Draco ed Hermione sono riusciti a fuggire dalla trappola
tesa da Astoria, alias Summer Layton, che si è alleata con Pucey e Montague, gli assassini di sua sorella Helena, per
uccidere entrambi dopo aver compreso il legame che unisce i due. Hermione,
ancora parzialmente sotto il controllo dello Zahir
che Astoria, con l’inganno, le ha fatto creare, è senza voce e sotto il pesante
rischio di essere nuovamente controllata dalla Greengrass,
che vuole che uccida Draco. Quest’ultimo l’ha portata a casa di Pansy Parkinson,
per proteggerla, prima di recarsi in un luogo sconosciuto, senza riuscire a
parlare con Hermione e senza sapere che la ragazza è innamorata di lui e che
l’effetto dello Zahir è parzialmente sopito. Draco
per aiutare Hermione a tornare sé stessa, ha convocato una sua vecchia
conoscenza, la figlia di Igor Karkaroff, Raissa, che le ha detto che l’unico
modo per tornare libera, sarebbe concentrarsi sull’amore che Draco nutre per
lei. E per farlo, le mostra i ricordi che Draco ha su di lei, conservati da Blaise Zabini per farli vedere a
Serenity, qualora fosse accaduto qualcosa a Draco stesso. Ma, mentre Hermione
sta rivivendo i ricordi di Draco, essi sembrano scomparire nel nulla. Al suo
risveglio, Hermione apprende che cosa Draco sta facendo: si è rivolto ad un
demone, Adamar, per ottenere i poteri necessari per difendere Hermione e
Serenity da Astoria. Il prezzo per tale demone sono i suoi ricordi di Hermione
stessa, la cosa più preziosa che ha, per questo essi sono scomparsi. Se Draco
fallisse la prova oppure decidesse di ritirarsi dalla stessa, Adamar gli
restituirebbe i suoi ricordi. Ad Hermione, non resta che aspettare che Draco
ritorni. Insidiata da Dimitri il fratello di Raissa ed oramai vicina a perdere
le speranze, una sera di pioggia, Hermione distingue un’ombra nel vialetto
d’ingresso della casa di Pansy. È Draco che misteriosamente è riuscito a
tornare. I due finalmente si riuniscono e passano la notte assieme. Trascorrono
dieci giorni assieme di perfetta felicità: decidono di contattare Harry per
rivelargli la loro situazione, ma il Ministro è ignaro che Astoria abbia una
spia nella sua cerchia più fidata. Nonostante i tentativi di Blaise e Draco, la spia non viene individuata e, quindi,
sono costretti ad usare Daphne Greengrass e una sua
passata relazione con il Ministro, per contattare Harry, in modo che non lo
sappia nessuno. Daphne verrà avvicinata da Pansy, la sera del suo compleanno,
quando dà una festa a casa sua. Nella stessa occasione, Draco chiede ad
Hermione di sposarlo: la ragazza, raggiante, sta per accettare, ma vedendo
l’anello con cui Draco la chiede in moglie, che è lo stesso anello di Helena,
crolla e decide di prendersi del tempo per pensare, dilaniata dal dubbio che
Draco non la ami quanto abbia amato Helena stessa. I due si lasciano
momentaneamente, ed Hermione esce nel giardino della villa. Intanto nel futuro,
dopo cinque anni, Hermione è tornata a casa di Pansy Parkinson assieme a Seth e
a suo figlio Alex. Pansy, che adesso è sposata con Dean, però, non sa dove
Draco sia. Dean, però, le rivela che Draco, cinque anni prima, è andato
via da lì con Raissa Karkaroff, la sorella di Dimitri. Hermione, sempre più
vicina a perdere le speranze, ricordando gli eventi degli anni passati, ripete
che la sera del compleanno di Pansy è stata l’ultima sera in cui ha visto
Draco. Quella sera, infatti, Hermione venne rapita da Dimitri Karkaroff che si
era alleato con Astoria, Pucey e Montague, proprio
per separarla da Draco e farne la sua “regina”. La crudeltà e la determinazione
di Dimitri a fare sua Hermione, si spingono al punto di catturare anche Hayden,
l’amico babbano che Hermione frequentava precedentemente, ferendolo gravemente
e rendendolo incapace per sempre di camminare. Nella sua prigionia nel castello
di Dimitri, però, Hermione apprende di essere incinta di Draco, cosa che spinge
Astoria, sterile e desiderosa di fare suo l’ultimo erede dei Malfoy, cosa che
sicuramente le garantirebbe la possibilità di riavere Draco, a prendere tempo
con Dimitri e ad ingiungergli di non toccare Hermione nel tempo della
gravidanza. La ragazza, però, dopo dieci giorni, viene liberata dalla prigionia
da Helder, la sua amica Empatica, Harry e Ron, ma durante la fuga, batte
violentemente la testa, restando in coma per tre mesi. Al suo risveglio, si
trova in Italia, dove gli amici la tengono nascosta, fingendo persino un
matrimonio con Ron, fino a quando Hermione apprende della morte di Dimitri ed
Astoria, potendo tornare in Inghilterra con suo figlio per cercare Draco. Una
traccia per trovare Raissa risiede inaspettatamente in un incontro che Draco,
incalzato da Adamar durante la sua prova, aveva fatto nell’aldilà: una donna di
nome Tatia Krasova gli
aveva chiesto di riferire ad Hermione il suo nome in modo che si ricordasse di
lei. Hermione, però, non la conosce. Cinque anni dopo, tuttavia, Hermione,
Dean, Pansy e Seth scoprono che Tatia Krasova era una profetessa, il cui nome era stato celato e
nascosto da Raissa, strappando la pagina di un libro, testimoniando quindi un
probabile contatto tra le due. Tatia non voleva che
Hermione si ricordasse di lei cinque anni prima, ma in quel momento, alla
scoperta del gesto di Raissa. Hermione riesce a scoprire dell’ultima dimora di Tatia Krasova: era in Finlandia
dove era sposata con un uomo di nome Ilai Radcenko. A casa di Tatia, Hermione trova una lettera destinata a lei dalla
ragazza e scritta ben dieci anni prima e dove lei le dice tutto quello che le è
accaduto, rivelandole anche che Raissa sente ancora Ilai di cui è innamorata. Tatia era un’amica d’infanzia di Dimitri e Raissa, sebbene
fosse più piccola di loro, i tre erano cresciuti assieme come fratelli. Tatia da sempre dotata di un fortissimo potenziale magico,
aveva da sempre attratto l’indole scientificamente curiosa dei fratelli
Karkaroff, specialmente di Dimitri, che ne era ossessionato molto più che
innamorato. Quando però Tatia ed Ilai si erano
innamorati, Raissa aveva finito per uccidere casualmente Tatia
e Dimitri le aveva fatto promettere di aiutarlo a fare sua una donna che
suscitasse in lui lo stesso interesse che gli aveva provocato Tatia, altrimenti avrebbe rivelato ad Ilai il nome
dell’omicida della moglie. Hermione quindi, conosciuta la verità, ritorna in
Inghilterra con Ilai, Dean, Seth e Pansy, ma giunta a casa di Draco, scopre una
cosa straziante: Serenity chiama Raissa mamma. Interrogando con il Veritaserum
la bambina, scopre che Draco sta addirittura per sposare Raissa stessa;
distrutta, Hermione decide di andarsene senza incontrare Draco e di partire per
la Finlandia con Ilai, a cui la lega una complicità sempre più stretta. Ma,
alla festa di paese dove è andata con suo figlio e i suoi amici prima di
partire, qualcuno dal palco chiama il vincitore del secondo premio di una
lotteria. Viene annunciato a gran voce il nome di Serenity, facendo presagire
che la bambina non sia ovviamente da sola. Ma l’attesa di Hermione si rivela
vana: Serenity non è con Draco, ma con Raissa che, pazza di gelosia nell’aver
intuito un legame tra Ilai ed Hermione, usa un Incantesimo per far comparire
Dimitri, mai morto e sempre più ossessionato da Hermione. Le ordina di uccidere
Draco ed Ilai e lega Alex a sé stesso, di modo che qualsiasi cosa gli succeda,
accada al bambino: Hermione ha solo tre giorni per impedire che l’assimilazione
diventi definitiva e che Dimitri non si suicidi, trascinandosi dietro anche il
figlio. Tornata a casa di Draco, Hermione distrutta ricambia il bacio di Ilai,
poco prima che Draco ricompaia nella sua vita. L’incontro tra i due non è
idilliaco. Entrambi si sentono traditi l’uno dall’altra, in virtù dei legami
intanto sorti tra Hermione ed Ilai, e tra Draco e Raissa. Le cose peggiorano,
quando in modo rocambolesco e a causa dell’intervento dei Karkaroff, Draco
scopre prima che Hermione gliene possa fare parola, che Alex è anche suo
figlio. La scoperta lo distrugge emotivamente e psicologicamente, minando forse
per sempre la fiducia nei confronti di Hermione. Il clima diventa ancora più
complicato e ingestibile, quando Draco ed Hermione apprendono dall’Empatica
Helder di essere finiti nell’occhio del ciclone di una guerra millenaria tra il
demone Adamar e gli Empatici. Non potranno sconfiggere i Karkaroff e
riprendersi il loro figlio, se non supereranno una prova imposta dal demone che
testerà il sentimento che li unisce. Il loro amore, difatti, cinque anni prima,
assieme alla creazione e distruzione dello Zahir e al
ritiro dalla prova di Adamar a cui si era sottoposto Draco, ha scatenato una
serie di eventi che li designa come unici possibili vincitori nei confronti del
demone: solo loro possono invocare la Solutio damnationis, lo scioglimento della dannazione, ossia la
distruzione di ogni potere concesso da Adamar nonché della sua stessa
esistenza. La prova è però complicata, difficile, dura, e Draco ed Hermione
disperano di potercela fare, visto come si è deteriorato il loro rapporto. La Solutio damnationis è però
l’unico modo per sconfiggere Adamar, e liberarsi del potere dell’onniscienza
dei Karkaroff, in modo da eliminarli. Nel piano di Helder, trovano posto tutti
i loro amici, riuniti per salvare il piccolo Alex Malfoy. La prova potrebbe
avere conseguenze mortali per il pianeta, oltre che per loro due e per Ilai
Radcenko, che deve fingersi morto con un complicato meccanismo biologico ed
empatico, per ingannare i Karkaroff. Nonostante tutto, sebbene siano certi di
non potercela fare e rassicurati sul destino dei loro figli qualora la prova
vada male, Draco ed Hermione accettano di sottoporsi alla Solutio
damnationis.
Capitolo 43 – The ballad of silver linings part 1
Questo potrebbe essere l’ultimo tramonto che vedo.
Un pensiero
del genere potrebbe uccidere prima ancora che lo faccia qualcos’altro. Lo so. È
la prima regola della sopravvivenza: non trastullarti in dettagli romantici e
melensi su quello che stai perdendo, o potresti perdere sul serio tutto.
Affrontare la morte non richiede paura se non nella dose necessaria a diventare
coraggio.
E c’è un
punto di equilibrio, un punto morbido e nascosto, dove si deve restare
assolutamente immoti e fermi per poterne trarre forza. È il punto dove hai un
piede nella rievocazione nostalgica di ciò che stai lasciando alle spalle e che
non puoi mai dimenticare, altrimenti diventeresti incosciente ed affronteresti
il pericolo senza la necessaria premeditazione; ed un piede invece nel distacco
cinico, nella dimenticanza di ciò che ti circonda, e dove ne trai freddezza e
spavalderia. Devi salutare il mondo, come se fossi già fiero e soddisfatto di
ciò che ti ha dato.
Come se questo fosse davvero possibile.
Quando
diventai Auror mi dissero che, se non riuscivo a
trovare quel benedetto punto di equilibrio, l’isolamento sarebbe stata la cosa
migliore. Stando soli, difficilmente i sentimenti di rimpianto e ricordo
filtrano in modo così mortificante da farti mancare la forza. La gelida
determinazione che, invece, trai dalla solitudine, non può essere scalfita
facilmente.
E così io,
schiacciata, piegata e sconfitta dal turbinio di una vita ancora giovane ed
irrisolta a cui devo rassegnarmi a dire un ben probabile addio, mi sono
arrampicata sul tetto per restare da sola, per recuperare lucidità e logica,
per infondermi una forza benigna che ancora non provo al pensiero di affrontare
Adamar e, realisticamente, non tornarne viva.
Ad occhi
chiusi, seduta sulle tegole del tetto, le ginocchia abbracciate al petto, ho potuto
ignorare per ben un’ora le volute argentee dei fumi dei vari Patronus che salivano in cielo, mentre la gente nel
giardino, corsa ad aiutarci in questa missione suicida, si esercitava
nell’incanto che dovrebbe tenere a freno il potere negativo di Adamar.
Le voci
erano anch’esse facili da ignorare: si trattava di squillanti saluti e moti
repressi a stento di ilarità, frutto di incontri che probabilmente non
avvenivano da anni. Io stessa ho rivisto persone che, davvero, non credevo che
ancora si ricordassero di me e ci tenessero alla mia persona. Seamus, Calì, Neville, Luna, i fratelli Weasley, ma anche Hannah
Abbott, Cho Chang, Penelope Light, Terry Steeval. Ognuno mi ha accolto con gioia e
sollievo, dichiarandosi felice di mettersi a mia completa disposizione per
salvare mio figlio.
Nessuno di
loro sa di preciso che cosa stia accadendo, Helder dice che è meglio che la
questione della Solutio damnationis
resti solo nostra, affinché nulla trapeli troppo e giunga eventualmente ad
Adamar: per questo, lei stessa controlla scrupolosamente la gente che entra in
casa e che Ginny continua ad arruolare, verificando che non siano anch’esse
persone controllate da Adamar.
I miei ex
compagni ed amici sanno quindi di dover lottare contro un nemico, di cui non
possono sapere molto per motivi di sicurezza: ma non se ne dolgono granché. C’è
ben altro di cui poter conversare, appestando l’aria di brusii e motti di
sorpresa. In poche parole e qualche rapida occhiata, buona parte del mondo
magico, avvezza da anni ormai all’ignoranza e alla dimenticanza su di me e
Draco Malfoy, ha scoperto che non solo lui è vivo, ma ha avuto una relazione a
dir poco improbabile con la sottoscritta e da cui è nato un bambino di nome
Alex.
E questo
basterebbe a metterci sulle copertine di ogni giornale per mesi.
Che abbia di
meglio a cui pensare adesso, non significa, però, che possa sopportare le
lunghe occhiate che mi vengono riservate tra un saluto e l’altro, tra un
abbraccio e l’altro, tra un bacio e l’altro, infarciti spesso di commenti mozzicati
e risate che contribuiscono a rabbuiarmi: tutto questo, peraltro, devo
sopportarlo da sola, dato che di Serpeverde tornati ce ne sono davvero pochi,
quindi Draco non ha alcuna occasione di doversi intrattenere in civili
convenevoli. Anzi, si è chiuso nella sua camera e preferisce starsene per i
fatti suoi, e non posso nemmeno rimproverarlo o ingiungergli di collaborare,
dato che, per questa prova di Adamar, non può esserci alcun genere di
preparazione. Preparazione che, invece, sta affrontando Ilai che, dopo le
spiegazioni di Helder, è stato prelevato da un paio di Empatici prima ancora
che io potessi fare tutte le mie rimostranze al pericoloso piano che lo
riguarda. A questo si aggiunge la delicata faccenda tra Pansy, Blaise e Dean, che provoca scintille elettriche
percettibili in ogni parte della casa: Seth, Natalie e i bambini vengono quindi
usati come comodi parafulmine, per impedire che quei tre restino da soli a
scannarsi. Harry, assieme a Ron, ovviamente si sta dando ad una sorta di
controllo generale di tutto e tutti, cosa che secondo me gli ricorda
enormemente le riunioni dell’ES, riempiendolo di sollievo cauto. E Kevin è
andato via per organizzare la parte del piano che gli compete.
Ed io,
dunque, alla fine ho preso esempio da Malfoy: starmene per i fatti miei era la
cosa migliore. Sono apparentemente priva di occupazione, se non quella di
impensierirmi per il mio bambino e angosciarmi saltuariamente per quello che
accadrà se non dovessi farcela. Il tetto, quindi, come sempre, è stato per me
il ricovero ideale: starmene in pace, sopra tutto e tutti, ad ignorare il conto
alla rovescia del mio sangue che scorre verso la fine. Il segnale della fine,
in fondo, è difficile da ignorare o da dimenticare: è l’alba, Helder ha detto
che ci muoveremo appena trascorsa questa notte.
Una notte insonne, naturalmente: quindi non è che
c’è pericolo che non mi accorga di quando arrivi il momento, dormendo troppo.
Mentre il
sole descriveva la sua curva luminosa nel cielo, richiamato dietro l’orizzonte,
mi sono ricordata della lezione di autocontrollo del mio maestro ai tempi del
corso per Auror. Ho chiuso gli occhi, cercando di
concentrarmi e di ignorare ogni spinta al rammarico, al terrore o al ricordo
che provenisse dalla mia mente e dal mio cuore; ma, dentro di me, qualcosa
emergeva sempre più forte, sempre più incontrollabile, sempre più travolgente,
finché mi ha aperto gli occhi nella luce del tramonto, rendendo i miei occhi
specchi lucidi color rubino.
Mi accorgo
che le mie mani mi tremano, che il mio cuore batte più forte e che il respiro
arranca, e capisco che quel punto di equilibrio non lo troverò mai.
Perché posso accettare che questo sia il mio ultimo
giorno sulla Terra. Posso accettare che ci sia ancora tanto che io voglia fare
e che non farò. Posso accettare di dire addio a tutti. E posso persino
accettare di non rivedere più il mio bambino, purché con la mia morte io lo
liberi e lo salvi, affidandolo a mani amiche che veglino su di lui al posto
mio.
Ma c’è una cosa che non riesco ad accettare. Una sola,
in cui si perpetua l’esistenza stessa del mio fallimento.
Del nostro fallimento.
L’ultimo giorno su questa Terra, io lo passo lontana
dall’uomo che forse non ho mai smesso di amare.
Lo passo, sola, su un tetto a guardare il sole che
muore. Lui lo passa, solo, in una stanza a guardare sé stesso che muore.
