Come la luna, io

di Sense_and_sensibility
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Strana la solitudine. Tutti dicono di amarla, eppure, quando sono soli, non fanno altro che lamentarsi. Di essere depressi, di soffrire e bla bla bla. Ne avevo incontrate di persone così, tantissime. Il latte caldo emanava un odore piuttosto buono ma non poteva non portarmi alla mente dei ricordi che non volevo riaffiorassero. Presi la tazza bianca con degli orrendi motivi floreali dal manico ed iniziai a sorseggiare. Ero in camera mia, con la porta chiusa e la finestra spalancata. Come al solito. Con i piedi appoggiati sulla sedia di fronte a me, tentavo di studiare. In casa c’era mia madre ma era come se io fossi sola con quell’assordante silenzio che amavo tanto. Ne avevo avuto così poco nella mia vita, che per quanto paradossalmente, ero arrivata ad averne bisogno come il pane. Tutti quegli urletti, quelle canzoncine. Dio, che odio. La pioggia sarebbe arrivata da un momento all’altro ed io non vedevo l’ora di gettarmi nel mio letto e leggere, con il sottofondo delle gocce di acqua contro il finestrino come un metronomo nell’ora di musica. Avevo diciassette anni e ne avrei compiuti a breve diciotto, ma pensavo di essere molto più matura. O molto meno. Chissà. Diciamo che dentro di me non c’erano contraddizioni: ero io stessa la contraddizione. Avevo l’assoluta capacità di passare dalla felicità estatica alla depressione e questo mi faceva essere lunatica fino all’inverosimile. Di quelle stranezze che alcuni apprezzano ma che la maggior parte non esita a mandare a quel paese. -“Lavinia, è pronta la cena! Vieni a tavola.”- le urla di mia madre mi distolsero dallo studio e dai miei pensieri. Scalza, attraversai il lungo corridoio che conduceva al soggiorno ed in un rapido quarto d’ora finii le mie razioni. Ormai la televisione era diventata un oggetto parlante ed indesiderato nella mia casa, come quegli ospiti fastidiosi che parlano del più e del meno solo per il gusto di farlo, senza richiedere necessariamente l’ascolto dell’interlocutore, pour parler. Revisionai per l’ultima volta il lavoro sulla democrazia greca che avevo fatto nel pomeriggio e mi congratulai con me stessa, non solo perché lo trovai originale, ma soprattutto perché ero riuscita a terminare i compiti prima del solito. Lavai i denti ed indossai il pigiama e inevitabilmente dovetti attraversare la cucina, sotto gli occhi dei miei genitori. Sgattaiolai di nuovo nel mio rifugio e mi infilai sotto le lenzuola. Come ero solita fare, chiusi gli occhi in attesa del momento giusto per leggere. Era come una scintilla che mi diceva “Alzati. Prendi il libro. Aprilo. Leggilo. Ora sei pronta”. Fui travolta da tante sensazioni in quella breve meditazione. Quello era un giorno di tristezza: ero andata accumulando tante delusioni nel corso della settimana ed ora venivano fuori. Di solito succedeva questo, che prima ero felicissima, poi un po’ meno, poi ancora meno e cosi via. Una sorta di ciclo lunare dell’anima che mi stava conducendo alla disperazione. Più viaggiavo dentro di me, più era forte la sensazione di non conoscere. Di solito, l’ultima fase era costituita da un pianto liberatorio, una specie di collegamento tra il tramonto del processo precedente, e l’alba di quello successivo. Iniziai a bagnare il cuscino e a macchinare pensieri nella mia mente, tanto che ebbi paura che si sentisse il loro rumore anche da fuori. Poteva un cuore come il mio rivendicare il diritto di un po’ di stabilità? Avevo sempre ritenuto la normalità, non appartenente al mio essere ma con tutto questo cambiamento, questa metamorfosi ininterrotta, mi sembrava di vivere un incubo: ero perpetuamente in cerca di qualcosa senza sapere cosa fosse, avevo molto di ciò che non volevo e leggevo. Leggevo troppo. Annunci, giornali, libri, volti. Persone. E questa ricerca, quasi involontaria era così complessa e frastornante che mi sembrava di impazzire. Cavolo, come avrei voluto azzittirli, quei pensieri e quei giudizi, quei dubbi, quelle insicurezze, quei tentativi, quelle domande. Avrei voluto cambiarmi. Ma se fossi stata una persona diversa, non so fino a che punto avrei potuto apprezzare la mia stupida diversità. Non ebbi la forza di leggere e sprofondai nelle braccia di Morfeo.





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