
mio figlio me lo tengo. Farò da sola!"
Col passare delle settimane era saltato fuori che il bambino
di
sua sorella era una bambina. Anche Shun ne
era
stato
contento: a suo modo, sua sorella aveva già allevato un
maschio.
"Shun, guarda che sono maturata. Non mi diverto
più a
buttare all'aria tutto quello che tocco. Ho dato un ordine alla mia
esistenza.»
Sei incinta e senza il padre di tua figlia, aveva pensato
lui, ma non
aveva detto niente. In fondo, era ancora sorpreso: aveva
creduto
che, in una situazione simile, Asuka avrebbe optato per un aborto
indolore.
"Come mai...?" Non aveva saputo come formulare la domanda.
"Che cosa
pensi di fare con questa bambina?" Che futuro
si era immaginata Asuka, dopo l'evento che le avrebbe stravolto la
vita? Nessuno di loro due aveva mai avuto una vera famiglia;
non
sapevano da che parte cominciare per crearne una normale.
Per qualche momento la chiamata intercontinentale aveva
trasmesso solo rumori di fondo.
"Vorrei darle quello che non abbiamo avuto io e te" aveva
risposto sua sorella.
La pausa gli aveva portato molti ricordi. I Natali che Asuka
si era
premurata di passare con lui, mentre i loro genitori li
lasciavano soli. I consigli che lei gli aveva dato per qualunque
problema, come se con sei anni di più fosse stata davvero
un'adulta a
cui un ragazzino si poteva affidare.
"Non mi dovevi niente" le aveva detto Shun.
"Sei mio fratello. Mi
sentivo responsabile per te, anche se alla fine non sono stata capace
di esserci sempre, o di dirti la cosa giusta."
"Non spettava a te."
"Già. Spettava a mamma e papà."
Lui li chiamava Reiko e Hideki e non aveva
mai
voluto
nulla da loro. Sentiva di non aver avuto né un padre
né
una madre. Era meglio così.
"Per la mia bambina vorrei essere una vera mamma, sai? Non
lascerò che la cresca una tata."
Un proposito lodevole.
"Rimanere incinta... mi ha cambiato. Ora sento che non ci sono
più solo io e ho voglia di essere una persona migliore.
Voglio
che
mia figlia mi veda come una donna che può ammirare."
"Non sarà facile."
"Ehi! Non scherzavo!"
Si ricordava ancora la risata nervosa di lei e la
domanda
imbarazzata che era seguita.
"Tu credi che ne sarò capace?"
"Sì." Asuka era testarda e caparbia. A ventisei
anni era una donna adulta che si manteneva da sola da tanto tempo ed
era in grado di trasformarsi per qualcuno a cui voleva bene.
"Hai ragione, ce la farò. Ogni tanto mi
faccio prendere dai dubbi."
Lui aveva sentito l'incertezza di lei, una sensazione
che aveva
premuto dentro la sua stessa testa per settimane. Quei pensieri lo
avevano portato a
farle una
proposta assurda.
"Verrò a stare a Boston
più o
meno quando tu partorirai."
"Non vedo l'ora! Dovresti sentire come scalcia questa peste!"
Lui aveva desiderato trovarsi
nello stesso continente di lei, nella stessa città,
nell'appartamento dove sua sorella sorrideva per la felicità.
"Pensavo... Magari per il primo semestre potrei risparmiare
sull'alloggio se... Che dici se vengo a stare da te?
Così, se avrai
bisogno di qualcuno..."
Lo aveva interrotto un gridolino. "È
un'idea
magnifica! Ho
una stanza libera qui!"
"Dicevo che risparmierei un bel po' e forse
potrei
aiutarti con... qualcosa." Magari avrebbe potuto passare qualche ora
alla settimana con la
bambina, anche se l'idea lo terrorizzava.
"I pannolini!" aveva esclamato lei. "E se non
riuscirò a
dormire tu
potrai farmi da babysitter!"
Lui aveva cominciato a pentirsi. "Pensavo più
a un
supporto morale."
La risata di sua sorella gli aveva quasi spaccato le
orecchie. "Ci hai
creduto! Non preoccuparti, non ti deruberò della tua
preziosa vita da studente. Potrai andare ai tuoi party bostoniani e
intrattenere
qualche bella studentessa di Harvard. Sarà fantastico, certo
che
ti voglio qui!"
Lui si era convinto a non ritrattare. "Bene.
Allora... non arriverò prima del venti dicembre.
Devo dare qui gli
ultimi esami, ma..."
"Oh, non importa. Non preoccuparti, davvero. Dicendo che
vieni a stare da me, mi hai già..."
Shun aveva udito un lungo sospiro. "... stai piangendo?"
"Lascia stare. Questa piccoletta mi ha fatto diventare
ultra-emotiva.
Sono contenta che vivremo di nuovo insieme!"
"Okay. Sono... felice che tu sia felice."
"Hai ancora l'imbarazzo dei giapponesi!" Sua sorella aveva
riso. "Dài, smetto
di
torturarti. Ci
sentiamo una prossima volta, così ci accordiamo su tutto."