Non siamo in grado di starci vicini nemmeno adesso
che, forse, è la fine. E così facendo, la stiamo davvero scrivendo la nostra
fine: perché solo sorreggendoci, solo recuperando l’amore che abbiamo, possiamo
vincere e tornare. Invece, a tutti e due è venuto naturale e scontato stare da
soli. Non c’è più nulla che ci riporti indietro, l’uno nell’altra, se non
nostro figlio.
E questo, nella prova contro Adamar, può significare
soltanto e davvero che ci distruggerà.
Vincerebbe un amore puro, disinteressato, sgombro,
pulito, senza dubbi, remore o rammarichi.
Forse noi non l’abbiamo mai provato. E questo sarà
davvero l’ultimo tramonto che vedo.
Respiro a lungo, mentre il sole scompare dietro gli alberi, tingendo il
cielo di arancio, verde ed indaco. La luna è già spuntata sulla linea bassa
dell’orizzonte, ha una luce smunta e triste e il suo ultimo spicchio è
ovviamente ancora mancante, determinando la sopravvivenza di Alex, la cui
assimilazione con Dimitri non è ancora completa. Una sola fase, e la luna sarà
piena… quando io sarò chissà dove e chissà in che condizioni.
Stanca, mi distendo supina, le braccia incrociate sotto la nuca, il
cielo che fiorisce di stelle. Nel petto che agghiaccia, sento la sensazione che
mi sto davvero distaccando da tutto, persino da Draco, persino da Alex… e forse
va bene così. Non ho bisogno di altre domande irrisolte, non ho bisogno di
portarmi dietro quesiti che non scioglierò mai. In fondo… va bene così.
Va bene anche trovare l’equilibrio nell’indifferenza verso tutto,
ormai.
Chiudo gli occhi, pronta persino ad addormentarmi perché ormai non mi
preoccupa più nulla, quando alle mie spalle sento un rumore quieto, gentile,
preoccupato. Per un attimo, una sciocca speranza tremula si accende nel fondo
di me stessa, poi sparisce fulminea, sedata dalla scarica ghiacciata della mia
calma apparente.
“Sapevo che eri qui…”.
Mi tiro bruscamente a sedere, dando comunque le spalle alla voce che mi
ha appena chiamato. La riconosco naturalmente, cosa che mi fa drizzare la
schiena come se fossi in punizione, prima che le mie mani si artiglino ad una
tegola, come se temessi di ruzzolare giù. Il vento spira un odore buono di mare
che è un ulteriore calcio subdolo agli stinchi: soffia ricordi vecchi eppure
non lontanissimi nel tempo, che stringono il cuore e mangiano il fiato.
Annuisco solo con il capo, l’eco della voce di Ron nella mia testa che echeggia
ancora come dentro una chiesa deserta. È una voce conosciuta, come quella di un
padre o di un fratello, è una conoscenza ormai quasi amniotica, che mi fa
percepire ogni pagliuzza di emozione nelle parole che si lascia sfuggire. Ha un
tono duro, rancoroso, nervoso, ma sempre stemperato da una dolcezza
irrinunciabile e che non riesce a dismettere, come una mania da impazzirci di
ossessione. È un tono che, con me, negli anni ha sempre usato, ha sempre avuto.
È il tono di quando litigavamo ad Hogwarts, il tono di quando stavamo assieme e
mi accusava di essere poco elastica, il tono di quando tentò di spiegarmi
perché mi aveva tradito con Lavanda. Ma, negli anni, in questi cinque anni, ha
assunto un colore più scuro che avevo erroneamente associato al fatto che fosse
cresciuto e si fosse fatto uomo. Poi, con il tempo, nel lampo gelido di una memoria
che non volevo saperne di lasciare andare, ho capito che invece era un tono
cieco di tristezza che, ormai, aveva sempre parlando con me. Ogni volta che mi
guardava… Ron vedeva Draco. E non riusciva a sopportarlo.
Adesso, ovviamente, dopo averlo lasciato in Italia per tornare qui,
quel velo di tristezza si è incancrenito, diventando sempre più pesante ed
opprimente, sfumando in una rabbia ulteriore che rende la sua voce ancora più
terrea e profonda. E, comprendo subito, quel tono suo malgrado dolce e tenero
non è per me. E’ per Alex, che da me ha sempre preso anima e cuore.
E Ron, ora che sono più lucida da ammetterlo, è stato la cosa più
vicina ad un padre che Alex abbia mai avuto.
E’ la verità incontrovertibile di quel pensiero, rinnegato fino a qualche
settimana fa, a mandarmi a fuoco il viso e a farmi luccicare gli occhi,
rendendomi conto di quanto questo potrebbe essere anche l’ultimo momento
in cui vedo Ron, ed ho occasione davvero di parlare con lui, da sola. Provando
almeno a chiedergli scusa, a lasciargli un buon ricordo di me, a ricacciare
indietro tutto quello che è successo… ma soprattutto, e lo capisco solamente
adesso, a dargli la certezza enorme e sconfinata di quanto sia stato importante
averlo vicino a me e a mio figlio in questi anni. Con la cocciutaggine del mio
amore per Draco, ho sporcato l’affetto innocente e sincero che c’era tra loro,
impedendo che diventassero in un modo naturale qualcosa di simile a padre e
figlio. Certo, magari non sarebbe stato giusto verso Draco… ma sarebbe stato
più giusto verso Alex e verso Ron stesso. Lasciarli liberi di essere loro
stessi, senza che io mi mettessi continuamente di mezzo con il mio rammarico e
ricordo. E adesso, sebbene forse sia tardi, sento di dovere questo a Ron, prima
di qualsiasi altra cosa.
Mi viene curiosamente da sorridere intenerita, mentre, voltandomi su me
stessa, dico piano all’ombra alle mie spalle: “La soffitta a casa nostra… ero
convinta che non ti fossi accorto che mi ci rintanavo sempre dentro…”. Ron
sembra esitare, resta per un attimo immobile a guardarmi e gli occhi blu sono
specchi incerti ed affranti. Poi qualcosa sembra convincerlo. Adesso, nella
luce slavata della luna, lo vedo finalmente in viso: è stanco, ha gli occhi
arrossati di sonno ed i capelli rossi disordinati, il volto è pallido e segnato
da profonde occhiaie scure. Eppure ha anche qualcosa di sottile e lieve
nell’espressione da spingermi persino a pensare che, in fondo, stia bene. Non
so perché e non so come, è come una sorta di… speranza… che nemmeno sembra
palesare a sé stesso. Un sollievo, quasi, da qualcosa che non so immaginare e
che, paradossalmente, sento che nemmeno mi riguarda. Meglio così, davvero…
spero davvero con tutte le mie forze che possa trovare qualcosa a cui
aggrapparsi, dopo il caos che ho gettato nella sua vita. Si torce le mani
nervosamente, palesando il suo conflitto interiore, le dita sono sporche del
colore di un pennarello verde e deduco che forse deve aver giocato con i
bambini fino ad ora. Forse… anzi sicuramente… gli manca Alex. Poi fa un
respiro profondo e si siede accanto a me, non sfiorandomi, né guardandomi
neanche per sbaglio.
Fissa ostinatamente gli occhi di fronte a sé, perdendosi nelle chiome
scure degli alberi, poi nel mare che luccica di stelle. Ed è allora che è come
se si ricordasse di me e del mio commento di poco prima, sulla soffitta di casa
nostra in Sicilia. Stringe le spalle ed assume la faccia di uno che ha
masticato un limone, ma ugualmente sussurra tenue: “Sparivi per ore… e non eri
in giardino. Dovevi essere in casa. Sapevo che fuori non potevi uscire
facilmente, senza che Helder controllasse che non ci fosse pericolo.
Semplicemente… credevo che fosse meglio per te restare da sola, quando ne avevi
voglia… e poi… è da Hogwarts che cerchi sempre un punto in alto, quando sei
triste. La Torre d’Astronomia, poi quella specie di verandina al piano
superiore della signora Sanchez quando vivevamo assieme… la soffitta a
Favignana… e adesso qui…”.
“Quindi… credi che io sia triste?” mormoro con un filo di voce,
guardando il suo profilo contratto. Ancora, non mi guarda in faccia, resta
immobile a fissare gli alberi. Non so precisamente che risposte cerco da lui,
forse voglio che qualcuno definisca meglio quello che sento. Perché magari
potessi dire di essere semplicemente triste… peccato che io sia svuotata,
adesso. Ed è peggio.
“Bè, felice non sei…” sputa fuori Ron con durezza, serrando la mascella
ed alzando la voce “E questa, adesso, è la parte peggiore… se tutto questo
casino che è successo fosse servito a renderti felice, almeno ne sarebbe valsa
la pena per uno dei due, o almeno per Alex… ed invece… non sai neanche se…”.
Ron si interrompe, stringe le spalle e tace, improvvisamente a disagio.
“Hai ancora paura di parlare a questo punto?” replico più acida di
quello che vorrei, forse semplicemente perché ha ragione a definirmi così,
forse perché con la solita poca delicatezza che gli appartiene mi mette di
fronte all’inutilità della scelta di tornare qui. Non so per quale motivo la
mia voce si stemperi di nervosismo, ma è quasi confortante poterci parlare come
parlavamo un tempo, definendoci intimamente stupidi e continuando a sentircisi,
anche se per motivi ormai profondamente diversi da un invito al Ballo del Ceppo
o una pila di calzini sporchi abbandonati vicino al letto.
I ricordi dell’intera vita che, nonostante tutto, mi legano a Ron, mi
spingono ad essere ancora più tristemente ostile, mentre biascico, alzando la
voce di un’ottava: “Domani probabilmente sarò morta, Ronald… se devi dirmi
qualcosa, parla… adesso…”.
Finalmente lui torna a guardarmi, ha il viso di nuovo rosso e gli occhi
accesi di furia. Mi afferra per le spalle, mi scuote e mi dice frettoloso, il
respiro ansante e veloce: “E’ tutto collegato, Mione! Tutto! Non capisci? Se
domani muori… è proprio perché… non sai se…”. Ancora si interrompe, mi lascia
le spalle come se si fosse accorto d’improvviso di aver osato troppo.
“Cosa non so, dannazione?!”.
“Se lo ami…” sussurra piano Ron, senza rabbia, senza rancore, solo con
un terribile sentore di vuoto lacerante che mi strazia “Se ami ancora Malfoy…
tu non lo sai se ami ancora Malfoy. Non lo sai, vero? Dopo cinque anni
in cui te l’ho visto stampato in faccia ogni dannato minuto della nostra vita… oggi…
non lo sai. Ed è fantastico, credimi, è perfetto… a che cosa è servito tutto
questo… se non lo dovessi amare più Hermione? Se… domani… per questo… davvero
tu non torni più?”. Le sue parole vere, oneste, dannatamente reali smontano
la mia rabbia frustrata in un istante, costringendomi a stringermi nelle spalle
e a distogliere lo sguardo mentre Ron, con ferocia, affonda le mani nei capelli
rossi e si guarda le scarpe. Biascica solo, con un suono strozzato di gola che
assomiglia ad una risata tetra ed amara: “Ed è assurdo che te lo dica io,
adesso… che adesso te lo stia io anche a chiedere… dovrei essere solamente
felice di questo. Che forse non lo ami più, che non sei sicura di te e lui, che
come prevedevo ti ha ferito al punto da riportarti, un giorno, arresa ed
arrendevole da me… ed invece… non lo sono affatto. Felice… non sono affatto
felice. Perché tu domani…”, la sua voce si spezza, si incrina, diventa un
pigolio indistinto che mormora: “… se non lo ami e se lui non ama te… tu domani
non ci torni viva. Ed è così che ti voglio ancora. Viva. Così che tu
possa rimpiangermi per sempre, così che tu possa capire per sempre che lui non
era quello giusto… ma è così che ti voglio, Mione. Viva. E tu, viva, forse non
ci tornerai affatto da me… tornerai in una cassa piena di fiori, che non posso
insultare, maledire o bestemmiare… così te ne torni, se va bene ed Adamar me lo
lascia un corpo da piangere. Sennò diventi nebbia, fumo, pioggia… e nemmeno ti
seppellisco… ed allora, allora, Hermione, ti prego… dimmelo che lo ami, dimmelo
che sarà per sempre lui, dimmelo che non hai smesso un istante di amarlo e
dimmelo che non è cambiato niente in questi cinque anni… che se non ti fidi di
lui, comunque lo perdoni e lo ami sempre, per sempre, e che domani sarà una
passeggiata, e che tu da me ci torni viva così che possa odiarti, affrontarti e
ripeterti che non lo accetterò mai che ami lui, e non me… ma dimmelo Hermione,
dimmelo ti prego. Dimmelo”.
La voce di Ron si stempera alla fine nelle lacrime che versa nelle
palme chiuse, spegnendosi come un lamento da moribondo. Le sue spalle magre
sono scosse dai singhiozzi che lo scuotono dall’interno e io, inorridita,
agghiacciata, sconvolta, non riesco a fare altro che chinarmi su di lui ed
abbracciare quelle sue spalle tremanti, cingendole tra le mie braccia. Ron mi
stringe per i fianchi, piange ancora, sento le lacrime scivolare indolenti
lungo il mio collo. E piango con lui, assieme a lui, cercando sollievo e
ristoro, coraggio e salvazione, perdono ed amnesia. È in questo pianto che, per
miracolo, lo sento di nuovo mio, lo sento vicino davvero. Siamo stati assieme
per anni, migliori amici, poi innamorati, infine perfino sposati. Ma mai
davvero vicini… come ora. Ed in questo so che il suo sfogo non ha a che fare
con Draco, so che non ha bisogno davvero di una risposta che non ho. Se lo
amo ancora, se amo davvero Draco.
Che senso avrebbe dirgli che lo amo ancora, ammesso che questo basti
nella prova con Adamar?
Che senso avrebbe invece dirgli che non lo amo più, ammesso che questo
serva a consolarlo sul serio?
Ho messo sempre qualcuno tra me e Ron: prima Harry, poi il mio lavoro,
poi Lavanda. Infine Draco ed Alex. Adesso siamo soli, adesso è solo tra me e
lui. Non voglio dirgli bugie, non voglio nascondermi e non voglio nemmeno
arrampicarmi sugli specchi, mettendomi a descrivere i sentimenti che ho per
Draco e le possibilità che ho di tornare viva o morta. Voglio dirgli addio…
comunque vada. Voglio dire addio alla versione marcia che siamo stati per
cinque anni. Voglio che ci siamo sul serio soltanto io e lui, adesso. Ho troppo
da dirgli, troppo da farmi perdonare. E, per una volta, Draco non c’entra
niente.
C’entro solo io. E il mio migliore amico, che ho lasciato a caricarsi
del peso di qualcosa che davvero non gli apparteneva e non gli competeva.
Non dovrà più preoccuparsi di me e Draco, mai più, lacerandosi nella
gelosia e nel dolore: non dovrà più preoccuparsi né che io lo ami, né che io
non lo ami. Sarà un problema mio… come sempre doveva essere. È il mio ultimo
regalo per lui… che spero, davvero, che accetti.
Per questo, quando sento il suo respiro più calmo e la sua stretta
sulla mia vita meno salda, mi azzardo a sussurrare con voce spezzata, prendendo
fiato dopo il pianto: “Immagino che domani sapremo a che punto siamo io… e
Malfoy. Almeno, in un contorto e discutibile modo, la chiariremo una volta per
tutte…”. Ron si stacca da me, guardandomi con le sopracciglia aggrottate, prima
di dire nervoso: “Dovrebbe essere una cosa buona, dunque, gettarti in pasto a
quel mostro senza sapere se ne uscirai viva?”.
Respiro a lungo, distogliendo lo sguardo da lui per puntarlo sulla luna
lontana. Quando sono certa che sono sufficientemente calma ed in grado di
dissimulare la mia reale paura, mescolandola ad un’audace noncuranza, torno a
guardarlo con espressione quasi scocciata: “Andiamo Ron… non è una novità.
Rischio la vita da quando avevo undici anni… c’eri anche tu, no?”.
“Ma… stavolta… io non ci sarò. E nemmeno Harry. Ci sarà solo lui… solo
Malfoy…” la voce di Ron si colma di preoccupazione rancorosa “E di lui non mi
fiderò mai”.
Gli prendo la mano tra le mie, Ron deglutisce un paio di volte a
disagio e le sue orecchie diventano rosse, come accadeva quando eravamo
ragazzi. Questa cosa mi fa sorridere di tenerezza, rendendomi conto che una
parte di noi, sepolta chissà dove, esiste ancora.
Incoraggiata, proseguo e lo guardo negli occhi: “E allora fidati di me.
Fidati che farò l’impossibile per tornare. Questo puoi farlo? Puoi ancora
fidarti di me?”.
Non ha esitazione Ron nel rispondere, è rapido, veloce, sicuro. Uomo,
come non mi era mai sembrato, nonostante tutto. Stringe forte le mie mani: “Io
mi sono sempre fidato di te. E non smetterò adesso”.
“Grazie” dico con un groppone in gola, che rende quella semplice parola
più acuta di quanto dovrebbe essere. Nascondo le lacrime poggiando la guancia
sulla sua spalla e chiudendo gli occhi. Il silenzio della notte ci avvolge come
una preghiera di perdono, che forse qualcuno oggi si degnerà di ascoltare. Ron
resta immobile, accogliendomi contro di lui, respira piano sui miei capelli,
baciandomi la testa con affetto. È solo fraterno, non c’è nulla di passionale e
nemmeno di lontanamente sensuale. Una calma friabile si insinua dentro di me,
mentre i pensieri si allontanano. Tutti, tranne uno. Che mi spinge a riaprire
bocca dopo qualche secondo, seppure non muovendomi di un millimetro.
“Ho bisogno di dirti delle cose… ma credimi, non c’entra niente quello
che sta succedendo adesso. Non è un patetico addio o discorso da moribonda. È
solo arrivato il momento che io te le dica. Credo che fosse arrivato da tempo…
ma ero troppo persa ed egoista per rendermene conto. La perdita di Alex ha
rimesso le cose in prospettiva, almeno questo”.
Ron non si muove nemmeno lui, resta immobile, si sistema meglio e
basta, articolando un suono di gola che assomiglia ad un cenno di assenso.