Con il passare dei mesi, si erano organizzati sui
dettagli. Nelle
ultime
settimane lui aveva capito che per Asuka sarebbe stato difficile
venirlo
a
prendere all'aereoporto. Lei era sempre stanca, a stento trovava
l'energia
per fare una passeggiata. Asuka aveva insistito per presentarsi
comunque, a meno di non andare in travaglio proprio quel
giorno. Era amica del custode del palazzo, pertanto
avrebbe
lasciato a lui tutte le informazioni necessarie se lei non fosse stata
in casa per il suo arrivo. Da tempo gli aveva dato una copia delle
chiavi
dell'appartamento, in caso di emergenza.
Non
partorirai
proprio oggi, vero?
Sarebbe stato assurdo che la bambina scegliesse quel
giorno
per
nascere, quando aveva ancora una settimana buona per venire fuori.
Secondo le statistiche, poche donne partorivano nel giorno
fissato. Quelle alla prima gravidanza ritardavano più delle
altre, perciò la bambina
poteva tranquillamente
nascere nel 1998, considerato che era il ventidue dicembre.
Shun si era informato un poco sul processo, anche se aveva
evitato
accuratamente il libro che sua sorella gli aveva mandato. 'Cosa aspettarsi quando si
aspetta' era
il titolo. Asuka si era realmente aspettata che lui lo leggesse? Quello
era
un testo per future madri, forse d'interesse per un padre, impensabile
per uno zio. Shun lo aveva lasciato in Giappone e adesso si
chiedeva se non sarebbe
stato utile al suo amico Alexander. Quell'idiota - a vent'anni
- forse avrebbe avuto un figlio con la sua ragazza, Ami
Mizuno, una studentessa che non aveva ancora terminato le superiori.
Come avevano fatto due
persone con un Q.I. tanto stellare a comportarsi come due idioti?
Avevano saltato la lezione sulla prevenzione o non avevano
capito come usare uno stupido profilattico?
Bah. Era circondato da gente che si riproduceva
come conigli, senza
criterio.
Lui era stato attento con le quattro ragazze che aveva avuto,
ma a
cosa era servito? Presto si sarebbe ritrovato ugualmente
tra
pannolini pieni di cacca
e urla assordanti. Li avrebbe prodotti un essere che Asuka aveva deciso
di chiamare
Arimi e che per lui fino a quel momento era rimasto indefinitamente 'la
bambina'. Nella sua testa si trattava di un prototipo di essere umano
di mezzo
metro, senza faccia né carattere.
Tecnicamente, sapeva cosa avrebbe comportato
la nascita di lei
per la sua vita, ma all'atto pratico... Avrebbe provato
qualcosa la
prima volta che l'avrebbe vista?
Avrebbe sentito che lei era parte
della sua famiglia, o sarebbe rimasto indifferente come si sentiva ora?
Forse avrebbe imparato ad amarla tramite Asuka. Ci avrebbe
provato,
almeno. Col passare del tempo poteva affezionarsi anche
lui. Non riusciva a immaginarlo, ma l'attaccamento ai neonati
era
una
sorta di imperativo biologico per tante persone - donne soprattutto. Se
lui aveva un'inclinazione simile, non lo sapeva: non stava
vicino
a un bambino sin da quando aveva smesso di essere un bambino lui
stesso.
Guardò fuori dal finestrino. L'aereo stava
scendendo sotto le nuvole.
Rimise nello zaino il libro che aveva letto durante il volo.
Era inutile rimuginare su quello che sarebbe accaduto.
L'importante
era essere di supporto a sua sorella.
«Si informano i gentili viaggiatori che stiamo per
atterrare
all'aereoporto internazionale Logan di Boston. Sono le ore
dodici e venticinque locali, la temperatura al suolo
è di
35 gradi Farenheit. Allacciate le cinture di
sicurezza e seguite le indicazioni del personale di bordo. Vi
ringraziamo di aver
viaggiato con noi e vi auguriamo un piacevole soggiorno. Se
avete necessità di proseguire con un collegamento
dall'aereoporto, vi invitiamo a...»
Shun smise di ascoltare. No, lui era arrivato a
destinazione. A breve avrebbe rivisto Asuka e la pancia di lei
- grande
come dieci
palle da basket, aveva detto sua sorella al telefono.
Sorrise. Aveva già pronta la macchina
fotografica.
«Motivo del soggiorno?»
«Studio» rispose all'ufficiale
dell'immigrazione. «Sono
iscritto al M.I.T.»
«Quanto ha intenzione di fermarsi?»
«Due anni.» Questo almeno era quello che
diceva il visto che
aveva
ottenuto. A studi conclusi, si sarebbe trovato un lavoro e avrebbe
fatto richiesta per una green card.
«Ha già scelto un alloggio?»
«Mi fermerò da mia sorella per qualche
mese.»
L'ufficiale smise di scorrere le pagine del suo passaporto e
passò a guardare lo schermo del computer.