“Scusami per averti costretto a sopportare tutto questo per cinque
anni” lo sputo fuori velocemente, senza remore, solo con rimorso. Una lacrima
mi sfugge senza accorgermene, la freno con la mano prima che rovini sul mio
collo, rendendosi visibile. Sono parole semplici e complesse assieme,
racchiudono davvero tutto. Non potrei aggiungere altro, se non risultando falsa
o compassionevole, ispirando una pietà marcia e tardiva. E non si merita anche
pietà, adesso… non dopo tutto quello che gli ho costretto a passare,
illudendolo nella forma farinosa di una famiglia che non era la sua,
impedendogli di cercare la sua di strada e non mostrandomi nemmeno riconoscente
per quello che faceva.
Ron sospira, sembra persino sorridere e mi bacia ancora i capelli, prima
di sussurrare quieto e tranquillo: Ti amavo, ti amo ancora e forse ti amerò
sempre. Ed amo tuo figlio… non è stata una sopportazione. È stato il mio sogno…
essere tuo marito. Semplicemente non lo era anche il tuo…”.
Non lo riconosco, davvero non riconosco quest’uomo capace di cedermi
così facilmente, senza artigliarsi di fuoco sul mio cuore per strapparlo a chi
ha osato rubarlo a lui. Non riconosco la sua calma, la sua quiete, la sua
placidità. La sua rassegnazione matura di chi ha smesso di lottare. Eppure non
c’è, d’improvviso, dolore lacerante in lui, tantomeno rabbia o orgoglio
tradito. È triste, questo sì… ma improvvisamente riconciliato con l’idea di
lasciarmi davvero andare.
Sussurro a mia volta, piano, come timorosa di rompere un fragile equilibrio,
lieta di non doverlo guardare in viso ma di poter restare ad occhi chiusi ad
immaginare il mare lontano: “Tu però non avresti dovuto vivere con questo peso
costante… che non fosse quello che volevo anche io. Non avrei dovuto ricordarti
ogni minuto che…”.
“… che non ero lui…” completa Ron, dando voce ai miei pensieri.
Sgrano gli occhi, rabbrividendo, irrigidendomi per un attimo. Lui… me lo
immagino chiaramente davanti agli occhi, come se fosse qui.
Draco.
Mi trema il cuore, mentre biascico: “Già”.
“Non è stato piacevole…” sorride amaramente Ron, prima di continuare
con voce monocorde: “Ma Mione… andiamo, è stata anche colpa mia… io
semplicemente non ti volevo sentire, non volevo vedere. Cinque anni a foderarmi
gli occhi e le orecchie di prosciutto per non rendermi conto che…”. Ron si
interrompe a disagio, grattandosi la nuca: “Insomma hai avuto un figlio da lui.
Non avevi alcun istinto materno, alcun desiderio di diventare madre… ma è
bastato che fosse suo figlio per spingerti a farlo nascere. Avrei dovuto
capirlo già da allora… ma per anni ho pensato solo che tu avessi sbagliato, che
ero io quello fatto apposta per te. L’amico d’infanzia, il tuo complementare,
la favola buona e pure un po’ sciocca dell’amore che nasce da bambini e non
cambia e muta mai. Probabilmente una parte di me penserà sempre che io fossi
quello perfetto per te. Ma non sono quello giusto… vorrei soltanto che quello
giusto non fosse proprio Draco Malfoy…”.
“Non immagini quante volte l’ho pensato io…” dico sinceramente,
riaprendo gli occhi “Mesi, anni. In Italia. Alle volte, volevo davvero che tu
diventassi la mia famiglia. Sul serio, senza finzione… ”.
L’ho davvero voluto, l’ho davvero pensato. Se quello che provavo per
Draco non fosse stato così forte, così assoluto, così maledettamente
totalizzante da non farmi prendere in considerazione null’altro che lui, e se
non ci fosse stato Alex a ricordarmi eternamente che era suo figlio…
probabilmente avrei davvero pensato di tornare con Ron. Se Draco fosse stato un
amore semplice, normale, da consumarsi in un paio di anni e da non ripensarci
mai più… non avrei resistito all’idea assolutamente giusta e migliore di
appartenere a Ron. Ma non era così, non è mai stato così.
Da quando sono entrata al Petite Peste, da quando ho suonato Forbidden
colours al pianoforte, da quando sono stata davvero sul punto di sposare un
uomo con cui stavo da dieci giorni…
… io non ho mai avuto scampo.
Mai.
Ron si schiarisce la voce, come a nascondere qualcosa di sepolto che
conosce solo lui, poi greve prosegue: “Da qualche parte, magari io e te davvero
siamo stati felici. Ci siamo sposati, abbiamo avuto dei figli, siamo
invecchiati assieme. Ma in questa vita, in questo mondo… non è stato mai il
nostro destino. Io ti ho tradito, ti ho lasciato, ci siamo fatti del male… ma
la verità è che siamo cresciuti, siamo cambiati. Non saprò mai darti quello che
ti dà lui, anche se non lo capisco. E tu… nemmeno. Dovevo smettere di essere
così cieco per capire anche questo, Mione. Mi merito di essere il primo,
l’unico. Non il secondo, non il ripiego. Tu non potevi darmelo, non più. Ero
così imbalsamato in questa fantasia di vita perfetta con te… da non aver capito
anche questo… ho sempre cercato di cambiarti. Tu lo stesso. Non ho mai avuto la
spinta a cambiare io da solo. Tu lo stesso. Tu… e lui… vi siete cambiati così
tanto nel corso degli anni, da essere diventati due estranei per chiunque,
tranne che per voi stessi…”.
Vi siete
cambiati così tanto nel corso degli anni, da essere diventati due estranei per
chiunque, tranne che per voi stessi…
Rabbrividisco, sento il sangue affluire tutto alla testa, lasciandomi
ghiacciata nel resto del corpo. La verità semplice che ha snocciolato Ron in
poche mozzicate parole, mi ha raggiunto con la forza di un uragano. Solo
Draco sa chi sono davvero. Solo lui capisce chi sono sul serio, dentro. Tutti
sono bloccati ed ostaggi in memorie morte e sepolte di me, tutti. Tranne lui.
Mi ha tagliata fuori dal mio mondo, passo dopo passo, emozione dopo
emozione, bacio dopo bacio. Senza apparente fretta, senza nemmeno che me ne
rendessi compiutamente conto… ed alla fine sono diventata estranea ai miei
amici, alla mia famiglia, persino a me stessa. Solo lui riesce a riconoscermi
davvero. Soltanto lui… ed il bello è che quella che gli altri conoscevano non
era la vera me stessa, non è che io d’improvviso sono diventata un’estranea.
Gli altri mi vedono così, d’accordo, ma io in verità… ho semplicemente smesso
di sembrare perfetta e sono diventata vera. La vera me.
Draco mi ha fatto capire che non avevo bisogno di essere perfetta per
essere amata: se mi amava lui, con tutto quello che ci aveva sempre diviso,
poteva riuscirci chiunque altro.
Gli devo tanto, nonostante tutto: alla fine, in uno strano e goffo
modo, sono contenta di quella che sono diventata. Sono più… serena, perché
libera di sbagliare, di peccare, di non essere impeccabile.
Mi sono sentita libera al punto di avere un figlio da non sposata; al
punto di abbandonarmi ad un bacio solo perché lo volevo; al punto di non
lasciarmi travolgere da giudizi morali sui miei amici e su chi ha sposato chi.
In fondo, credo che Draco mi abbia persino reso migliore… e mi ha donato Alex.
Questo non credo che lo dimenticherò mai.
Sono rimasta troppo in tempo in silenzio e la tensione imbarazzante del
momento sembra essere risalita tra me e Ron, allontanando quella leggerezza
spensierata che ci aveva sfiorato per un attimo. Ritorna di nuovo cupo il
ricordo di ciò che mi aspetta domani, cosa che curva le mie spalle e serra le
mani di Ron in una morsa ghiacciata. Respirando forte, spintono scherzosamente
una sua spalla con la mia, aggiungendo sarcastica: “Quando sei diventato così
saggio, Ronald?”.
Lui coglie il mio invito ad alleggerire l’atmosfera e sospira casuale:
““Bah sarà l’influenza di Natalie. Lei è fissata per queste cose… destino,
karma, fato. Se ne va in giro tranquilla e serena che tutto quello che le
succede è solo quello che le doveva, per forza di cose, accadere… si fida
troppo dell’Universo…”.
“Vorrei essere così pura ed ingenua come lei, davvero…” aggiungo con un
moto inconsapevole d’invidia, distendendomi sulle tegole del tetto ed
incrociando le braccia sotto la nuca.
“Sembra ingenua. Lo sembra sul serio…” commenta Ron, imitandomi
e distendendosi accanto a me, il volto rapito dalle stelle. “La guardi, la
senti parlare… e all’inizio ti dà quasi sui nervi. Così certa, convinta,
sicura… che il bene torna sempre indietro, che la vita in fondo sia giusta e
che bisogna solo avere pazienza. Però non riesci a risponderle male, a smontare
le sue illusioni. Stai zitto. E lei invece alla fine ha la meglio su di te…”.
Mi poggio su un fianco, una mano aperta a sostenermi il mento, e studio il viso
di Ron con attenzione.
Lui tiene gli occhi ostinatamente rivolti al cielo, sono lievemente
illuminati dalla luce della luna, eppure li distinguo più azzurri del solito. Non
sarà che…?
Mi viene inconsciamente da sorridere, un ulteriore peso che mi
alleggerisce il cuore. So di non potermelo permettere, so di non voler
liquidare il senso di colpa che sento per Ron con una stupida supposizione
gratuita, ma so anche che incamminarmi verso la morte con il pensiero di non
lasciarlo del tutto solo… è quanto di più piacevole io potessi immaginare,
adesso.
La sua voce si è tinta di una dolcezza stemperata da una sorta di paura,
parlando di Natalie, e come da tradizione le sue orecchie si sono fatte
lievemente più rosee.
Non ha mai avuto quel tono, parlando di nessuna, tantomeno di Ginny, di
Lavanda o di me.
Non so se sia per curiosità autentica, per voglia di tranquillizzarmi o
semplicemente perché con lui non abbandonerò mai l’istinto di voler avere
ragione, ma gli chiedo apparentemente indifferente: “La conosci bene… era
un’amica di Lavanda? Ad Hogwarts non ricordo che la frequentassi più di tanto…
era più piccola di noi di tre anni… ed anche se era nella segreteria di Harry,
Lavanda faceva il lavoro grosso, lei non la vedevamo quasi mai…”.
Ron, a quel punto, mi racconta tutta la storia di Natalie. Lo fa senza
fretta, con attenzione, con una cauta dolcezza e una ferma ammirazione che
ancora mi conferma che ci tiene parecchio a lei. Non l’aveva incontrata
moltissime volte mentre stava con Lavanda, ma in una di quelle occasioni si era
ritrovato a parlarle, dato che erano i soli che ad una particolare festa dove
non conoscevano nessuno. La guerra aveva lasciato Natalie orfana di entrambi i
genitori e di sua sorella, aveva anche perso la sua casa e quel poco di
sicurezza economica che aveva. Affamata, sporca, lacera, era stata raccattata
per strada da Florian Fortebraccio, il proprietario della gelateria di Diagon
Alley che conosceva sua madre da molti anni e che si era quindi preso cura di
lei. Natalie iniziò a lavorare nella gelateria, che però stentava ovviamente ad
andare avanti durante la guerra, situazione che divenne ancora più complicata
alla scomparsa di Florian. A quel punto, finalmente, il figlio di Florian,
Damon, era tornato dalla Spagna dove viveva da molti anni per aiutare la
ragazza con l’impresa di famiglia. Damon era un ragazzo sicuro di sé, forte,
imprevedibile, dal carattere impetuoso e passionale: in pochi mesi, lui e
Natalie si erano innamorati. Alla fine della guerra, avevano deciso di
sposarsi, dopo due anni e mezzo in cui stavano assieme. Quando Ron aveva
incontrato Natalie alla festa di Lavanda, a cui ci era andata da sola perché
Damon aveva da lavorare, lei gli aveva appunto raccontato che era sposata da
qualche mese e questo aveva destato molta curiosità in Ron, dato che lei era
ancora molto giovane, essendo poco più che ventenne. Lo aveva colpito anche il
modo pacato con cui parlava della sua relazione con Damon, del fatto che lui
fosse molto diverso da lei, ma che era sempre stata certa, da quando lo aveva
visto, che doveva diventare suo marito. Si completavano a vicenda. Ron l’aveva
trovata ingenua, infantile, mentre gli raccontava queste cose, mentre gli
diceva che aveva sempre sentito che la guerra le aveva insegnato che non aveva
senso aspettare, che quando hai l’occasione di essere davvero felice, dovresti
cogliere le occasioni al volo. Eppure quel discorso lo colpì molto, specie
perché da tempo aveva più o meno capito che non amava Lavanda e che stava solo
perdendo tempo con lei. Di Natalie non seppe più nulla per anni. Quando poi io
tornai in Inghilterra dopo averlo lasciato in Italia, Ron dopo qualche giorno
tornò a sua volta a Londra. Andò a Diagon Alley, vide la coda nella gelateria
di Fortebraccio e si ricordò di lei, del suo discorso.
“Di quel
sentimento assoluto che ti impedisce di scappare quando lo trovi. Mi ricordai
di quando Natalie mi aveva parlato di lei e Damon, della sua impossibilità di
aspettare un solo giorno per sposarlo. E ripensai a te e a Malfoy… al fatto che
dopo cinque anni, con tutta la logica e la razionalità del mondo contro… ancora
non riuscivi a lasciarlo andare…”.
Mi stringo nelle spalle mentre Ron continua a raccontare. Natalie lo
aveva accolto con calore, facendolo accomodare subito, e Ron si era
immediatamente accorto di come il locale fosse cambiato. Era diventato più
luminoso, più nuovo, persino migliore di come era prima della guerra, era
pienissimo di gente. Natalie a quel punto gli aveva raccontato che era la nuova
proprietaria della gelateria, da quando Damon circa un anno prima era morto. A
Ron, però, quella rivelazione non era parsa così lacerante per la ragazza e,
conversando, aveva capito il perché. Lei e Damon si erano lasciati circa tre
anni prima, pochi mesi dopo la nascita del loro figlio, Elias. Natalie era
stata molto vaga, non aveva parlato delle motivazioni, aveva solo detto
laconicamente che non andavano più d’accordo. Aveva però garantito che erano
rimasti in buoni rapporti, lei aveva iniziato a lavorare come tata e lui aveva
ripreso le redini della gelateria. Ogni weekend, Natalie portava Elias da suo
padre. Durante, però, uno di questi weekend, Damon fu misteriosamente ucciso
nella gelateria stessa. Fu letteralmente fatto a pezzi, probabilmente da
Mangiamorte impenitenti o da rapinatori scontenti. Era riuscito a nascondere il
figlio Elias sotto una scrivania, impedendo che si facesse male anche lui, ma
il bambino evidentemente aveva assistito comunque alla scena.
Ascolto sconvolta le ultime parole di Ron, stringendomi convulsamente
le mani in grembo, mentre finalmente collego il motivo della stranezza di Elias
non appena l’avevo visto.
“Elias, da quel momento, si è chiuso completamente in sé stesso…”
aggiunge Ron stancamente, stropicciandosi gli occhi “I medici dicono che ha
sviluppato una sorta di autismo di reazione al trauma della morte del padre.
Non parla, non vuole farsi toccare, non ha la benché minima relazione con
nessuno. È contento di starsene in silenzio e basta…”.
Agghiacciata, ripensando istintivamente a mio figlio con un moto di
autentica empatia per la povera Natalie, chiedo: “Ha subito dei danni
celebrali?”.
“No… ed è questa la cosa strana…” commenta con una risata amara Ron,
sospirando di frustrazione “Elias… ha un quoziente intellettivo molto alto. Ha
imparato a leggere a due anni. Sa già risolvere problemi ed equazioni… e ha
solo tre anni. Legge tantissimo, divora libri su libri, conosce a memoria la
tavola periodica e le capitali di ogni stato del mondo… è semplicemente… un
genio, ecco… solo… non è molto interessato alle iterazioni umane… e
credimi, non è che non sappia parlare, lo sa fare…”.
“Come lo sai? Con Natalie parla?”.
“A volte… soprattutto per fare delle domande sugli argomenti più
disparati che gli saltano in mente…” aggiunge Ron “Natalie si documenta, dato
che si tratta spesso di cose che nemmeno lei conosce appieno, lui ascolta
crucciato e poi se ne torna nel suo silenzio. A riflettere, a pensare. È come
se volesse smontare il mondo per capire come diamine funziona… sono gli unici
momenti di vera relazione che hanno tra loro… e a Natalie, nonostante tutto, va
benissimo così. Basta che lui la chiami mamma e le chieda perché il cielo è
azzurro, ed è autenticamente felice… anzi…”. Ron d’un tratto si interrompe a
disagio, grattandosi la testa, come se fosse improvvisamente reticente nel
continuare, quasi imbarazzato.
“Cosa?” lo incoraggio, guardandolo in modo comprensivo.
Ron sospira a lungo come a darsi un contegno, storce il naso ancora
indeciso, prima di continuare con un cenno nervoso della mano: “Natalie era felice
di questi piccoli gesti di Elias… quando era convinta che a suo figlio fosse
precluso altro… poi… ha scoperto che non è così…”.
“Come?”.
“Il giorno in cui io l’ho incontrata a Londra… lei all’inizio mi aveva
solo raccontato della morte di Damon e del fatto che avesse avuto un figlio,
non tutta la sua… situazione, ecco… c’era molta gente nel locale, si è
dovuta allontanare per alcune cose… ed in quel momento è arrivato Elias.
Spuntato dal nulla come un fungo. Mi ha guardato e basta per qualche minuto,
come se mi stesse studiando. Io… ho intuito che era suo figlio. Non sapevo
naturalmente delle sue difficoltà relazionali… e…”. Ron si ferma, respira
forte, poi prosegue con un filo di voce: “Sentivo la mancanza di Alex. E mi è
venuto naturale… parlargli normalmente, come si fa a qualsiasi bambino…”.
Punta da quella vena di nostalgia e da un nuovo afflato di senso di colpa,
mi affretto a chiedere comprensiva: “Ed Elias ha reagito male?”.
“No…” sorride Ron, ostentando un’espressione quasi incredula “Ha
reagito bene… cioè… neanche bene. Ha reagito come un normale bambino. Mi ha
chiesto chi fossi, che ci facessi qui, come conoscessi sua madre, se eravamo
amici da tanto, quale casa frequentassi ad Hogwarts. Mi ha chiesto persino
perché i miei capelli sono di questo colore. E che la fragola bollente è il suo
gusto preferito di gelato. Sono riuscito persino a… prenderlo in braccio…”.
“Davvero? Ma è una cosa miracolosa, Ron!”.
“Natalie, quando è rientrata… è scoppiata a piangere, vedendolo… ha
fatto cadere un vassoio pieno di coppette di gelato… e io non capivo che ci
fosse di così strano… ma lei… non riesce a prenderlo in braccio dal giorno
dell’omicidio di Damon… anche se lo fa, per esigenze concrete, Elias si dimena
dopo pochi secondi… che se ne stesse tranquillo, in braccio ad uno sconosciuto,
a mangiare il gelato… era incredibile per lei… per quello mi ha raccontato tutto…”.
Scuoto il capo a mia volta, incredula, immaginando la faccia di Natalie
a quella visione. Probabilmente sarei stata invidiosa al suo posto, ma
soprattutto… felice, ecco. In un certo qual modo, è quasi una conferma di
quello che ho sempre pensato di Ron. Che sia una persona speciale… Elias, a suo
modo, con la sua sensibilità di bambino particolare, deve averlo capito subito.
“Da allora… insomma Nat… ha voluto che li stessi vicino…” balbetta Ron
rosso in viso, dandomi ulteriore conferma che la situazione non gli è affatto
dispiaciuta, sorrido cercando di non farmene accorgere “Elias… a volte parla
con me. Non ha uno schema preciso. Ci sono giornate sì… e giornate no… ma per
qualche motivo, che ancora nessun medico si spiega… a me dice più cose del suo
solito. Stipa decine di parole in quei pochi secondi… per questo… ero con lei
quando Helder mi ha chiamato… Natalie… sapeva già tutto di te, di Malfoy, di
Alex… alla fine… le avevo raccontato tutto… mi dispiace…”.
“Figurati… non hai niente di cui scusarti… non dirlo neanche per
scherzo…” dico convinta, sorridendo. Ci mancherebbe che, dopo anni, non potesse
nemmeno confidarsi con qualcuno sul casino che ho deliberatamente gettato nella
sua vita peggio dell’uragano Katrina.
“Quando ho saputo del rapimento di Alex… ero con lei e lei ha deciso di
aiutarci, ovviamente… ” aggiunge Ron con voce casuale, cercando quasi di non
darci importanza. Ma lo capisco, lo vedo… lo conosco troppo bene per non
rendermene conto. Ha gli occhi di una persona presa di sorpresa. Ha lo stesso
sguardo che affastella particolari su una persona, sentendosi sempre incredulo,
al limite tra il rifiuto e la voglia.
Ha lo stesso
sguardo che forse lui ha visto in me, cinque anni fa, al Tourquoise Party,
mentre mi voltavo su me stessa per guardare Draco.
Si potrebbe innamorare di lei. Si è già innamorato di suo figlio.
È una favola così perfetta e giusta che, se davvero dovrò morire, la
chiederò come ultimo desiderio.
E non per avere la remissione dei peccati ed andarmene contenta… ma
perché Ron se lo merita. Tutto. Si merita un miracolo venutolo a cercare dagli
angoli della vita stessa. Si merita di essere indispensabile, come mai è stato
né con me, né in famiglia, né con Harry. Si merita di sentirsi unico al mondo,
speciale in un modo che ha tutto della magia e della predestinazione. Si merita
la bontà di Natalie che, un giorno, se mai accadrà, gli farà persino accettare
la mia morte. Se lo merita.
E Natalie merita lui, così come Elias.
Sarà davvero
il mio ultimo desiderio, se dovessi morire.
“Prima di andarmene, la dovrò ringraziare sul serio…” dico con
decisione, una pausa sofferta che piega le mie parole in tutti i sensi
possibili, così che anche Ron possa capire, pur fingendo di non essersene
accorto “E dovrò ringraziare anche te… ti tocca, Ronald…”.
“Lo farai quando torni. Viva. Non ho intenzione di parlare con una
bara…” biascica lui sicuro, afferrandomi per un polso come a volermi ancora
trattenere.
Sorrido ancora a quel tentativo colmo di disperazione caparbia ed
intensa, che mi ricordano il ragazzo di cui mi sono innamorata anni fa, la
struggente intensità ostinata del primo amore. Poi soggiungo quieta: “Non ci
voglio tornare in una bara. Ma può succedere, Ron, e, prima che tu mi
interrompa, c’è davvero una cosa che posso dirti solo adesso…”.
“Non voglio ascoltarti…” protesta lui, accennando persino ad alzarsi in
piedi, innervosito e furente. Lo imito, fronteggiandolo con lo sguardo,
sfidandolo ad andarsene. Ma lui ovviamente non lo fa: mastica dolore e rabbia
negli occhi, ma resta inchiodato al suo posto, ad ascoltarmi, i capelli
scompigliati dal vento.
“Se non torno indietro…” inizio con la voce spezzata, incerta,
ingoiando le lacrime “Voglio che lo dica tu ad Alex. E voglio che gli stia
vicino sempre… Dean e Pansy erano la scelta giusta per crescerlo. Lo sono
ancora. Era la sola cosa che…”, che Draco avrebbe concesso, penso con
ferocia, ma non lo dico. Il nome di Draco è nascosto nelle pieghe di questa
conversazione, se uscisse deflagrerebbe come una bomba atomica, ricordandoci
davvero tutto quello che sta nel sottotesto di noi stessi, restando non detto
per paura di spezzare quel poco che ancora c’è tra noi. Quindi taccio, distolgo
lo sguardo, guardo la luna incompleta e cerco di caricare il silenzio di altre
parole, magari della consapevolezza che affidare Alex ad una coppia sposata
sarebbe più facile dal punto di vista legale, o magari anche più gestibile per
loro, che sono in due ed hanno già una bambina. In realtà, e forse Ron lo sa
perché stringe gli occhi e piega le spalle, al di là della stima per Dean e
Pansy, ho scelto loro perché era giusto così. Perché volevo che questa scelta
non fosse solo mia… ma anche di Draco. Volevo sentirmi unita a lui come
genitore per la prima e forse unica volta della nostra vita. Volevo dividere il
carico di questa responsabilità con lui… non volevo più sentirmi sola. Ma
questo non toglie che, sebbene io sappia e riconosca che Draco sia padre di
Alex ed abbia ogni diritto del mondo di condividere le mie scelte, il vero ed
autentico padre che Alex ha avuto per cinque anni… è stato Ron. Anche se non
l’ha mai chiamato papà, anche se sapeva la verità, anche se lo vedeva come un
amico solo più grande.
Ron gli ha insegnato a nuotare. Ron gli ha fatto il bagno con l’amido
di mais, quando ha preso la varicella. Ron l’ha accompagnato agli allenamenti
di calcio. Ron gli ha spiegato, a suo modo, perché lui e la mamma non si
baciavano mai. E se è la morte imminente e probabile che ha fatto sì che
ricordassi tutte queste cose, poco importa. Basta che ci sono arrivata.
“Promettimi che non lo lascerai solo…” mastico amaro, chiudendomi la
bocca con la mano e fermando questa serie idiota di rantoli scomposti della mia
voce “So che non ho alcun diritto di chiederti niente, ma…”.
“Non dovevi neanche chiedermelo…” sorride Ron, dandomi un buffetto
sulla guancia, nascondendo in questo gesto casuale le lacrime che non vuole
versare “L’avrei fatto lo stesso… ma adesso che so che lo vuoi anche tu… ti
giuro che non lo lascerò mai solo…”.
“Grazie…” pigolo incerta, schiarendomi la voce nel tentativo di farla
sembrare assolutamente normale, il pianto si incaglia in gola, distorcendo i
suoni che mi escono dalle labbra e facendoli sembrare ancora più acuti del
normale. Gli do le spalle, cercando di ricompormi. Mi asciugo il viso e respiro
a fondo, Ron mi lascia fare. Con la delicatezza che non gli ho mai
riconosciuto, non mi sfiora né mi consola, né tantomeno dice altro. Lascia che
il silenzio si prenda i miei singhiozzi come a volerli cancellare, come a voler
far finta che non ci siano. Gli sono grata, ancora. Perché sa quanto detesti
essere guardata mentre piango, o essere compatita. Gli sono grata per la
promessa che mi ha fatto.
Adesso, posso andarmene quasi serena.
Natalie gli starà accanto. Gli ho chiesto scusa. L’ho ringraziato. Ed
Alex avrà lui, se io non dovessi tornare.
Quasi ad avvisarmi di questa pace, respiro forte il silenzio calato tra
noi che ha un odore placido, soave, assorto di pensieri ormai puliti,
cristallini, sgombri. La notte è ormai calata a grandi stelle su di noi, il
mare borbotta poco lontano e il vento sa di magnolia e resina. Quando mi volto
verso di lui, so di aver detto tutto quello che volevo, so che ha fatto
altrettanto.
Ha gli occhi rossi, ha pianto anche lui, approfittando che fossi
voltata e gli dessi le spalle. Ma sulle sue labbra comunque compare un sorriso
dispettoso, mentre mi dice: “Malfoy mi aveva mandato a chiamarti quando sono
arrivato… circa quarantacinque minuti fa…”.
“Che cosa?! Che diamine vuole, adesso?” chiedo sconvolta, la calma che
mi viene strizzata fuori dal petto come se fossi un indumento appena lavato.
Ron fa spallucce, disinteressato: “Non lo chiedere a me… sembrava solo…
nervoso…”.
“Non che sia un discrimine del suo comportamento… quello è nato nervoso…”
borbotto, incrociando meccanicamente le braccia, mentre a Ron sfugge una risata
leggera: “Avrei voluto dirtelo subito… ma poi abbiamo iniziato il nostro
chiarimento cuore a cuore… e mi è passato di mente…”.
Inarco un sopracciglio scettica, costringendolo a confessare con aria
candida: “E va bene, d’accordo… è stato un piacere per l’anima ignorare
deliberatamente che cosa mi aveva detto…”. Mi viene da ridere in modo
incontrollato, ricordandomi a mia volta tutte le volte in cui usavo Draco come
una palletta antistress al Petite Peste, ricavandone un sadico piacere. Però,
sforzandomi al massimo, sbuffo e dico con voce fintamente seria: “Il mio ultimo
pensiero quando Malfoy mi ucciderà sarà per te, mio caro ex marito
improvvidamente intempestivo nella comunicazione dei messaggi…”.
Il candore spensierato della risata di Ron è la migliore delle
ricompense, persino di fronte alla probabile arrabbiatura di Draco. È il segno
che possiamo tornare ad essere quelli di prima, io e Ron. Questo valeva ogni
cosa. Si meritava di essere più importante di ogni cosa per una volta nella
vita.
Dopo averlo salutato, scendendo le scale, mi cerco nelle tasche
l’anello con la pietra rossa che simboleggiava il nostro matrimonio, quando ero
in Italia. L’ho sempre odiato, era una promemoria della stucchevole vita finta
che conducevo e che mi teneva separata da Draco. Adesso significa gratitudine,
stima, speranza, amicizia. Contenta lo indosso di nuovo, ma all’anulare destro.
Il sinistro, quello dei matrimoni e delle promesse, mio malgrado
resterà per sempre vuoto.
Ciondolo per un po’ nel corridoio, incerta sul da farsi. Cerco Draco
guardinga, chiedendomi nervosamente che cosa voglia al momento.
Nulla di
buono, sicuramente. E se ha ancora intenzione di farmi rimproveri o scenate, lo
manderò a quel paese e tanti saluti.
Se è davvero
il mio ultimo giorno sulla Terra, ho di meglio da fare che sentirlo inveire per
cose che mi ha restituito doppiamente, e con tanto di interessi.
Finalmente,
mentre sono ancora incerta se scendere al piano inferiore oppure se iniziare ad
aprire camere a casaccio, lo vedo uscire da una stanza. Fingo il maggiore
disinteresse possibile, ostentando calma gelida mentre si accorge di me, ma non
riesco ad impedirmi che mi sfugga un respiro più forte del solito, a simulare
un sospiro d’ansia repressa.
“Weasley
anche come messaggero fa pena…” commenta tra sé e sé, guardandomi in tralice
“Sarà utile allo sviluppo umano in qualche modo ulteriore oltre a paravento per
le formiche?”. Lo guardo ad occhi socchiusi, incrociando le braccia impaziente
e facendogli intendere che non è che abbia tutta questa voglia masochista di
sentirlo parlare. Quindi ci può anche dare un taglio. Draco, a sua volta, mi
guarda con espressione tra il curioso e l’insofferente, quasi studiandomi.
Evidentemente è alla ricerca di qualcosa nel mio viso che gli suggerisca il
motivo del mio ritardo, oltre che della mia assoluta noncuranza ai suoi insulti
gratuiti. In realtà non rispondo, sia perché non ne ho voglia, sia perché non
me ne sento colpita. Vibra nelle sue parole una stanchezza apatica, una patina
di pessimismo e rassegnazione che può essere solo la consapevolezza della
condanna a morte che ci pende sulla testa da qualche ora. Il suo aspetto è
sempre impeccabile: capelli biondi in ordine, occhi grigi aperti e limpidi,
vestiti puliti e stirati. Ma lo conosco troppo bene per non distinguere bene
che cosa nasconde: il colletto della camicia lievemente stropicciato, perché si
è steso sul letto a pensare; le pupille vagamente dilatate, perché se n’è stato
al buio; l’indole arrendevole, quando vede che non gli rispondo; la voce
vistosamente impastata di finzione, perché al momento vorrebbe dire altro.
Come so che
anche io sembro vagamente più autoritaria ed irritata del solito, tutto per
nascondere la paura che ho al momento ed al contempo l’ansia di rimanere troppo
da sola con lui.
Quindi,
impaziente, biascico severa: “Si può sapere che diamine vuoi? Mi sembra che ci
siamo già detti abbastanza in due giorni da riempire cinque vite umane…”.
“E domani
dobbiamo dimostrare il nostro imperituro
amore ad un demone millenario…” commenta Draco assente con un sorriso malevolo,
appoggiandosi con una spalla al muro e guardandomi di sbieco “Devo proprio
aggiornare il mio testamento, mi sa, Granger? Dici che se lascio un bel po’ dei
miei indumenti a Weasley apprende un po’ di senso dell’eleganza nel vestire? Naaah, hai ragione… meglio lasciargli a Thomas… con lui non
è del tutto un’impresa disperata…”.
“Sei sempre
stato uno da one man show…” mormoro innervosita,
muovendomi per allontanarmi da lui “Comprenderai quindi se ti lascio al tuo
teatrino da quinta categoria…”.
Non sono
certamente dello spirito adatto per perdermi in una delle sue contorte
discussioni: se lui è ancora così bellamente di buon umore, lo invidio, mi
chiedo che cervello malsano abbia e sono anche contenta per lui. Ma che mi stia
qui, a sentirlo… non se ne parla proprio. Ovviamente il suo sadismo non mi
consente di andarmene tranquillamente, così da godermi le mie ultime ore di
vita in pace. Mi richiama indietro con un verso inarticolato di gola che,
nonostante tutto, sebbene neanche assomigli lontanamente al mio nome, mi fa
voltare su me stessa. È a testa bassa, ora, ben più preoccupato ed ansioso, più
vicino al suo reale stato d’animo piuttosto che al suo alter ego malvagio e
supponente che avrei già avadakedavrizzato all’istante, se non fosse il padre
di mio figlio e la sola occasione di salvezza per lui. Sospiro e rimango in
attesa, le braccia conserte, Draco sembra mangiarsi pensosamente le parole
prima di pronunciarle, ha il volto bianco e livido, gli occhi iniettati di
sangue. Poi le spalle si rilassano, sospira, appare stanchissimo. E mormora
fiocamente, facendomi drizzare i peli sulla schiena: “Ho bisogno che tu parli
con Serenity…”.
Sussulto, le
spalle si contraggono ed inevitabilmente mi metto in posizione di difesa, non
capendo l’assurdità della sua richiesta. Una parte di me ovviamente mi informa
in modo remoto, che non userebbe mai sua figlia per uno scopo meno che nobile e
necessario. E probabilmente, visti come sono i nostri rapporti attuali, non mi
metterebbe nemmeno nella stessa stanza con lei, se in un caso vistosamente
vitale. Eppure, ugualmente, il sospetto mi fa reagire in modo stizzito, mentre
biascico: “E per quale motivo, scusa? Di che diamine dovrei parlarle? Non le
hai già detto tutto di me?”, e, prima che me ne renda conto, sto già
borbottando acida: “Ah già, giusto, Serenity non sa nemmeno chi sono… Raissa
era molto esclusiva nella sua percezione di primadonna della tua vita. Bè,
comprenderai se la rievocazione storica di me stessa non mi interessa. Non ho
niente da dire a Serenity…”.
“Ed invece
sì…” mormora lui, in risposta, calmo, i pugni chiusi e il fuoco negli occhi
“C’è un argomento sul quale sei sufficientemente erudita e su cui io sono
spaventosamente ignorante, mio malgrado…”.
“Quale,
Malfoy? Per favore, falla breve…”.
“Nostro figlio…” sputa alla fine fuori,
facendomi rabbrividire “Serenity vuole che le parli di…”, la sua voce si
spezza, si curva, sguscia fuori quasi con timore delicato e raffermo, mentre
per la prima volta pronuncia il nome di nostro figlio: “Serenity vuole che le
parli di Alex…”.