«Ha un
numero a
cui posso chiamare questa persona di riferimento?»
«Sì. Ma lei dovrebbe essere qui
all'aereoporto ad
aspettarmi.»
Privo
di
espressione, l'uomo restò in attesa di una risposta dal
computer. Appena la ottenne, fissò annoiato il passaporto
che teneva
in
mano. «Va bene.» Vi appose sopra un
timbro. Era un individuo calvo, con occhi azzurro pallido.
Shun si sorprese
a pensare che, da quel momento
in poi, la maggior parte delle persone che avrebbe incontrato avrebbe
avuto tratti occidentali. Addio agli occhi a mandorla e
ai capelli
neri. Gli sarebbero mancati.
«Buona permanenza negli Stati Uniti.» Gli
venne reso il suo
documento.
«Grazie.»
Attese per dieci minuti l'arrivo delle due valigie che aveva
fatto
caricare
nella stiva. Nel frattempo andò in bagno e, spese i primi
dollari
americani che aveva cambiato per comprare uno snack. Si
scoprì allegro. Era passato un anno e mezzo
dall'ultima volta che aveva visto
sua sorella.
Arrivarono le sue valigie, quella blu in cui stavano tutti i
suoi averi
e quella rossa, in cui aveva portato le cose di Asuka.
Sistemò
il trolley sopra la valigia più grande e si
incamminò
verso l'uscita, per entrare definitivamente in territorio americano.
Oltre le porte sorrise, cercando tra i volti quello di sua
sorella. Ad una prima occhiata non la vide. Scrutò
ancora il gruppo di persone in attesa, avanzando così piano
che
venne superato da una ragazzina con la treccia che inciampò
sulle sue valigie.Si
decise ad accelerare il passo: poteva cercare meglio Asuka uscendo
dalla strada altrui.
Rimase con le orecchie allerta, aspettandosi di sentire il
proprio nome da un momento all'altro. Si
ritrovò tra gente che si salutava,
felice di ritrovarsi.
Asuka era in ritardo? O aveva sbagliato gate?
Provò a cercarla nei bagni. Nelle ultime settimane
lei gli aveva detto di dover far
pipì ogni dieci minuti.
Rimase fuori dai servizi igienici più vicini per un
quarto d'ora, gli occhi incollati alle porte da cui era
uscito, senza risultato.
Per altri dieci minuti percorse in lungo e in largo l'enorme
sala di aspetto, poi si arrese e provò a chiamare
il numero di
lei. Mentre
il telefono squillava, tirò fuori il
foglio con le indicazioni per raggiungere l'appartamento.
Sei veramente
in
travaglio?
Non gli rispose nessuno a casa di Asuka. Aveva calcolato che
ci
voleva circa un'ora per arrivare fino a casa sua, poi altri venti
minuti per giungere all'ospedale.
Il travaglio dura anche un
giorno intero a volte. Ho tempo.
Preoccupato, si mosse veloce verso i treni diretti in
città.
Un'ora dopo si trovava a casa di sua sorella. Il custode del
palazzo
gli diede le chiavi e poche altre informazioni: se lei era uscita,
lui non l'aveva vista, ma era arrivato al lavoro alle sette, pertanto
lei doveva essere andata via prima.
Shun non andò oltre l'ingresso dell'appartamento.
Lì sfogliò la
guida telefonica che Asuka teneva sotto il telefono. Voleva essere
sicuro della destinazione prima di muoversi. Trovò il numero
dell'ospedale e chiamò.
«Salve. Per caso avete una paziente di nome
Asuka
Yamato?» Cercò di evitare l'accento
giapponese, ma la
donna non comprese ugualmente il nome che lui aveva pronunciato.
«Asuka Yamato» ripeté Shun alla
cornetta. «Ha un parto programmato
nel
vostro
ospedale. Può dirmi se è già stata
ricoverata?»
«Per una questione di privacy, signore, le devo
chiedere di
presentarsi
personalmente al nostro banco per questa informazione. Può
rivolgersi al primo piano, nella sala accanto al pronto
soccorso.»
«Grazie.» Di
nulla.
La donna riattaccò senza nemmeno salutarlo.
Shun rimase a
fissare il telefono.
Americani.
Tolse il computer dallo zaino, si tastò la giacca
per controllare di avere portafoglio e documenti addosso, quindi chiuse
la porta e uscì.
Per strada, prese coscienza della situazione.
Sto per
diventare zio.
Asuka doveva essere per forza all'ospedale. Se ci era
andata all'alba, allora la bambina poteva
nascere in serata, forse persino di notte. O magari sua sorella era
uscita di casa già la notte precedente, perciò
era possibile
che sua figlia fosse già fuori - fuori, come dieci palloni
da basket
che attraversavano
un
canestro.
Rise e rabbrividì.
Se si era perso il parto, meglio. Se invece il
processo era ancora in corso... Asuka non lo
avrebbe
fatto
entrare in sala, giusto? Aveva detto che l'avrebbe aiutata una
sua amica,
perciò probabilmente
lei era
già lì. Come si chiamava la ragazza?