Non so se è
l’ombra del sospetto malfidato che si è insinuato viscido tra me e lui, ma
sentirlo dire per la prima volta il nome di Alex suona terribilmente strano,
incomprensibilmente strano. Quel nome nella sua bocca non ha l’accenno tenero e
dolce che ha sempre avuto per me, accompagnandosi ad un odore soffuso e
rappreso che ricorda talco, margherita, arancia. Ha invece un sapore indiscutibilmente
amaro di bile, ira, come mosto selvatico, come fiele, come limone acerbo. Sento
tutta la difficoltà che ha provato a chiamarlo quel bambino, di cui rivendica
sangue e carne, con un nome che probabilmente sente che non gli appartenga,
sente che lo fa uscire dalla nebbia rassicurante di una cosa indistinta ed
indistinguibile, per dargli una tangenza tagliente che finisce solo per
tagliarlo ancora di più fuori.
Da Alex,
appunto, ma anche da me e da una vita che è scorsa senza di lui, srotolandosi
in modo asettico e sterile per quanto mi riguarda, ma in modo comunque presente
ed innegabile per lui.
Non so come
faccia a capire tutto questo dalla semplice inflessione sofferta che Draco ha
messo nel pronunciare il nome di nostro figlio, venandolo persino da un’onta di
disgusto che credo che sia quasi scontata, se penso che suo figlio, l’ultimo
dei Malfoy, ha anche un nome completamente babbano.
Non ci avevo
mai davvero pensato a questo, al fatto che potesse non accettare come avevo
chiamato Alex.
Quel nome,
in me, non nacque istintivo come può pensare lui, né tantomeno fu una specie di
vendetta e rivalsa: non ho desiderato macchiare un Malfoy con un nome che lo
designasse immediatamente come estraneo verso suo padre, altrimenti non avrei
fatto sì che portasse il suo cognome con manovre al limite dell’illegalità, per
fortuna accondiscese da Harry, e non avrei nemmeno insistito che avesse come
secondo nome Leo, come la stella dell’omonima costellazione, così da ricordare
che nostro figlio è anche l’ultimo dei Black, assieme a Teddy Lupin. Ho sempre
voluto che Alex si sentisse figlio del retaggio che porta diluito, e per
fortuna per lui innocuo, nel sangue. Ma mio figlio è cresciuto da babbano, ha
conosciuto solo la parte di famiglia che potevo dargli io, i miei genitori,
alcuni miei parenti italiani.
Ed avevo
sentito quasi subito la necessità di legarlo, a doppia mandata, anche a quella
parte del suo sangue: di legarlo a me, quando ancora avevo paura di non essere
pronta a fargli da mamma.
Il primo che
accettò Alex, forse prima ancora di me, fu mio padre. Si candidò nonno, dal
momento in cui spiegai che mio figlio non era frutto della violenza di Dimitri
Karkaroff, ma di una normalissima ed ugualmente straordinaria storia d’amore.
Andò persino contro mia madre per questo, lei era più riflessiva, più posata,
più preoccupata che la sua bambina potesse non essere ancora pronta per pensare
alla sopravvivenza e al futuro di una creatura che dipendesse in tutto da lei.
Mio padre
invece ha avuto fiducia in me, prima che ne avessi io. Mi portava al corso
preparto, mi accompagnava a comprare vestiti quando nemmeno mi importava che
mio figlio non fosse nudo, mi forzava a prendere decisioni. Lo odiavo. Fino a
quando non vidi Alex, e capii fino a che punto aveva avuto ragione.
Non sono mai
stata brava a ringraziare, a fare gesti affettuosi, a profondermi in pompose
attestazioni d’amore e riconoscenza.
Semplicemente,
dopo tre giorni in cui il mio bambino era un senza nome tra i più carini al
mondo, dissi chiaramente che il suo nome era Alexander.
Il nome di
mio papà.
Sarebbe
difficile spiegare questo a Draco, adesso: probabilmente non sarebbe nemmeno
tra le cose più urgenti a questo mondo, visto quanto poco ci rimane
probabilmente da vivere.
Quindi, dopo
aver accolto la sua stoccata con una fitta al cuore che dubito potrei negare a
me stessa, mi limito a chiedere spiegazioni sul perché debba parlare a Serenity
di Alex, ignorando tutto il resto. Sinteticamente, Draco mi spiega che ha
raccontato a Serenity del fatto che suo fratello sia in pericolo e che lui deve
andare a salvarlo, ma la bambina ovviamente più che preoccuparsi del destino
del suo padre putativo, la cui grave situazione naturalmente è stata taciuta da
Draco, si è notevolmente incuriosita per l’esistenza di questo nuovo fratello,
che non ha mai conosciuto e di cui non ha mai sentito parlare. Ha iniziato a
fare domande a Draco che non poteva granché rispondere, conoscendo in pratica
di Alex solo il suo nome ed il fatto che sia figlio mio e suo.
“Voglio che
lei sappia di lui… che lo conosca…” aggiunge infine con voce stanca,
massaggiandosi una tempia in modo distratto “Se… non dovessimo farcela… Alex
sarà tutto ciò che resta della sua famiglia. E viceversa. È giusto… che lei
sappia di lui, prima di vederselo piombare in casa e nella sua vita…”. Draco
solleva lo sguardo, spiando la mia reazione, prima di mormorare caustico: “Con
lui, non faccio in tempo a dirgli niente di lei… almeno con Serenity posso…”.
“Alex sa
tutto quello che poteva sapere di Serenity…” lo interrompo subito,
meccanicamente, guardandolo storto “Ha sempre saputo che era sua…”. Mi fermo,
rendendomi conto di quello che sto dicendo, di come lo sto dicendo e della
persona a cui lo sto dicendo. Draco infatti resta attonito, meravigliato, mi
guarda ad occhi sgranati e spalancati, autenticamente sorpreso. Sono così belli
i suoi occhi adesso, sanno di diamante e perla che per un attimo mi scordo di
dove sono, e di che cosa sto facendo e dicendo.
Lo vedo fare
un minuscolo passo nella mia direzione, insicuro, e spiare con lo mio sguardo
acceso la mia reazione, che resta quasi terrorizzata, incerta, spaventata. Si
ferma allora, lascia ricadere lungo il fianco la mano che aveva
inavvertitamente sollevato e sospira a lungo, prima di dire con voce piatta: “Che
cosa sa Alex di Serenity?”.
“Quello che
sapevo io… quello che potevo dirgli io…” mormoro, guardando altrove, prima di
sussurrare nervosamente: “… e quello che mi auguravo per loro…”.
“Cosa?”.
Torno a
guardarlo con decisione, sfidandolo persino, mentre dico: “Sa che è sua
sorella… l’ha sempre chiamata così… e la chiamerà ancora così…”.
Draco accusa
il colpo, tace, abbassa lo sguardo, evidentemente comparando le nostre due
situazioni. Serenity non ha mai saputo niente di me. Certo, di Alex non poteva
dirgli nulla, non sapendo della sua esistenza, ma non ho mai negato a mio
figlio la sua storia, inserendoci anche quella bambina, perché l’ho sempre
considerata parte della mia famiglia e perché ho sempre inconsciamente creduto
che Draco non l’avrebbe mai lasciata andare. Ma c’è dell’altro, e Draco se ne
rende conto subito, perché il suo sguardo torna d’improvviso nel mio, e brucia,
splende, arde come l’inferno. Mi fa sentire nuda, spoglia, indifesa, e mi
stringo nelle spalle quasi a tenermi unita ed incollata assieme.
Draco è il
padre biologico di Alex e quello adottivo di Serenity: era ovvio che li
definisse fratelli. Io, per Serenity, non sono mai stata nulla. Eppure, in
cinque anni, l’ho chiamata sorella di mio figlio ed involontariamente anche
figlia mia, e non perché rivendicassi qualcosa su quella bambina… no. Perché
ero certa che quando avrei trovato Draco, avrei trovato anche lei… e speravo di
poterla chiamare figlia, come Alex. Ne ero certa, altro che sperare… e si è
visto la mia bella certezza che fine ha fatto.
Fa male, fa
malissimo adesso ripensarci, e lasciare che quella meravigliosa illusione si
sciolga come zucchero nello sguardo di Draco che mi accarezza, spogliandomi,
baciandomi, incensandomi, e di nuovo odiandomi, disprezzandomi, maledicendomi,
mentre si ricorda di tutto il resto che c’è tra noi.
Lascio
cadere le braccia, mormorando: “Lasciamo perdere. Va bene. Parlerò con
Serenity… portami da lei…”. Draco apre la bocca come se stesse ancora per dire
qualcosa, poi si arrende e mi fa strada. Lo seguo in silenzio nel corridoio,
fino ad una porta bianca di legno come le altre, che però reca una vezzosa
targhetta che, in roselline fucsia, descrive le lettere del nome di Serenity.
Draco sospira, mi guarda come a chiedermi assenso definitivo e, al mio cenno
statico di resa, apre la porta con decisione.
La camera è
in penombra, le tende bianche sono tirate e la sola luce proviene da una
lampada sul comodino, che proietta cuori e stelle colorati sul soffitto. È la
tipica camera di una bambina: pareti rosa, disegni di principesse alle pareti,
una libreria ed una piccola scrivania sempre di colore rosa, peluche e bambole,
un letto la cui testiera assomiglia ad un castello. Tutto ha un odore
penetrante di ciliegia e lavanda, mi ricorda il profumo che Draco associava ad
Helena e mi chiedo se sia una cosa più o meno voluta, o casuale, che sua figlia
abbia lo stesso profumo di sua madre.
Serenity è
già a letto, seduta composta come una regina: ha i capelli biondi sciolti,
ricadono in onde leziose lungo la schiena. Porta un pigiama con i coniglietti
rosa anch’essi, ma ha il viso imperturbabile di una ventenne. Gli occhi sono
fissi, fuoco ceruleo, su me e su Draco, attendono risposte, si affollano di
domande. Sussurra un semplice saluto affrettato ed educato nella mia direzione,
prima di guardare Draco in attesa. Lui mi sorpassa e si siede accanto a lei,
sul letto. Hanno un modo di guardarsi particolare, muto, silenzioso, che va al
di là della comunicazione normale ed anche al di là di come normalmente ci si
guarda tra padre e figlia. Serenity lo guarda con un sottotesto di adorazione,
che Draco ricambia in eguale modo. Io ed Alex non ci siamo mai guardati così:
certo è la persona che amo di più al mondo, ma ho sempre mantenuto la distanza
ovvia che dovevo tenere per proteggerlo come madre e preservarlo da me stessa e
da ciò che poteva danneggiarlo. Lui comunque spesso capiva le cose da solo… ma
io non lo guardavo così, mai, da pari a pari. È un bambino, penso che fosse
giusto così. Serenity ha invece già le fattezze e lo sguardo di una donna, a
cui suo padre può persino appoggiarsi se crede. Sono un mondo a sé, una bolla
luminosa, dove dubito che qualcuno entrerà mai. Ciò quasi mi risarcisce del
posto che, quindi, doveva avere Raissa. Ma al contempo mi incute una strana
diffidenza, specie nell’ottica delle fantasie che avevo su una nostra famiglia
e dove avevo sempre considerato Serenity ed Alex come pari figli miei e di
Draco.
Serenity
sarà sempre diversa per Draco, sempre…. Anche quando e se conoscerà nostro
figlio.
Sarà per
sempre così, c’è troppo legame tra loro… in un modo morboso quasi, che finisce
persino per spaventarmi.
Mi stringo
nelle spalle, mentre Draco spiega a Serenity in modo laconico: “Lei… è la mamma
di tuo fratello, bimba… puoi fare a lei le domande che volevi farmi. Va bene?”.
Serenity mi
studia per un attimo, in attesa. I suoi occhi azzurri soppesano interamente la
mia figura, come a volersi imprimere ogni particolare nella testa alla ricerca
di qualcosa che la spinga a fidarsi di me o, viceversa, a cacciarmi fuori.
Trova evidentemente qualcosa che la convince positivamente, ed annuisce
all’indirizzo di suo padre. Draco sospira, accarezzando la testa della bambina,
e dopo fa cenno a me di sedermi sul letto accanto a lei. Imbarazzata, mi
accorgo che Draco non fa altro che alzarsi dal letto ed accomodarsi in una
poltrona poco distante. Non ha alcuna intenzione di lasciarmi da sola con la
bambina. Mi chiedo che cosa prevalga in lui, al momento: se la curiosità su ciò
che dirò su nostro figlio, o la preoccupazione per sua figlia.
In ogni
caso, non ho molta scelta. Esitante, mi siedo sul letto accanto a Serenity e,
cercando di essere quanto più allegra e rassicurante possibile, dico dolce:
“Ciao Serenity…”.
“Buonasera…”
mi risponde lei educatamente, guardandomi in tralice. Sono a disagio, mi sembra
di essere seduta su un letto di spine. Serenity ha ben poco della bambina di un
anno, che tenevo tra le braccia e a cui facevo il bagno, raccontandole i miei
pensieri. È impettita, seria, composta. Persino il suo saluto è formale. È un
curioso controsenso: ha l’aspetto di una bambina, ma non si comporta come tale.
Lo avevo già intuito, paragonandola a Charisma, da cui porta solo quattro anni
di differenza. Ma adesso è evidente come il sole. Ha occhi torbidi, foschi,
sporchi: nulla del candore infantile, tutto della consapevolezza adulta. È
cresciuta in modo strano… non assomiglia neanche ad Helena. Lei era il suo
opposto. Occhi da primavera, da bimba, in un corpo da donna. Serenity è il
contrario.
Cerco di non
farmi impensierire né da questo, né dalla presenza silente di Draco alle mie
spalle, e mormoro, decisa a darci un taglio prima possibile: “Chiedimi tutto
quello che vuoi…”.
Serenity
annuisce, mette su un’espressione imbronciata. Guarda la coperta rosa, su cui
poggia le mani contratte, poi chiede d’un fiato: “Lei… per caso… è Helena?”.
Sento Draco
muoversi sulla sedia, in modo fulmineo, facendo cenno di alzarsi e di venirci
incontro. Prima che però lo faccia, intenerita da quello che finalmente sembra
un accenno infantile in lei, recupero l’autocontrollo da mamma che per fortuna
ho ancora nel sangue. È normale che abbia pensato che sia anche la sua di
mamma. I fratelli, in fondo, sono tali per l’uguaglianza dei genitori. E
sebbene Draco le deve aver già detto che Helena è morta, la speranza in una
bambina è l’ultima a morire, sempre. Si colora di fiaba, illusione e magia,
diventando semplicemente una storia qualunque e fantastica a cui credere. La
morte non può essere per sempre: un bambino neanche ci arriva a pensare al “mai
più”.
Essere di
nuovo sul mio terreno, scoprire in quella piccola qualcosa che sembri
finalmente autentico, mi spinge persino a fare un cenno verso Draco,
imponendogli di stare dov’è. Lui mi guarda storto, ma non si muove. A quel
punto, mi sistemo meglio sul letto, sorrido ed accarezzo lievemente le dita di
Serenity. Lei mi guarda un po’ dubbiosa, ma non si ritrae.
“No, tesoro,
mi d-dispiace… non sono la tua mamma…” dico serenamente, guardandola in viso
“Era una bellissima donna. Sembrava una principessa… credimi, non somigliava
affatto a me…”. Faccio una buffa smorfia, arricciando il naso. Serenity,
finalmente, sorride calorosamente, divertita. Istintivamente chiude la manina
su quella che ho ancora sulla sua.
Solo adesso,
d’un tratto, mi ricorda la bimba che mi chiamava Mione.
Le sorrido
ancora, Draco alle mie spalle sembra più tranquillo e si siede daccapo.
“Io mi
chiamo Hermione Granger…” spiego con voce calma “Ci siamo viste parecchio in
questi giorni, ma non credo di essermi mai presentata. Mi dispiace… sono stata
davvero maleducata. Tu invece sei proprio una signorina…”, Serenity sorride
fiera di sé stessa, raddrizzando la schiena. Continuo quindi più tranquilla,
optando ovviamente per una versione neutra: “Sono una vecchia amica del tuo
papà, lavoravamo assieme in un bar a Londra…”.
“Il Petite
Peste? Assieme a zio Seth?” mi precede lei, le guance rosse.
“Sì, sì,
bravissima…” sorrido incoraggiante, mi sono accorta subito che adora essere
lodata. Dubbiosa ma incoraggiata dal fatto che Draco non stia intervenendo,
decido di rincarare la dose aggiungendo: “Ti ho conosciuta quando eri molto
piccola. Ricordo che ti piacevano molto i cavalli… una volta sei persino
scappata per andare a giocare con loro…”. Serenity per un attimo mi guarda ancora
incerta, poi qualcosa si illumina nella sua espressione. Evidentemente deve
conoscere questo episodio, quello della sua sparizione a Wonderland… io lotterei per diventare il motivo che
cerchi… scrollo il capo agli sgraditi e molesti ricordi, tornando a
Serenity che, entusiasta, mi risponde: “Papà me l’ha raccontato. Mi piacciono
molto anche adesso i cavalli… vado a scuola di equitazione. Ed il mio cavallo
si chiama Cannella. Ha il pelo lucido e marrone”.
“Deve essere
molto bello…”.
“Molto… ma
un po’ indisciplinato… non vuole correre quando glielo dico io, ma solo quando
va a lui…”.
“Scommetto
che imparerà…” commento sinceramente, ormai più vicina ad una conversazione
normale con una bambina. La sensazione di estraneità e disagio sembra quasi
passata del tutto. Mi metto persino più comoda, mentre aggiungo calorosa: “Sei
sempre stata molto brava con gli animali, sin da bambina. Me lo ricordo
ancora…”.
Serenity
quindi si sporge su di me, prende a sussurrare complice, guardandomi come se
stesse confidando un segreto: “Lei quindi era con papà, allora? Il giorno in
cui sono scappata?”.
“Sì, ero con
il tuo papà… eravamo…” mi interrompo alla ricerca di una verosimile definizione
di quello che eravamo. Il silenzio di Draco, alle mie spalle, e la sensazione
degli occhi che mi stanno perforando la schiena non è decisamente d’aiuto. Ma
alla fine sputo fuori con falsa tranquillità: “Eravamo amici, ecco…”.
Amici…
Non ricordo un maledetto momento in cui ho potuto
chiamare Draco Malfoy mio amico.
Nemmeno allora a Wonderland: era già un mistero nel
sangue, che scoppiava di febbre peggio di una malattia.
Mai mezze misure, mai grigio, mai quieto ricordo
acquattato nell’ombra. Sempre odio, morte, sangue, amore, passione,
sopravvivenza. Mai meno. Semmai sempre di più.
Torno a
Serenity, simulando ancora calma e serenità e dicendo gentile, certa ormai di
essermi guadagnata un po’ della sua fiducia apparentemente riottosa: “Quindi se
ti conosco non c’è bisogno che mi dai del lei, non credi?”.
“Credo di
sì…” dice alla fine lei con un profondo sorriso, e solo adesso, per un attimo,
vedo Helena nei suoi tratti, quella che ho imparato a conoscere dai ricordi di
Draco. Persino l’aura del profumo alla ciliegia si fa più forte. Sembra pensare
un po’, aggrottando le sopracciglia, prima di chiedere incerta: “Quindi lei,
anzi, tu… sei la mamma di mio fratello?”.
“Sì…”.
“Come si
chiama?”.
“Si chiama
Alex…” dico con voce sommessa, persino il suo nome mi fa contrarre lo stomaco,
poi aggiungo a voce più alta, quasi rivolgendomi alla silenziosa platea alle
mie spalle: “Alexander Leo Malfoy…”.
Onestamente,
non so perché ho bisogno di dirlo a voce alta, perché lui lo senta, lo ricordi.
Semplicemente, con una nettezza disarmante, so adesso che probabilmente questo
sarà l’unico momento in cui Draco saprà qualcosa di suo figlio. E voglio che
sappia quanto possibile… ha ragione, in fondo. Lui vuole che Serenity sappia di
Alex, io voglio che lui sappia di Alex.
È per mio
figlio.
Idealmente
oggi cucio la famiglia che non ha mai potuto avere.
Serenity
sgrana gli occhi, sorpresa, ed erompe con voce squillante: “Ha lo stesso
cognome di papà!”. Draco, alle mie spalle, si schiarisce la voce, non mi
azzardo a voltarmi nella sua direzione, annuendo piuttosto alla bambina che
continua, ispirata: “Io invece no… mi chiamo Diggory. Sono nata da un altro
papà, quindi mi chiamo così…”. La dolcezza quieta e pacata che Serenity mette
in queste parole, facendomi ricordare automaticamente il volto sereno di Amos
Diggory mentre affrontava la sua fine, mi spinge a chiudere gli occhi
velocemente per nascondere un pizzicore diffuso che potrebbe diventare lacrime
assolutamente inopportune. Ancora, dietro di me, Draco si schiarisce la voce.
“E perché
mio fratello si chiama proprio Alex? È un nome babbano… non è un mago come me?”
chiede ancora curiosa Serenity, il volto rosso. Non sapeva del mondo della
Magia fino a quando l’ho interrogata con la pozione della Verità.
Evidentemente, poco fa, Draco deve averle spiegato anche questo. Continuo, dopo
qualche secondo: “Sì, sì, anche lui è un mago… ma si chiama così perché il mio
papà si chiama Alexander… volevo chiamarlo come lui…”.
Ecco,
adesso, sa anche questo. In silenzio, lo sfido quasi ad obiettare, a dire
qualsiasi cosa. Ma Draco continua a tacere come dall’inizio di questa
conversazione. Vorrei tanto girarmi per vedere qualcosa della sua espressione,
capire che cosa sta pensando, ma Serenity riprende a parlare vivace, prevenendo
qualsiasi mia intenzione: “Quindi anche Alex fa delle magie? Io una volta ho
sollevato il tavolo e rovesciato le sedie… ma Raissa si è arrabbiata… ”.
Le spalle mi
si contraggono a quel nome, mentre un enorme pezzo di ghiaccio mi cade enorme e
gelido nello stomaco, dandomi la nausea. Stringo forte il lenzuolo tra le dita,
trattenendomi dall’impulso di prendere di andarmene da qui per correre altrove,
così da trovare quella maledetta donna che mi ha distrutto la vita. Poi ricordo
che, purtroppo, nella matematica della vita e nella somiglianza delle cose
impossibili, Ron sta ad Alex come Raissa sta a Serenity. Lui è stato una
copertura per me, e una specie di padre per Alex. Raissa, a suo modo, è stata
anche una specie di madre per Serenity. Non posso accettare quella specie di
surrogato sporco di compagna che è stata per Draco, ma perlomeno il ruolo che
ha avuto nella vita di Serenity devo accettarlo. Per il bene di questa bambina.
Quindi, dopo
qualche secondo di esitazione, ingoio il veleno, faccio il migliore dei miei
sorrisi e riprendo gioviale: “Sì, anche Alex fa delle magie ma molto piccole…
spesso quando fa i capricci e non vuole mangiare la verdura. La fa sparire. E
poi ricompare in giro per casa…”.
“Neanche a
papà piace la verdura, specie le carote…”.
Questo è
persino peggio. Questa cosa stupida fa persino più male di tutto il resto del
discorso… Alex che odia le carote. Draco che odia le carote.
Mi mordo
l’unghia del pollice con ansia, borbottando: “Specie le carote, già…”.
Sento alle
mie spalle un movimento involontario di Draco, come se si fosse nuovamente
poggiato sulla poltrona, dopo essersi inarcato con ansia in avanti.
L’altra
sera, quando mi hai visto… ti ho ricordato lui, non è così? Mi somiglia pure,
non è così?
E’ tuo figlio… è ovvio che ti somigli…
Quante
somiglianze hanno, ancora, che io ho già non ho visto? In quanto è ancora suo figlio,
oltre che mio?
Il palmo
delle mani prende a sudarmi in preda all’ansia, lo asciugo freneticamente sulla
stoffa del piumone, la voce di Serenity continua ad interrogarmi e la sento con
una parte remota della mia mente, presa in tutti altri pensieri. Sembra la
vendetta al contrario del Veritaserum che le ho propinato io. Il karma è
davvero una brutta bestia.
Ogni sua
domanda è porta di ingressi privilegiati in ricordi, uno più letale dell’altro,
e in immaginazioni di giorni che non verranno mai.
“Quanti anni
ha? Va già a scuola?”.
“Ha cinque
anni. In Italia andava all’asilo… inizierà la scuola elementare a settembre…”.
“Gli piace
il calcio? Io lo detesto!”.
“Purtroppo
sì, gli piace… ma anche io lo detesto, tranquilla!”.
“E gioca
spesso a calcio?”.
“Non tanto…
è ancora piccolo. Ma sta imparando a nuotare… Charisma, l’hai conosciuta? Vuole
che impari a nuotare… così possono andare in spiaggia con Biscotto”.
“Papà non
vuole che io abbia un cane… perché lui ce l’ha, invece?”.
“Perché… era
un cagnolino abbandonato… e papà ha fatto un’eccezione…”.
“Quindi
anche un po’ mio Biscotto?”.
“Certo
piccola…”.
Gli occhi
della bambina iniziano lentamente a socchiudersi progressivamente, vinti dal
sonno. Respiro di sollievo al pensiero che si addormenti, e mi liberi da questo
interrogatorio. Ma, infida come la lama di un coltello, mentre Serenity reclina
lievemente il collo di lato, quasi vinta dalla stanchezza, mi giunge in un
sussurro la domanda che temevo: “Papà dice sempre che io sono uguale a mia
mamma, ad Helena… anche Alex è uguale a te?”.
No. Eccola la risposta.
No.
Due
maledette lettere incastonate nel cervello. E io andrò in pezzi, se lo dico. E
se non lo dico, sarò bugiarda e spergiura, rinnegando mio figlio. E se lo dico,
come mi trattengo tutta assieme dentro questo corpo, senza esplodere lontana? E
se non lo dico, come sopporterò il suo silenzio alle mie spalle, sapendo che
gli sto mentendo?
Perché la
verità è che è uguale a lui… ma se lo dico, io ricordo Alex con la chiarezza
che non mi farebbe più ragionare… mi unisco di nuovo a Draco, nel sangue che è
fluito in me e ha generato Alex. Se lo dico, ricordo che ce l’ho avuto dentro,
sopra di me, ad accarezzarmi i capelli, spostando petali di rosa, a dirmi che
mi amava, a respirarmi di fuoco sulla spalla, a ridermi nelle orecchie, a
piantarmi il cuore e il corpo di questo bambino che non sarà più solo un
bambino qualunque.
Sarà suo
figlio.
Sarà mio
figlio.
Sarà carne e
sangue, respiro ed anima. Sarà me e lui, uniti, in una forma che non avremo mai
più. E che non posso sopportare che non avremo mai più.
Non lo posso
sopportare. E lo odio, per questo. Mi odio per questo. Perché lo voglio ancora,
lo vorrò sempre. Lo amo ancora, lo amerò sempre.
Non nella
maniera perfetta e nobile che vuole Adamar per salvarci… ma in un modo lercio e
voluttuoso, che è solo una vendetta mai libera.
Si nutre di
rammarico e rimpianto, mangia pezzi di mio figlio, gode di simmetrie e
somiglianze, si strappa di dosso differenze e si scava di distanze.
Questo sono
diventata: amando lui, odio me stessa. Come mai era successo, nonostante tutto,
nonostante lo Zahir.
Allora io mi
odiavo perché non ero abbastanza per lui. Adesso… non è così.
Come faccio
a rispondere, adesso? Come faccio a dire la verità, adesso? Come faccio a sentirlo
dentro di nuovo, sapendo che non lo avrò mai più?
Respiro a
fondo, scelgo le parole, sono sincera ma non completamente. Fingo che non ci
sia, mi iberno e mi chiudo a chiave, sperando che basti.
“Alex ha
qualcosa di me… ma non è uguale a me. Mi fa arrabbiare tante volte proprio
perché è diverso da me…”.
“E’
cattivo?”.
Serenity è
una bambina, è innocente, non è la maliarda ingorda che vedo io. Non fa le
domande per scavarmi il cuore con un cucchiaino. Dice quello che sente, quello
che crede. È innocente.
Sono io che
esplodo, in mille pezzi diversi. E non
so nemmeno con chi maledizione sto parlando. E di chi sto parlando.
Di mio
figlio. Di quanto amo lui. O di Draco. E di quanto potrei ancora amare lui.
Non lo so
più.
Ho gli occhi
congelati su un quadrato di stoffa del piumone. Vedo fucsia e rosa, oro e
cremisi. Ma in realtà è tutto grigio perla, diamante, latte e ghiaccio.
Il mio
colore preferito: il rosso non ha mai retto il confronto. Non è mai stato il
colore del cuore, per me. Mai.
Il cuore, il
sangue, le viscere: tutto grigio. Tempesta, lampo, mare di dicembre, nube
acquosa, strada maestra, spuma di onda, carta e libro, pietra carsica, caverna
di roccia, capelli di vecchio, argento vivo, luna e stella, pioggia dalla
finestra, cenere e fondo di fiume, lacrima sporca: gli occhi di Alex. Gli occhi
di Draco.
“No, tesoro.
È un bravissimo bambino. Ma è sempre convinto di avere ragione… ed è furbo,
testardo, fa di me quello che vuole, cerca sempre di trovare il pelo nell’uovo
per dimostrarmi che ho torto. Ed è terribilmente orgoglioso, permaloso. Ha
bisogno sempre delle prove per tutto ciò che fa. È allergico alle fragole, per
esempio? Non ci crede, fino a quando non sta male dopo averle mangiate. Mi
contesta spesso, mi sfida in continuazione… ma mai con arroganza,
maleducazione, spavalderia. È semplicemente fatto così. Però… capisce le
persone. Capisce chi sta male, prima ancora di averne conferma. Ed è delicato,
sta attento a quello che dice, cerca di non fare soffrire nessuno. Spesso penso
che si senta solo. Ma non me lo fa capire mai. Se ne sta zitto, in silenzio,
finché non passa. È gentile, specie con i più piccoli, con gli anziani e con
gli animali. Mi fa dei regali, ma me li nasconde in posti segreti e, quando li
trovo, si vergogna nell’essere ringraziato. Gli piacciono i brownies,
mangerebbe solo quelli. Ed ha un’intera collezione di magliette azzurre, perché
dice che il rosso è da femmina. Ha paura del mare, perché ne ho paura io. La
sua fiaba preferita è “Il piccolo principe”, ma non gli piacciono le fiabe,
preferisce i fumetti dei supereroi e le storie di guerra. Ha letto una versione
dell’Iliade in prosa di nascosto, temevo che fosse troppo violenta. E da allora
adora Patroclo, perché dice che è morto per un amico. Quando piove, deve sempre
camminare nelle pozzanghere. E mi fa arrabbiare come non mai. Poi sorride, mi
chiede scusa, e so che non lo pensa, so che mi sta prendendo in giro, ed allora
mi arrabbio di più. E lui allora mi abbraccia le ginocchia, nasconde la faccia
e mi dice che mi vuole bene. E solo allora ci credo davvero…”.
Tiro su con
il naso, prevenendo le lacrime, e mi chiudo nelle spalle. Mi trema il labbro, per favore sfiorami… anche solo per sbaglio,
anche solo per pietà. Soffri con me, piangi con me, straziati il cuore con me. Non
posso perdere lui. Non lo posso perdere, Draco. Ho già perso te. Non posso
perdere anche lui.
Ho già perso te.
Sollevo lo
sguardo, cercando di simulare un’espressione normale e serena per
tranquillizzare Serenity. Il letto va giù, e poi su di nuovo.
E Draco si è
seduto alle mie spalle, in silenzio, vedo con la coda dell’occhio le sue gambe
piegate, poco distanti dalle mie. Non fa nulla, non dice nulla. Ha un odore
buono, di casa. Non riesco a guardarlo in viso, ho gli occhi fissi su Serenity.
La mia schiena trema, pelle d’oca e brividi.
“E’ in
pericolo, adesso? Tornerà a casa?” la voce di Serenity suona fioca, spaventata.
Draco si fa
più vicino, non so come si muova così in silenzio. Il cuore scoppia, ovunque.
“Puoi starne
certa, tesoro… lo vedrai presto… e se vorrai, gli insegnerai ad andare a
cavallo…”. La mia voce è quasi un singulto, un gemito.
La sua mano
si poggia sul mio ginocchio. Sussulto, sono giunco e lui tempesta, sono ramo
secco e lui fuoco. Mi sfugge un respiro più forte dei precedenti, la mia pelle
riconosce le sue dita sopra la stoffa dei pantaloni leggeri che porto. La mia
mano scivola dallo spazio che aveva guadagnato nell’intermezzo tra le nostre
due gambe, smette di stringere il piumone con l’ansia di lacerarlo. Sale sulla
mia gamba. Si accuccia vicino alla sua mano.
“E lui può
insegnare a me il calcio…”.
“Non ne
vedrà l’ora…”.
Si trovano
le nostre mani a metà strada. Si sfiorano lievi prima, e quasi si spaventano,
si ritraggono. Poi si riconoscono di nuovo. Lui scivola sulla mia mano, la
copre con la propria. Io blocco le sue dita nell’incavo tra le mie. Lascio che
stringa forte, stringo forte. Chiudo gli occhi, mi manca il fiato, l’aria. E
non so che altro.
Lo sputo
fuori e basta. Serenity si sta addormentando e io lo dico e basta, a bassa
voce. A lui. Non alla bambina.
“Vuoi vedere
una sua fotografia?”.
Serenity
mugugna qualcosa, la testa piegata sulla testiera del letto. Draco accarezza
con il pollice il palmo della mia mano, rabbrividisco. Sembra che persino le
vene, sotto la pelle, vadano a fuoco. Tutto il corpo formicola di un contatto
lieve e leggero. Stupido, da bambini… ed impersonale, da genitori. Tenersi la
mano come due adolescenti. Ed invece… è peggio che fare davvero l’amore.
Possibile
che mi faccia ancora quest’effetto? Possibile che non smetta mai di farmi
effetto? Possibile che tutto diventi ghiaccio sciolto, carta straccia, cenere
di legno, se solo mi tocca? È davvero possibile, ancora? È solo una mano nella
mia, la premura asfittica del genitore e il rimpianto acre dell’amante. Ed
ancora, impossibile da dirsi, mi fa effetto.
Un effetto
lercio, sfilacciato, monco: un retaggio di abitudine, un avamposto di ricordo,
un grimaldello di rimpianto, un singhiozzo di desiderio. Ma non smette di fare
effetto.
Contro orgoglio.
Contro logica. Contro amor proprio.
Amando lui, odio me stessa.
Con la scusa
di afferrare la bacchetta dalla mia tasca, stacco velocemente la mia mano dalla
sua, con la sensazione benefica di tornare a respirare. Sento l’esitazione nel
suo sguardo e nella mano che resta ancora, per un po’, poggiata sulla mia
gamba. Poi sfugge via, rabbiosa, lesta, veloce, mentre io con voce rotta dico:
“Accio album”. Dopo qualche secondo, l’album di pelle azzurra che tenevo
nascosto nella mia valigia, compare fluttuando nella stanza, cascando
dolcemente sulle mie gambe. Mi volto verso Serenity, la bambina ormai è cascata
addormentata, sarebbe inutile svegliarla come alibi di una conversazione civile
tra me e Draco. Seguendo la direzione del mio sguardo, Draco alla fine si alza
in piedi, sospirando, e sistema meglio sotto le coperte sua figlia, che non fa
cenno di svegliarsi. Le bacia la fronte e le accarezza i capelli per qualche
secondo, forse chiedendosi intimamente se la rivedrà ancora. Resto seduta lì,
le unghie artigliate sulla superficie dell’album di fotografie, sentendomi di
troppo e chiedendomi se non sia il caso di uscire, per lasciarlo da solo. Ma
dopo pochi secondi, Draco si avvicina alla poltrona su cui era seduto prima, la
prende per i braccioli e si sistema di fronte a me, non accennando più a
volersi sedere accanto a me per toccarmi ancora. La sua manovra mi fa trasudare
di tenace sollievo.
Apro
l’album, ma decido con ostinazione di arrivare velocemente alle ultime pagine:
non ho granché intenzione di commentare con lui le prime fotografie, risalenti
nel tempo al periodo della gravidanza e alla nascita di Alex, sperando che non
si accorga o concentri sulla mia manovra diversiva. Trovo immediatamente la
foto che stavo cercando, l’abbiamo scattata appena arrivati a Londra, dopo il
nostro viaggio dall’Italia, ed è l’ultima che ho di Alex, la più recente. È
quella che meglio lo rappresenta: glielo ho scattata nel giardino di Pansy, in
una pausa del gioco con Charisma, ha la faccia imbronciata e sporca di terreno,
l’espressione dispettosa di chi è stato distolto da una faccenda molto
importante. I capelli biondo scuro sono tutti spettinati, ma sembra più lui di
tutte le foto impostate che gli ho fatto in duemila occasioni diverse.