Madison? In
faccende simili una donna qualunque era un supporto migliore
di un
fratello senza
esperienza. Lui sarebbe rimasto fuori dalla camera di tortura.
Forse,
come nei film, a un certo punto avrebbe sentito
un
pianto?
Cominciò a capire.
Stava succedendo qualcosa di
nuovo
nella sua vita. Un evento che lo faceva
sentire... euforico. Presto avrebbe avuto un'altra persona
nella sua
famiglia.
Arrivando all'ospedale, si diresse
verso il
pronto soccorso, quasi correndo. Si fermò davanti
al bancone, dietro un altro
paziente.
Gli toccava aspettare prima di parlare con l'infermiera.
Nell'attesa, occhieggiò la mappa
dell'ospedale. Da
che parte doveva andare? Verso il reparto di ginecologia,
ostetricia o... neonatologia, se Arimi Yamato era già nata.
La persona davanti a lui si spostò.
«Buongiorno» gli disse l'infermiera.
«Buongiorno.» Shun frugò nella
tasca della giacca, in cerca di un
documento. «Sto
cercando mia sorella. Dovrebbe essere nel vostro ospedale, in sala
parto. Può dirmi se...?»
«Nome?»
«Asuka Yamato.» Prima che la donna
chiedesse, lui
le
mostrò il passaporto.
L'infermiera lo squadrò rapidamente e riprese a
digitare al
computer. Si fermò. «Può fare lo
spelling?»
«A.S.U.K.A.»
La
divisione
in lettere degli occidentali gli sembrò per la prima volta
confusionaria. Dovette ricordarsi come si scriveva il suo
stesso
cognome. «Y.A.M.A.T.O.»
La donna fissò lo schermo verde e nero del
computer. «Sì, la signora è da noi. Si
diriga al reparto di
ostetricia. Chieda alla capo sala.»
Lui non se lo fece ripetere due volte. Aveva un buon senso
dell'orientamento e non si perse nel percorso tortuoso verso l'ala
seminascosta dell'ospedale.
«Asuka Yamato?» domandò alla
responsabile che si
trovò davanti.
L'infermiera si fermò sui propri passi, facendo
strisciare
le
ciabatte bianche. «Yamato?» ripeté, con
accento americano.
In Shun si riaccese l'euforia.
«Sì.»
L'espressione cupa di lei lo confuse, ma la donna la fece
svanire in un
attimo. «Lei è un parente?»
«Suo fratello.»
«Un momento. Le chiamo il dottore.»
Doveva prima parlare con lui?
Si rassegnò ad attendere in un lato della sala, in
piedi.
Sul lato opposto vide una
famiglia intera in attesa. Parlavano tra loro, ridendo e cercando di
non fare troppo rumore. Nel corridoio oltre le loro spalle una
persona stava seduta da sola, la testa china, le mani sulle
tempie. Era una ragazza giovane, affranta.
In quel posto - si ricordò Shun - era
possibile
ricevere anche brutte notizie. Per fortuna Asuka era giovane e
forte.
Dal corridoio in cui era seduta la ragazza apparve un
dottore.
Lei si
alzò come per riceverlo, ma il medico la ignorò e
su
indicazione della caposala si diresse verso di lui.
Shun non ne ricavò una buona sensazione.
Viene da me.
Qualcosa è andato storto?
Magari la bambina era capovolta e dovevano fare un cesareo?
Non
era un
intervento complicato.
Il medico lo raggiunse. Respirò a fondo.
«Salve. Cercava Asuka
Yamato?»
«Sì, è mia sorella.»
«Mi segua per favore. Da questa parte.»
La ragazza che aveva visto prima era rimasta in piedi. Li
guardava, le
guance umide di lacrime appena asciugate.
Shun scacciò il nodo allo stomaco. Io quella non la
conosco. «Ci sono stati dei problemi?»
Il medico non fece alcun segno con la testa, lo
portò verso
l'angolo del corridoio. Shun credette che fosse sul punto di aprire le
porte che davano verso le sale parto, ma si fermarono in
quel punto, senza avanzare oltre.
Il medico parlò. «Sua sorella
è arrivata qui da noi alle
una del
mattino di
oggi.
Ci ha indicato di aver avuto le prime contrazioni alle undici
di ieri
sera.»
Asuka era in travaglio! Da tutta la notte! «La
bambina
è nata?»
«Il travaglio non ha presentato apparenti problemi
durante il
suo
svolgimento. La signora è stata supervisionata dal nostro
personale ogni ora, come richiede la nostra procedura. Abbiamo
praticato un'epidurale, su richiesta della paziente, intorno alle
sei di questa mattina. La signora ha cominciato a spingere verso le
una e mezza del pomeriggio, sotto la mia supervisione. La bambina era
nella
posizione corretta, ma è sopravvenuta una
complicazione.»
Di cosa stava parlando?