Accarezzo la superficie liscia della fotografia, trattenendo un singhiozzo, per
poi passare l’album a Draco che lo prende quasi con la punta delle dita,
poggiandolo poi in grembo e lisciando la pagina con la mano aperta.
Soppesa la
pagina per lunghissimi attimi, minuti che si srotolano senza soluzione di
continuità. Di primo acchito, la sua espressione sembra quasi clinica, fredda.
Esamina la fotografia con attenzione maniacale, vedo gli occhi saettare da una
parte all’altra senza pace, saziandosi di particolari. Le nocche delle sue mani
sono bianche, fredde, artigliate attorno alla copertina dell’album come se ne
morisse lasciandolo andare. Sembra… lontanissimo. Il cuore mi batte
furiosamente in petto, cerco assenso nei suoi tratti, cerco l’amore istantaneo
che nasce per un figlio, cerco la consapevolezza che io l’abbia cresciuto nella
migliore delle maniere possibili. Ma è impossibile leggergli dentro, adesso, è
impossibile. È solo immoto, fermo, ad occhi sgranati.
Mi manca il
respiro, davvero. Mi sembra di stare sott’acqua. E ho già chiarito quanto
detesti adesso l’acqua, grazie ad Astoria.
Solo dopo
quello che io considero un’eternità, Draco finalmente si muove. Semplicemente,
respira forte, un greve sospiro trattenuto. E si massaggia lentamente con due
dita, lo spazio tra gli occhi chiusi.
Come se stesse facendo di tutto… per non…
Un luccichio
balugina nel suo sguardo, quando torna a guardare me, arreso, vinto, sconfitto,
distrutto.
… per non piangere.
È un momento
intimo, segreto, nascosto. Non dovrei essere qui a vederlo. Faccio quindi la
sola cosa che mi viene in mente di fare, conoscendo Draco e sapendo quanto sia
parco con le sue emozioni, specie con le lacrime. Mi ha concesso pochissime
volte di vederle. E mi ha sempre detto che, dalla morte di Helena, piangere per
lui è la cosa peggiore che gli possa succedere, ci arriva solo quando non è in
grado di fermarsi, quando semplicemente… è troppo. Ecco: e so anche che, quando
è troppo, se ne vergogna. Vuole stare da solo, non vuole che nessuno lo veda,
non vuole che nessuno pianga con lui. E io, a piangere, ci sono davvero molto
vicina, adesso.
Quindi,
semplicemente, prendo tempo, fingendo occupazioni diverse. Mi alzo in piedi e
mi fermo in piedi davanti alla finestra, prima di socchiuderla appena, come se
io avessi bisogno d’aria. Soffia salsedine e pino nella stanza, spero che gli
porti sollievo. Poi, ancora, fingo di voler controllare che Serenity stia
dormendo serenamente, che il suo cuscino sia ben sprimacciato, che non abbia
freddo o caldo: occupazioni da mamma che non mi distraggono affatto, visto che
sono giorni che non posso compierle con Alex, ma almeno gli do il tempo di
provare a ricacciare indietro… il troppo.
Un figlio che non conosce e forse non conoscerà mai.
Un figlio che… è identico a lui.
Io sarei già esplosa in mille pezzi.
Tento con
tutte le forze di concentrarmi su altro, ciondolando per la stanza e guardando
libri, fotografie, giochi. Se piango anche io, adesso, è la fine.
Per fortuna,
quando ormai sono certa che, a breve, scoppierò in lacrime, vanificando tutti i
miei sforzi, sento un colpo di tosse nervosa. Mi volto verso di lui, ha gli
occhi arrossati ma sembra non aver pianto. È riuscito a trattenersi. Sembra
solo… stanco, sfatto. Con quell’album ancora sulle gambe. Sussurra solo, la
voce bassa come quella di un morente: “E’ alto… sembra molto… alto…”.
Si riferisce
ad Alex, ovviamente. Sorrido con il maggiore calore che mi riesce, e mi siedo
daccapo sul letto di fronte a lui. Segue le mie manovre in silenzio, gli sfugge
qualcosa sul viso che assomiglia ad uno sbuffo di rassegnazione, come se si
fosse accorto di tutta la mia manovra diversiva. Non commenta però, resta in
attesa della mia risposta.
“1 metro e
20 centimetri…” dico con una punta d’orgoglio, sorridendo ancora “È il più alto
della sua classe...”.
“Nella tua
famiglia non sono molto alti che io ricordi…” replica a voce più accorata,
qualcosa che gli fiammeggia nello sguardo. Orgoglio.
Immediato, istantaneo.
Così brucia l’amore del genitore. Un moccioso urlante
tra le braccia, ancora sporco di placenta e sangue. Una fotografia stupida tra
le dita, saporosa di passato e rimpianto.
E non sei più uguale a prima: tessi tele e ricami che
siano i vessilli del sangue che vi lega. Se ci somiglia, è la migliore versione
di noi stessi. Se non ci somiglia, è il migliore rimpiazzo a noi stessi.
Sorrido
ancora, immaginando tutto quello che ora, nonostante tutto, sta accadendo nella
mente di Draco.
E quindi gli
concedo di dire lieve: “No. Nella mia famiglia non siamo molto alti. Non ha
preso da me…”.
“Non ero
così alto da bambino…” obietta giustamente, guardando ancora la fotografia
attentamente.
Sono
incerta, a quel punto, nel continuare. So perfettamente da chi ha preso Alex la
sua altezza. Me ne sono accorta subito, scorrendo mentalmente i nostri alberi genealogici.
Ripenso alle
foto in camera di Draco, ripenso a come in alcune di esse semplicemente c’era
una figura che comprimeva tutte le altre.
Lucius Malfoy.
Esitante,
preoccupata di risvegliare chissà che fantasmi, sussurro: “Ma lo era… tuo padre…”.
Draco inarca
un sopracciglio, continuando a guardare la fotografia, senza apparire sconvolto
o irritato. Continua ad essere semplicemente curioso. Ti sei davvero riconciliato con il loro ricordo, allora.
Quella mia
impressione viene confermata dalle sue parole successive, pronunciate con voce
chiara e tersa, senza che nulla le spezzi o pieghi: “Hai ragione. Ha qualcosa
di lui… di… Lucius…e persino… di mia madre…”.
“Lo so…”.
“Il mento.
La forma dei capelli…”.
“E il colore
degli occhi…”.
La prima cosa che vidi di lui: quella per cui pensai
che era davvero tuo figlio. Non vedi che ha i tuoi occhi?
Sono innamorata follemente di quegli occhi.
Draco
soppesa ancora la foto, ha uno sguardo più luminoso, mentre asserisce in un
sussurro spezzato: “E’ un Malfoy. L’avrei riconosciuto anche se non avessi
saputo che era mio…”. Mi stringo nelle spalle, annuendo, l’ho sempre saputo, ha
preso tantissimo dalla sua stirpe. Tranne
il male. Quello è rimasto nel mio sangue. L’ha iniettato lui, Draco, e l’ha
lasciato lì, pronto a farmi marcire dall’interno.
Draco,
improvvisamente, alza lo sguardo, mi studia come se stesse cercando qualcosa
nel mio viso, sgrana gli occhi, torna a guardare la fotografia.
“Ma… ha
anche qualcosa di tuo…” dice d’improvviso serio, pensoso, mordicchiandosi il
labbro inferiore con un sorriso storto, prima di sputare fuori con aria
sofferta: “Dio… ti somiglia così tanto…”.
Il mio cuore
ha un battito più forte, bloccato, smorzato e soffocato dalle costole. Mi
stringo sotto il seno, cercando di fermarlo, ed obietto acida: “In cosa, scusa?
A parte che gli piace leggere e qualcosa del carattere… esteticamente è la tua
fotocopia…”.
Draco non si
scompone di un millimetro, mi guarda ancora, ha uno sguardo penetrante di
madreperla che mi sembra mi screzi dentro. Piano, replica: “Granger, lo conosco
bene il tuo dannato viso. Ha le tue labbra, il tuo taglio degli occhi... e quel
broncio non è mio. È tuo. L’espressione da pesce palla…”, sorride teneramente e
qualcosa di caldo e denso si scioglie dentro il mio petto, rischiando di
soffocarmi. Mi schiarisco la voce, distogliendo lo sguardo, mentre lui sussurra
sarcastico: “Quella avrei evitato volentieri che la ereditasse…”.
Sorrido
ancora, sbuffando con finta irritazione: “Ereditata e migliorata con una
notevole dose di impertinenza che non è mia … appena lo vedrai, te ne renderai
conto…”.
Qualche
secondo di silenzio, un muscolo del viso che si contrae in modo involontario,
una smorfia fastidiosa, come uno spasmo al ventre che lascia senza fiato.
Poi lo
sguardo su di me, occhi tempesta e ghiaccio, labbra contratte. E la voce
accorata, sofferta, che si aggrappa senza speranze. A me. E dice: “Perché io lo
vedrò, Hermione? Credi che lo vedrò? Conoscerò mio figlio?”.
Boccheggio
senza fiato, non ce l’ho ovviamente la risposta. O intimamente, credo anche di
averla, ma non palesarla a me stessa la rende meno reale. Se odio il pensiero
di non rivedere più Alex, semplicemente non sopporto che lui neanche lo possa
conoscere. Quindi, per mitigare quell’atrocità, sussurro la prima cosa che mi
viene in mente, cercando di cambiare discorso: “Vuoi vedere il resto delle
foto?”. Draco fa un sorriso piccolo ed obliquo, che non gli arriva agli occhi,
probabilmente intuendo la mia elusione, ma annuisce e mi ringrazia. Non avevo
la benché minima intenzione che vedesse altro di quell’album, specie perché è
pieno di foto dell’Italia che mi ricordano un periodo di cui vorrei sapesse il
meno possibile. Ma, ancora, devo tutto questo ad Alex. Se suo padre molto
probabilmente non lo conoscerà mai, si merita perlomeno di averne il quadro più
esauriente possibile, sebbene in sua assenza. E quelle foto sono il mezzo
migliore, mio malgrado.
Draco le
scorre avido, girando le pagine con attenzione, come se tenesse una reliquia. È
prodigo di domande, cerca spiegazioni, mi inonda di richieste di chiarimenti e
di particolari a cui neanche io, con tutto che ho vissuto cinque anni con mio
figlio, ho mai prestato attenzione. Nota cose che il sangue richiama
immediatamente, quel sangue che ovviamente io non ho e che invece Draco
riconosce subito. Spesso assume un’espressione triste, sofferta, ed è in quel
momento che interrompo le sue riflessioni staticamente dolorose con un aneddoto
divertente, che ha perlomeno il pregio di distrarlo. Esibisce di frequente un sorriso
nuovo, appena scoperto, dal carattere luminoso e dall’impronta malinconica: è
un sorriso di orgoglio, di presunzione persino, a vedere quel figlio che gli
somiglia così tanto, che detesta le stesse cose che detesta lui, che ama quello
che ama lui, sebbene neanche lo conosca. Sfodera quel sorriso quando gli ripeto
che Alex fa sparire la verdura per casa, quando gli sussurro che la sua frase
preferita è “i Malfoy questo non lo fanno!”, quando asserisco che vorrebbe
diventare Cercatore. Non mi limito a questo, però, collego anche l’anima e il
respiro che io invece gli ho dato. Dico anche questo, perché ha diritto di
sapere anche questo, quanto di me c’è in nostro figlio. A quello, Draco
talvolta risponde con una smorfia, ma si mescola al suo sorriso, con il
risultato di indurmi ad una risatina tra il nervoso, il rassegnato e il sereno.
Gli dico quindi che adora leggere e che divora libri alla velocità della luce.
Gli ingiungo che, per il momento, non ci pensa proprio a finire a Serpeverde,
ma che non gli fa impazzire neanche Grifondoro. Sorrido mesta, rimarcando che è
terribilmente testardo, permaloso ed ostinato. Ma questo, mi accorgo dopo, non
so davvero da chi l’abbia preso di noi due.
Io e Draco
siamo testardi, permalosi ed ostinati in uguale misura rispetto a nostro
figlio.
Le foto
scorrono indietro, riavvolgendo il nastro della vita di Alex, fino a che è di
nuovo una minuscola nocciolina dentro la mia pancia. Sono quelle le foto che
non avrei voluto che vedesse e, per un attimo, sono quasi tentata di
strappargli l’album di mano. Ma Draco ha le dita così ancorate alla superficie
di cuoio, che dubito che ci riuscirei senza fare la parte di una pazza
isterica.
Draco ha ben
tollerato la sequenza di foto, dove Alex appariva sulle spalle di Ron, o
intento a giocare con lui, o a tentare di nuotare. Ha solo fatto un respiro più
forte, prima di chiedere veloce: “E’ stato bravo come padre surrogato?”. Non ho
esitato nel rispondergli sicura che è stato il migliore padre che Alex potesse
avere date le circostanze. Ovviamente mi ha irritato l’aggiunta della dicitura
“surrogato”, ma glielo ho concessa, glissando sul commento. Però, naturalmente,
la cosa cambia quando, arrivando alle prime foto dell’album, Draco trova quelle
più vicine temporalmente al periodo che ricordava lui.
In realtà,
non sono molte: figuriamoci se avevo la voglia e la volontà di farmi
fotografare in quel periodo. Ma fu mio padre ad insistere, e quindi sono
esattamente due.
Una è in
clinica, sono seduta a letto, e porto ancora i segni del terribile scontro con
Dimitri. Ho la flebo attaccata al braccio, bende sparse, ecchimosi sul volto. E
l’aria di una che, se potesse, si sarebbe suicidata. Sono terribilmente
denutrita, magra. La pelle è trasparente e scarnita, le occhiaie viola si
mangiano la salute del viso. La curva della pancia spunta dal mio corpo
scheletrico come una specie di escrescenza sbagliata: ero a sette mesi, ero
ancora convinta che dovevo trovare Draco e basta, di lì a dieci giorni avrei
provato a fuggire per poi essere fermata da Ginny. Naturalmente, odio quella
foto. Ma l’avevo comunque aggiunta all’album, essendo una delle poche che
preservavo della gravidanza ed avendomi Alex dato il tormento per un intero
pomeriggio, per avere qualcosa di simile. Quindi l’avevo attaccata e basta,
senza darci peso. Tale peso ed importanza, però, adesso la sta dando Draco. E
colgo il lampo fulmineo che gli passa negli occhi, quando, a fronte delle
parole scarne e rapide che gli ho rovesciato addosso descrivendo che cosa mi
fosse successo, adesso ne ha invece una rappresentazione grafica fedele. Erano
passati solo sette mesi da quando mi aveva vista, ed ero già un’altra persona.
Accarezza piano la superficie della foto in uno slancio di affetto e pena
sinceri che per un attimo mi tramortiscono, come se si fosse scordato che io
sia presente qui, di fronte a lui. Non solleva lo sguardo, ostinatamente
rivolto in basso, coperto dai capelli biondi, mentre sussurra: “Mi dispiace…
dovevo… esserci io con te…”.
“Lo so…”
soggiungo a voce bassa, spostando il peso del corpo da una gamba all’altra.
“… ma c’era
lui, almeno…” commenta ancora Draco piatto, con voce al limite tra il veleno e
la rassegnazione. E ciò lo dice, perché è passato all’altra fotografia. Quella
del mio matrimonio con Ron.
Quando mi
ero finalmente rassegnata al fatto di restare in Italia e alla copertura della
falsa identità di Hermione Weasley, Harry mi convinse che la cosa migliore
sarebbe stata celebrare un vero matrimonio con Ron, per poi eventualmente
invalidarlo in seguito. Era più sicuro a livello legale, non essendo le
convivenze quasi per nulla tutelate in Italia. Sarebbe stato più facile
annullarlo successivamente. Ero oramai prossima al parto, stanca, demotivata:
accettai senza tante storie. In realtà, come poi avrebbe ammesso un paio di
anni dopo, Harry premeva in quella direzione perché era convinto che, una volta
sposata, avrei recuperato le cose con Ron e non sarebbe stato più mio interesse
sciogliere effettivamente il matrimonio. Naturalmente, perlomeno allora, a Ron
la cosa era andata bene. Quindi il loro interesse non era celebrare un
matrimonio legale in modo da aumentare la sicurezza mia e di Alex: una vera
cerimonia non immetteva alcun valore aggiunto alla nostra serenità.
Semplicemente
era un trucco da propinarmi nella speranza che abbandonassi questo amore idiota
per Draco Malfoy, per uno decisamente più sensato per Ron Weasley.
Ovviamente,
quando lo seppi, due anni dopo il nostro matrimonio, andai su tutte le furie e
pretesi immediatamente l’annullamento, essendo stato celebrato il rito
canonico. Avremmo continuato a vivere come marito e moglie, ovviamente, ma
legalmente dovevo tornare nubile. Ron ed Harry, compreso alla fine che non
avrei lasciato andare Draco in alcun modo, acconsentirono. Ed il Ministro si
fece perdonare, premendo sull’acceleratore delle pratiche naturalmente
secretate del nostro annullamento. Poco più di anno dopo, il mio matrimonio era
stato annullato. Del resto, io e Ron tecnicamente non avevamo mai consumato la
nostra unione, Alex non era figlio suo, potevo averlo ingannato e circuito per
essere sposata: di motivi per un annullamento, ce ne erano a iosa.
Ciò, però,
non toglie che ai tempi il nostro matrimonio fu celebrato, immortalato e tutto.