«La signora ha perso conoscenza, il battito cardiaco
si
è interrotto. Ho dato il via alla procedura di rianimazione
e
abbiamo avuto un chirurgo in sala nel giro di un minuto. Lui
ha scelto di agire con un cesareo di emergenza in
loco.»
... cosa?
«Abbiamo mantenuto costante l'afflusso di ossigeno e
abbiamo
estratto
la bambina
in meno di due minuti. La neonata presenta
un
buon quadro clinico: il punteggio nel test di Apgar mostra che non ci
sono
state conseguenze per lei. Per sicurezza, è in incubatrice
ora.»
«Come sta mia sorella? Cosa le avete
fatto?»
Il medico fece una prima pausa. «Abbiamo
continuato con le
procedure di
rianimazione, ma il cuore non ripartiva. Con l'anestesista abbiamo
somministrato
epinefrina e altri stimolanti e proseguito con ogni tentativo
possibile. Dopo undici
minuti abbiamo concordato insieme che... la situazione era
irreversibile. Ho
dichiarato il decesso alle due e dodici di oggi.»
Qualcosa si prese il suo sangue. Sparì tutto verso
i piedi, lontano dalla testa.
Il medico lo guardò negli occhi. «Mi
dispiace molto
per la
sua perdita.»
... perdita?
Ho dichiarato
il
decesso... «No.»
Il dottore cercò di toccarlo, ma Shun si ritrasse.
«No. Avete
sbagliato persona.»
«Mi dispiace.»
«Ho detto che avete sbagliato persona!»
Il medico chinò la testa. «La signora era
accompagnata
dalla
sua amica.» Cercò di indicargli qualcuno, ma Shun
non lo
vide
neanche.
«La smetta, me la faccia vedere!»
«Eravamo in attesa di un parente che-»
«Shun?»
Una voce estranea, che penetrò a stento nell'oblio
che si
era creato nel suo cervello.
La ragazza triste si stava avvicinando a lui. Lo aveva
chiamato per
nome.
«Sei il fratello di Asuka, vero? Io sono Madison.
Asuka ti
aspettava, non so cosa...» Le
scappò un singulto, un suono misero. «Ero con lei,
è
successo tutto all'improvviso! Mi aveva detto che tu eri
all'aereoporto, che stavi arrivando. Ti chiami Shun, vero?»
No no no.
Nonono.
Indietreggiò e il medico si fece da parte. Tutto
si fece da
parte, scomparve.
«Asuka era così brava! Faticava ma stava
bene. Si è
accasciata durante le spinte, io non so come....»
Gli mancò il respiro, cominciò ad
ansimare. Si
guardò intorno, per cercare sua sorella.
Il decesso alle
due e dodici...
NO!
Si tappò la bocca, piegandosi in due.
«No!» Si mise dritto e capì che stava
crollando di lato.
«Non
è morta!»
La ragazza scoppiò a piangere, le mani in faccia.
«Non è morta...»
ripeté lui, parole
senza peso,
deboli.
La signora ha perso
conoscenza, procedura di rianimazione, cesareo in loco, altri
tentativi, ora del decesso due e dodici di oggi-
Da un'ora! Mentre lui girava per la città, Asuka...
Fece uscire qualcosa dalla bocca, neppure un suono vero.
«Asu...»
La ragazza cercò di toccarlo, di abbracciarlo.
«Lasciami! Lei non-!»
Asuka era morta.
Si coprì la testa, gli occhi.
Si graffiò la faccia con mani bagnate.
"Gli ometti non piangono,
Shun-chan, okay? Lo imparerai? Per
la tua
sorellina, okay? Altrimenti ti prenderanno in giro."
Uccise le lacrime, se stesso. Si accasciò contro il
muro,
ansimò senza respirare.
Pianse senza aria, senza vita.
Asuka era morta.
Per un'ora vide lo stesso corridoio
dell'ospedale e udì parole che non si sforzò
neppure di
comprendere. Si
dimenticò l'inglese - così, tanto per
smettere di
provare
altro dolore.
«I'm sorry» continuava a
dirgli la
ragazza, Madison. Lui si lasciò
abbracciare, manichino esanime senza energie.
Il dottore tornò indietro. «Quando lo
desidera, sono a sua disposizione per un referto clinico completo e
una... visita. La bambina si trova in neonatologia. Se vuole,
può fornirci il telefono di altri parenti prossimi.
Avvertiamo noi i genitori.»
Genitori? Asuka non ne aveva mai avuti di veri.
L'avevano lasciata tutti da
sola in
quell'ospedale, a partorire circondata da estranei.
Si allontanò dal muro. Madison-qualcosa
era andata
in bagno.
«Una visita ad Asuka?» domandò
al dottore.
L'uomo annuì. «Possiamo aspettare, se
vuole.
È
un momento delicato per lei...»
«No. Mi ci porti ora.»
«Non ha qualcuno da chiamare per
accompagnarla?»
«Eravamo solo io e Asuka.» Solo loro due,
sempre. Alla fine anche
lui
l'aveva lasciata sola. «Voglio andare da lei.»
Seguì il medico lungo un corridoio verde, cupo,
come una
discesa verso l'inferno. Ma non era lì che Asuka era andata.
Dove sei?
Lei era sparita nel nulla? O era diventata uno spirito, come
dicevano in Giappone? Lui poteva mettere i suoi resti in
un'urna e fare un piccolo altare?... No. La rivoleva indietro, per
parlarle.
Si fermarono davanti a una porta. Obitorio.
«Si prenda il tempo che vuole. Può
restare qui fuori, non
c'è
fretta.»
Asuka mi aspetta. Scansò il medico e
spinse di lato le porte della
sala.
All'interno, un uomo si spostò tra due ammassi
umani
coperti da
un
telo di plastica azzurro, sdraiati su un lettino di ferro.
È troppo freddo per lei.
L'uomo scoprì il viso di uno dei corpi.
«È in
pace. Dio la benedica.»
Asuka giaceva supina, il viso illuminato da una luce
biancastra,
tenue. Era pallida, un cadavere. Vederla in quella stato fu come
seguirla
nella morte.
Shun allungò la mano verso la guancia di lei.
Svegliati.
Sono arrivato.
La toccò, un dito che sfiorava la carne fredda
della sua
faccia. Si ritrasse, scottato.
Erano quelle le guance con cui lei rideva, quella era
la
bocca che lei aveva usato per mordere le sue mani, quando era
stato piccolo.
"Questa dita sono troppo
belle, e tu profumi di buono.
Da
bebè!"
Dicono che ne
hai avuta
una, pensò lui. Perché non sei
rimasta con la tua bambina?
C'era un suono nella piccola sala, un sibilo. Usciva da lui,
un sfiato
patetico. Respirò e lo
inghiottì.
... cosa
le avevano fatto?
Le posò una mano sulla fronte, accarezzandola.
Voeva gridare con tutte le sue forze. Voleva distruggere
quella
sala e portare
sua sorella via da quel posto.
In Francia,
dove siamo
nati, dove siamo stati bambini.
In un tempo in cui c'era un futuro e Asuka non se n'era mai
andata.
Ti rivoglio.
Ma sotto le sue dita lei non si muoveva, non reagiva.
Non era più lì..
Dovette allontanarsi. Si coprì gli occhi.
«Questa è l'ultima volta che la vedo?»
«No. C'è il
funerale e sicuramente durante la veglia-»
Smise di ascoltare. «Okay.»
Non resistette e uscì dalla sala.
La cornetta nera dell'ospedale era fredda contro il suo
orecchio.
«Pronto?»
La voce all'altro capo arrivò con un secondo di
ritardo. Era
Hideki Yamato.
«Sono io. Shun.»
Attese la risposta.
«Shun?... Certo. Cosa
c'è?»
Hideki lo aveva a stento riconosciuto. «Ti chiamo da
un
ospedale a Boston,
negli
Stati Uniti. Asuka ti aveva detto di essere incinta?»
Attese di nuovo.
«Sì, mi aveva informato. Ha
avuto sua
figlia? Sei lì con lei?»
«Sono arrivato due ore fa. Asuka è morta
durante il
parto.»
La pausa al telefono si protrasse.
«... Cosa?»
«Asuka è morta.» Ti
meriti di
sentirlo e di soffrire, figlio di puttana. Eri suo
padre, lei ti amava. Non l'hai ricambiata come avresti dovuto. «Non
c'è nessun errore, l'ho vista di persona.
È
morta durante il parto.»
Attese di nuovo e quasi gioì per il dolore della
persona
più spietata che avesse mai
conosciuto. Evidentemente, era
umano
anche
un automa come Hideki.
Non
era il padre che meritavi, Asuka.
Il silenzio continuava.
«Sei un
avvocato,
Hideki, ti sto
chiamando per questo. Asuka è morta in ospedale. Cosa
devo fare?»
Udì una domanda confusa e non la
comprese. «Cos'hai detto?»
«Quale ospedale?»
«Saint Mary, di Boston.»
«Aspetta lì. Non dare alcun consenso, non
firmare
niente.
Di' che
aspetti il tuo avvocato. Manderò qualcuno nel giro di
un'ora.»
Hideki aveva amici in tutto il globo - una cosa su cui Shun
aveva contato.
Ebbe la prima esitazione in quella conversazione.
«Non
l'ho ancora
detto a Reiko.»
Non aveva voglia di farlo. Non aveva alcun desiderio
di udire
gli strepiti e le lacrime di lei.
«La chiamo io, Shun.»
Ah, lo chiamava per nome adesso? Con tono arrendevole?
La morte
cambiava
davvero le persone.
Sentito, Asuka?
Forse adesso inizierà davvero a considerarmi
suo figlio, se sono davvero l'unico figlio che gli rimane.
«Shun?»
«Cosa?»
«Il bambino. È morto?»
«La bambina.» Ricordò.
«È viva. Dicono
che sta
bene.»
«... non fare niente, allora. Aspetta
l'avvocato.»
«Sì.» Riattaccò.
La bambina.
La figlia di Asuka era sopravvissuta.
Arimi.
È
proprio un
nome da anime, sorella.
Voleva rimanere in un angolo a vegetare, ma
ordinò
alle
gambe di muoversi, per tornare nel corridoio da cui era venuto.
Incontrò di nuovo Madison-qualcosa.
Lei teneva le mani unite sul grembo. «Vado a
casa.» Gli
porse un biglietto da visita. «Chiamami, per favore. Era la
mia
migliore amica, voglio aiutarti con... con lei, per il
funerale.»
Represse un nuovo fiume di lacrime. «Volevo dirti che... ho
rivisto la piccola. È oltre quel corridoio. Sta nella sua
incubatrice,
te la indicherà l'infermiera. Ha il nome che aveva detto
Asuka. Ha fatto
in tempo a dirlo alle infermiere... Non parlava d'altro questa
notte.»
Shun rimase col biglietto in mano. Non riusciva a
pensare alle ore in cui non era stato
presente.
«Bye» gli disse mesta la ragazza e lui la
lasciò
andare.
Guardò le nuove porte che doveva
attraversare. Non erano quelle di un obitorio.
Si spinse oltre le ante e si trovò in un
corridoio con nuvole disegnate sulle pareti. I muri erano pieni di soli
e fiori.
Penoso.
Dovette camminare un poco prima di arrivare a una grossa
vetrata. La finestra si apriva in una stanza piena di piccoli letti.
Culle, con
tanti bambini.
Sono appena
nati.
C'è gente che nasce, mentre tu muori.
Non si mosse, rimase a leggere le targhette. Erano tutti nomi
inglesi. Andrew, Sarah, Kevin, Josh, Melissa. In fondo alla stanza
vedeva due incubatrici.
Un'infermiera incontrò il suo
sguardo. Senza che lui le facesse alcun segno, la donna gli si
avvicinò. «Buongiorno»
mormorò.
«Lei... cerca Arimi Yamato?»
Shun annuì.
«Mi segua.» Avanzarono per pochi metri,
poi l'infermiera gli indicò di fermarsi e andò
verso
l'incubatrice più lontana. Cominciò a farla
scorrere su delle ruote, verso di lui. Quando fu vicino, gli
indicò di guardare. «L'incubatrice
è quasi
troppo piccola per
lei. Questa bambina è sana e forte, un miracolo. Il dottore
ha detto
di tenerla qui solo per precauzione.»
A lui non importava molto.
La neonata dentro la cupola trasparente era mezza pelata, con
un ciuffo di capelli neri sul centro della testa. L'avevano vestita
unicamente di un pannolino che permetteva di vedere arti
sottili, informi. Lei aveva un paio di fili attaccati al corpo.
Più che un essere umano, sembrava un pollo spelacchiato.
Guardandola in viso Shun non ebbe un'impressione migliore: il naso era
schiacciato, la fronte ampia.
È
successo
tutto per lei, Asuka?
Ne era valsa la pena? Non gli pareva: non c'era nulla di sua
sorella in quella bambina.
Non sento niente per
lei.
Scusa.
La neonata iniziò ad agitarsi. Era sveglia.
«Vuole toccarla?»
No.
«Indossi questi.» L'infermiera gli aveva
già passato due guanti di plastica.
«Può mettere le mani dentro questi due
buchi.» Aprì due sportelli.
Lui fece come gli era stato detto, solo per non discutere.
Con le mani dentro l'incubatrice, esitò nel
mandarle avanti.
Alle loro spalle cominciò un pianto.
«Devo andare. Faccia molto piano.»
Lui mosse un dito e lo sentì incontrare qualcosa di
solido, che si spostava. Un braccio minuscolo. L'arto
continuò a muoversi, toccandolo..
Non sono tua madre.
Non era nemmeno sicuro che lo fosse Asuka, ma l'incubatrice
aveva una targhetta.
"Sono Arimi Yamato. Sono
nata il 22 dicembre, con un peso di 7 libbre. Sono lunga 20 pollici."
Ridicolo. I bambini non parlavano.
Ma lui sì. «Non le somigli.»
Forse lei aveva gli occhi un po' allungati, ma per il resto
era occidentale come il padre. Un
uomo che non ti vuole.
Sopraffatto, strinse il braccio di lei, con
attenzione. «Mi dispiace.» Non avrebbe
dovuto essere
lui la prima persona a toccarla. Avrebbe dovuto
essere una madre che la amava, o qualcuno che fosse in grado di
racimolare un briciolo di affetto nel vederla.
Mi dispiace.
La lasciò andare: lei stava iniziando a piangere.
Tolse le mani dall'incubatrice, levò i guanti.
Attese il ritorno dell'infermiera.
«Grazie» disse. La parola che ci si
aspettava da luì.
Uscì dalla stanza.
Di sera cercò l'aria di una scala di emergenza,
passando
da una porta che non avrebbe dovuto attraversare.
L'aria fredda lo colpì al collo.
In Giappone erano le cinque del mattino.
Forse sarei
dovuto
rimanere lì.
Si compatì da solo. Sarebbe stato solo
peggio arrivare più tardi, o il
giorno seguente.
Sarebbe dovuto arrivare prima da Asuka. Almeno l'avrebbe
rivista, le avrebbe parlato. Ci sarebbe stato
lui al
posto di quella Madison accanto a lei, mentre sua sorella soffriva in
ospedale, da
sola. Le avrebbe tenuto stretta la mano e le avrebbe detto che si
ricordava di come lei aveva
cercato di crescerlo. Le avrebbe promesso che sarebbero vissuti
insieme, come la
famiglia che
avevano tentato di essere da sempre, loro due soli.
Io non ti avrei
lasciato
andare.
No. Non le avrebbe permesso di finire in un obitorio, con la
pelle
fredda, su un letto di metallo.
Esausto, sentì di nuovo acqua negli occhi, che
cadeva
sulle guance.
Era stufo di piangere.
Sto provando
a non crollare.
Sto provando a
pensare
che ce la farò. Se ti aspetto, tu un giorno,
come sempre, mi chiamerai. Ci diremo che ci rivedremo presto, un giorno.
Si accasciò contro il corrimano delle scale, la
testa tra le
braccia.
Lasciò vincere i singulti, tornò la
nullità che era stato senza sua sorella.
Tu oggi dovevi
avere tua
figlia. Io
dovevo arrivare in tempo, dovevo trovarti con lei in braccio!
Avremmo
riso, avrei visto che eri diventata una persona migliore, come
dicevi tu.
Stavi iniziando
a
vivere, stavi solamente cominciando!
Urlò.
Il dolore coprì i
suoni,
i pensieri.
Di lui non rimasero che i rantoli.
CONTINUA...
NdA:
è il primo capitolo di tre o quattro. Come
saprà chi segue la mia saga, questa storia vede Shun Yamato,
il
protagonista, ricostruirsi una vita con sua nipote Arimi. Di fatto ho
già descritto a sprazzi cosa gli succede - dal punto di
vista dell'amico Alexander - in un'altra storia, una fanfic su Sailor
Moon. Non ci farò troppo riferimento,
perché questa
storia deve avere vita propria e la sto scrivendo
perché non sia necessario leggere tutti gli antefatti per
comprenderla. Comunque, se voleste leggere qualche anticipazione
importante,
potete andare all'epilogo
dell'altra fanfic, Verso l'alba.
Per chi invece conosceva già il personaggio...
spero di
averlo reso bene in questo momento fondamentale della sua esistenza.
I giorni che seguiranno non saranno facili per Shun.
ellephedre
Note tecniche: In questo capitolo ho scelto di parlare di tanti
argomenti complicati,
come un cesareo di emergenza in arresto cardiocircolatorio della madre.
Ho letto diversi articoli medici, in inglese, ma non sono un medico.
Dalle mie letture ho capito che non è consigliabile in
questi casi -
quando è possibile -
spostare la paziente in una sala operatoria prima di procedere. Si
perde tempo prezioso, sia per la madre che per il bambino. La
priorità è la madre, ma se non si riesce a
rianimarla rapidamente, si dovrebbe procedere all'estrazione del feto
il prima possibile - tanti articoli parlavano di un tempo sotto i
quattro minuti, per maggiori possibilità di un bambino sano.
Il cesareo inoltre sarebbe di aiuto anche per la madre, in quanto il
feto crea uno sforzo all'apparato cardiocircolatorio della gestante.
La
possibilità di rianimazione dipende naturalmente dalla causa
dell'arresto cardiaco. Non l'ho ancora decisa. Propendo per un ictus,
ma vorrei fare altre ricerche, in quanto riprenderò
brevemente cosa è successo all'ospedale - ne
parlerà la famiglia di Shun, con l'avvocato. Voglio essere
coerente e - nel limite del possibile - evitare di dire troppe
castronerie.
Ho dei dubbi anche sulla scena dell'incubatrice. Penso che
un'incubatrice che non sia di terapia intensiva possa essere spostata -
ho visto foto e letto descrizioni per capirlo. Il brutto è
che mi sono trovata personalmente in una situazione simile, ma i
ricordi che ho sono di una sala di terapia intensiva in cui era
necessario indossare tute e protezioni anche per le scarpe. La bambina
della storia non è in terapia intensiva - già
questo in effetti è una sorta di miracolo; avrei potuto
essere più realistica, ma purtroppo avevo già
parlato nell'altra fanfic di una neonata che era libera di tornare a
casa nel giro di pochi giorni, quindi.... Comunque, ho visto tante
immagini di incubatrici che sembravano semi-aperte, in cui le mani che
toccavano i bambini non erano nemmeno bloccate da guanti di plastica
fissati alla struttura.
Non so, se qualcuno tra voi che leggete ne sa
di più, sarò felice di essere erudita :)