Fu una cerimonia veloce e sbrigativa, al termine della quale andammo in un
ristorante spartano sulla costa toscana, dato che ero lì per sistemare alcune
cose a casa dei miei. C’eravamo solo io, Ron, i miei, Harry e Ginny. Persino
Helder se lo perse, era al capezzale di Hayden, ancora ricoverato, avevano
appena iniziato a legare. Facemmo poche foto, alle quali diedi il mio assenso
solo nello scenario futuro di mostrarle ad Alex, o di conservarle come conferma
del nostro matrimonio. E, sempre per Alex, una di queste foto è finita in
questo album. Aveva tre anni, era un periodo in cui voleva assomigliare ai suoi
coetanei, insisteva parecchio per avere un quadro di famiglia che fosse simile
a quello dei suoi amichetti. Ed in questo rientrava la foto del matrimonio di
quelli che, all’esterno naturalmente, presentava come i suoi genitori. Quindi,
sbuffando, allegai anche questa foto.
Stavo meglio
rispetto alla foto di due mesi prima, avevo un aspetto più florido, non avevo
più ferite ed escoriazioni. Mi ero persino arrischiata ad una specie di
sorriso, che però restava statico ed impostato. Ron, invece, e ciò fa persino
male a ricordarlo, era raggiante: sorrideva, abbracciandomi, una mano sul
pancione. Avrei partorito solo quindici giorni dopo. Ed io, invece, avevo
insistito per un abito semplice, corto, sopra il ginocchio, coperto da un
pesante cappotto bianco della stessa lunghezza ed accompagnato da un modesto
bouquet di roselline. Mi ero solo impuntata per un cappello con la veletta.
Motivo? Volevo piangerci dietro quanto mi pareva e piaceva.
Dubito però
che tutti questi dettagli Draco li possa apprendere da una semplice fotografia.
Per lui, c’è solo il ritratto di una apparente felicità mitizzata per sempre.
Lo vedo guardare la foto con evidente rabbia, stringendo forte le mani
sull’album, come se lo volesse fare a pezzi. Ma nemmeno l’accenno di un fiato
gli solca le labbra: se non fosse per le mani, apparirebbe il perfetto ritratto
della calma e della pace. La stessa finta serenità filtra nelle sue parole,
mentre dice pacato: “Deve essere stato il sogno di Weasley averti lì
finalmente… vinta… e… sua…”.
La tregua
ovviamente è terminata: il segnale della ripresa dell’ostilità è l’acido che mi
corrode lo stomaco, soffiandomi in gola la risposta venefica che mi affretto a
sputargli addosso: “Bè, se avessimo aspettato ancora qualche mese, avremmo
avuto una perfetta foto simile tra te e Raissa, no? Mi dispiace davvero tanto…
doveva essersi fatta un bel po’ di film sul diventare la signora Malfoy…”.
“Effettivamente
come titolo ha un’onorabilità maggiore della ben poco ambita posizione di signora Weasley…” schiocca lui la
lingua, fingendo disinteresse e guardandomi con astio.
“Dipende dai
punti di vista, suppongo…”.
Alla mia
finta e sdolcinata aria da convenevole, Draco replica con un’alzata di spalle,
le mani ancora contratte sull’album: “Non mi sognerei mai di asserire
preferenze su una scala universale… ho di fronte a me l’esempio di una donna
che ha preferito di gran lunga l’appellativo Weasley a quello di Malfoy… in
fondo l’hai portato con grande onore e
soddisfazione per ben cinque anni… ed
invece… se la memoria non mi inganna, hai tipo… rifiutato la mia proposta di matrimonio… con l’annessa implicita e
spero ben reclamizzata possibilità di diventare una Malfoy… sei sempre stata
cristallina nei tuoi punti di vista, Granger…”.
“Bene, visto
che siamo tornati noi stessi, con tutto l’ovvio corollario di recriminazioni ante prima guerra mondiale, comprenderai
se tralascio il secondo atto…” mugugno nervosa, alzandomi in piedi dopo
l’ennesima stoccata che non credevo assolutamente di meritarmi e che invece,
come sempre, mi è piombata tra capo e collo “Del resto so come va a finire. Hai
ancora un discreto carico da riversarmi addosso, no? Probabilmente comprensivo
anche dei tempi di Hogwarts e delle beghe tra i miei e tuoi antenati… quindi
grazie, incasso, ma me ne vado a letto…”. Prima che abbia il tempo di
riprendere con le sue frecciate, afferro l’album di fotografie, pronta a
riprendermelo, pentita dal mio accesso di gentilezza di poco fa. Draco, preso
di sorpresa, lascia l’album poco prima che io l’abbia saldamente tra le mani,
con il risultato che cada a terra, rovesciandosi. Una fotografia scivola fuori
e ricade sul tappeto della stanza di Serenity, sbuffo, guardando Draco storto.
Con le mani occupate dall’album, non ho il tempo materiale di raccoglierla
prima di Draco, che fa per porgermela con aria scocciata. Poi qualcosa attrae
la sua attenzione, ritira indietro la mano e si sofferma sulla foto, ad occhi
sgranati.
Che altro diamine ha visto, adesso?
Incrocio le
braccia e batto il piede a terra con impazienza, ha visto tutte le foto
dell’album, non ne ha tralasciato nessuna. Ma questa la sta degnando di
un’attenzione diversa, eccessiva. E lo sguardo che porta a me, ai miei occhi, è
d’improvviso così sbigottito, impetuoso, intenso che mi fa tremare le gambe. Fa
solo un singolo passo e, con delicatezza, mi porge la fotografia tra le mani,
sento che indugia con il pollice per qualche secondo su di essa, come a non
volersene separare. E, mentre la guardo, comprendendo infine, il suo sguardo
non mi lascia per un solo istante, facendomi sudare ancora di più freddo.
Perché quella fotografia… è un segreto. Turpe, eppure dolce. Sgraziato, eppure
gentile. Molesto, eppure innegabile.
Un segreto
che ho seppellito nel fondo di me stessa, per evitare di pensarci ancora. Un
segreto che riecheggiava ogni giorno della mia vita con Ron. Un segreto che,
fino a qualche settimana, andavo urlando e professando a chiunque me lo
chiedesse, attendendo di dirlo nuovamente a lui, a Draco, ma che adesso,
invece, si è fatta la vergogna più inconfessabile e tremenda mai esistita. Un
segreto che può salvarmi, ma non mi salverà. Un segreto che accende il fuoco
degli Empatici, ma agghiaccia il mio cuore.
Un segreto
che non è mai stato davvero segreto… e cioè che non ho mai smesso, per un solo
secondo della mia vita, di pensare a Draco Malfoy.
E non nella
maniera che si conviene ad una donna, ad una madre… no. Nella maniera scomoda
ed imbarazzante di un’adolescente alla prima cotta, tanto da farmi concretamente
supporre che il karma mi stesse punendo per non aver mai avuto episodi simili a
tredici, quattordici anni.
Il periodo
peggiore era stato quando Alex aveva circa tre mesi: mia madre, per aiutarmi,
viveva a casa mia in Sicilia, cosciente che forse non ero ancora del tutto in
grado di prendermi cura di me stessa, figuriamoci di un bambino. Mia mamma è
sempre stata una donna teutonica, instancabile. Sostanzialmente lei faceva
tutto per Alex, e io restavo a crogiolarmi nell’autocommiserazione e nella depressione.
Che mia madre, ingenuamente, trattandomi da malata, mi facesse più male che
bene, l’ho capito dopo qualche mese. Ho iniziato a stare meglio solo quando,
finalmente, mi sono occupata da sola di Alex e i miei pensieri neri si sono
accucciati in un angolo, schiacciati dalla luce accecante dell’amore per mio
figlio.
Prima, però,
io avevo dato fondo a tutta la mia dignità ed amor proprio, piangendo da sola,
mettendo su capricci assurdi, mangiando chili di gelato. Ed impuntandomi su una
cosa: dopo un anno, ormai, in cui non vedevo Draco, ne stavo scordando il viso.
Volevo una sua foto, la volevo disperatamente. L’avevo cercata, l’avevo
spasimata in tutti i modi, ma le foto di scuola o quelle del periodo
immediatamente successivo alla guerra non mi ridavano il volto del mio Draco,
del ragazzo che avevo conosciuto al Petite Peste. C’era troppo che mi
infastidiva in quelle di Hogwarts, troppo che mi intristiva in quelle del
periodo con Helena. Ma, naturalmente, del periodo successivo non c’era nulla.
Draco per tutti era morto, non si era fatto fotografare da nessuno. Ed
ovviamente non potevo mettere a repentaglio la sicurezza mia o di Alex,
contattando per una sciocchezza simile Seth, o Pansy.
Alla fine,
però, ottenni qualcosa.
Di piccolo,
sgranato, sfuocato.
Ciò che Draco ha tra le mani.
La Gazzetta
del Profeta aveva pubblicato in un vecchio numero una foto della festa a casa
di Pansy: per caso, nella mia infinita ricerca, avevo notato una fotografia nel
cui fondo, appena visibili, c’erano due persone abbracciate. Una ragazza mora,
cinta alle spalle da un ragazzo alto: Calista Parkinson e il suo ragazzo. Che
ovviamente non erano mai venuti a quella festa… eravamo io e Draco.
Avevo
incantato la carta per rimuovere gli incantesimi che avevano ingannato anche la
pellicola fotografica per proteggere me e Draco. La foto si era schiarita
ancora di più. L’avevo ingrandita, migliorata e modificata in tutte le maniere
possibili, ma comunque era rimasta una foto sbiadita e sfuocata, incapace di
restituirmi il ricordo dell’uomo che amavo. Eppure l’avevo divorata con lo
sguardo notte e giorno, così da sentire di nuovo il profumo di quelle braccia
addosso. L’avevo custodita sotto un cuscino, l’avevo inondata di pianto,
l’avevo baciata come una mocciosa.
Poi, come
premesso, l’avevo seppellita a fondo in un cassetto, quando finalmente avevo
preso ad occuparmi attivamente di mio figlio. E da quel cassetto era uscita
solo quando Alex mi aveva chiesto di vedere suo padre, quando non avevo trovato
niente di meglio da fare che mostrargli quella foto, per poi comprare un album
di cuoio e farne la sua prima immagine.
Adesso, come
tutto quello che in questa notte sta tornando indietro per punirmi prima della
mia probabile morte, anche questa fotografia è uscita fuori al momento meno
opportuno. È una prova principe, maestra, di fronte al quale, se si nega, si è
spergiuri ed apostati. È un coltello dalla parte del manico, pronto a
conficcarsi nella carne morbida del fianco. È tutto ciò che ho cercato di
negare fino ad ora, perché lui non lo sapesse, spinta dalla possibilità a suo
modo terribile che l’attaccamento che ho sempre continuato ad avere per lui e
per il suo ricordo, non avesse in lui un corrispondente. Lo sento il suo
sguardo addosso, quel senso riottoso di vittoria e possesso che si riprende
sulla mia vita e su quella di nostro figlio, facendo evaporare l’onta di
esclusione che le altre foto gli avevano biecamente disegnato negli occhi e
nelle parole. Lo sento vicino, vicinissimo, seppure non si è spostato. E la
sola cosa che mi resta da fare, vinta, vergognosa, rossa in viso come una
scolaretta smascherata, è afferrare con rabbia quella foto, schiacciandomela
contro il cuore, restando a viso basso e reprimendo l’istinto di piangere.
Proteggo quel Draco e quell’Hermione della foto, nascondendoli dalla luce
scomoda e falsa della realtà presente, del mio imbarazzo crescente che neanche
insegue il suo sguardo che immagino già tronfio, presuntuoso, colmo di
sicurezza molesta e mortificante.
D’un tratto,
lo sento con una parte della mia mente muoversi per la stanza, fare qualche
passo incerto ed in silenzio, fermarsi davanti alla libreria della camera di
Serenity. Spio le sue spalle, abbasso furiosamente il capo quando lo vedo
voltarsi ed avvicinarsi a me, di nuovo. Resta ancora immobile qualche istante,
soppesandomi ancora, poi sospira a lungo, forte, come a darsi coraggio. La sua
mano raggiunge fulminea e veloce il mio polso, staccandolo dal mio petto con un
movimento che mi mozza il fiato, per quanto è veloce, naturale, dolce. Le sue
dita corrono rapide lungo il polso e la mano, forzando le mie dita per aprirsi,
prima di intrecciarsi a loro con decisione. Ha la mano calda, caldissima,
rovente. Incapace di fare qualsiasi cosa, lo sento trascinarmi piano fino al
letto di Serenity, prima di sedersi. Mi invita in silenzio a fare altrettanto.
Fa ancora un grosso sospiro, non lascia la mia mano neanche per un secondo, non
obietto, non mi tiro indietro, non la lascio. Forse perché mi aiuta a non
perdere l’equilibrio. O forse perché, come tutto il resto di lui, mi è mancata
così tanto che se ne posso godere con una scusa qualunque, lo faccio e basta,
prima che si risvegli l’orgoglio.
In silenzio,
non spostando neanche l’aria, mi porge qualcosa.
Un libro.
Un semplice
libro dalla copertina di pelle rossa, con ghirigori dorati che inanellano la
parola “Fiabe”.
Un semplice
libro per bambini, dall’aria antica, magari anche pregevole, ma niente che
possa sembrarmi familiare e giustificarmi la sua volontà di mostrarmi qualcosa.
Lo tengo
sulle ginocchia per qualche istante, poi lui sussurra quieto: “Aprilo…”. Ha una
voce diversa, più morbida rispetto a prima. Incerta, tremante persino.
Sfoglio le
pagine senza capire, con attenzione, apparentemente disinteressata. È solo una
raccolta di fiabe, niente di che. Ad ogni pagina, con il racconto, si
intervallano bellissimi disegni dei personaggi, fatti con gli acquerelli. Non
noto niente di particolare, niente che mi faccia sobbalzare: sono storie
ordinarie. La Sirenetta, Cenerentola, la Bella Addormentata nel Bosco,
Raperonzolo, Biancaneve.
Storie
adatte ad una bambina. E difatti, i disegni sono tutti di bellissime e graziose
principesse che prima lottano, combattono, e poi si godono felici il loro lieto
fine.
Qualcosa,
però, ad un certo punto mi fa salire i brividi sulla schiena. C’è qualcosa in
quei tratti che, a sua volta, mi ricorda qualcosa. Lo stile, le pennellate
delicate eppure decise, il modo di dipingere gli occhi come se fossero la parte
più importante del viso, la carezza ai corpi femminili come se l’artista li
possedesse… e lì, subito, in modo fulmineo, capisco che i disegni sono di
Draco.
Ha lo stesso
identico stile di quando dipingeva Helena. Difficile non rendersene conto, solo
lui riesce a vedere la bellezza in ogni cosa, trasformandola, trasfigurandola
persino.
Ed è per
questo che, di primo acchito, neanche me ne accorgo. Per questo che, anche se
era così evidente, io non me ne rendo assolutamente conto, se non dopo qualche
minuto, bruciandomi il cuore.
Come la sua
mente mi ha visto in modo ben diverso da come pensavo che fossi, così ha fatto
anche la sua arte nei cinque anni in cui non ci siamo visti.
La mia mano,
nella sua, ha uno spasmo improvviso, pallida imitazione di quello che scoppia
nel mio petto.
Ogni
principessa, nel libro di fiabe di Serenity, ha il mio viso.
Questo
capitolo, mio malgrado, merita una spiegazione. Se mi avete seguito in questi
anni, se a vostro rischio e pericolo, ancora lo fate, sapete più o meno come
sono e chi sono. Sono una che si nasconde dietro questa storia, che non ama
parlare granché al di là di questa, che si imbarazza per i complimenti e ha
anche difficoltà a rispondere alle recensioni, perché spesso le sembra di dire
le stesse cose e di non meritarsi nulla di quello che riceve. Sono una persona
lunatica ed emotiva: e in questa storia, negli anni, ho trasfuso talmente tanto
di me stessa, che quando sarà finita probabilmente perderò un forte pezzo di me
stessa. Questa storia, che è nata come una fic, mi ha
dato tanto, tutto. La determinazione a capire che cosa voglio fare della mia
vita e dove sto andando. La consapevolezza di chi profondamente sono. L’amicizia
e la vicinanza di persone meravigliose. Un punto di vista sul mondo e su quello
che penso e vivo.
Ecco,
cosa è Halft per me, oggi.
Ed
ecco perché questo spaventoso ritardo merita una spiegazione.
Non
mi annoierò con il racconto della mia vita, con quello che mi è successo in
questi mesi, dalle cose più piccole e belle, a quelle più grandi e terribili. Non
mi esibirò nel patetico lamento di un’infelice ed occupata persona, che a tempo
perso fa finta di essere una scrittrice. Non ve lo meritate, insomma. E neanche
aggiungerò che sono una persona perfezionista, ed il capitolo non vede la
pubblicazione finché non sono soddisfatta; e nemmeno che ormai è una storia
così complessa che seguirne ogni personaggio ed ogni storia, non è
semplicissimo. Non vi incuriosirò dicendo che ho già in mente il seguito di
questa storia, che però non so ancora se pubblicherò su EFP visto che è quasi
del tutto una storia mia, e che quindi dissemino già Halft
di indizi. E neanche mi giustificherò con la parabola rilassante di sapere che
ormai mancano solo una manciata di capitoli alla fine.
Piuttosto,
vi chiederò scusa, a tutti voi, per l’enorme ritardo. Scusa e basta. Perché,
non ve lo meritate. E non ci sono giustificazioni, le mie, che tengano. Se non
seguirete più questa storia, vi capisco. Se vi siete arrabbiati, sentiti presi
in giro, ancora vi capisco.
Io
non abbandonerò mai Halft. La completerò, la scriverò
tutta come credo e spero. Ma purtroppo non sono una da un aggiornamento al
mese. Non lo sono mai stata. Ma non vorrei neanche diventare una da un
aggiornamento all’anno. Quindi in questa sintesi, sta il senso del mio “scusa”.
Ma
sta anche il senso del mio “grazie”.
Alle
ragazze del gruppo di Halft, che sempre mi seguono,
incoraggiano e capiscono. Ad una mia amica, che non nomino perché lei sa chi è,
ed è l’unica che sente e vive questo sogno con me, leggendo questa storia. Ai lettori
che non mi insultano, ma che mi recensiscono. A chi sente questa storia,
dentro. A chi si è lasciato cambiare da essa.
Grazie
quindi ad Astoria GM e all’essersi sentita prolissa. Grazie del fatto che ti
sei incollata gli occhi al pc, e grazie anche del tuo punto di vista. Io adoro
Ilai, ma sono terribilmente parziale. Ho voluto scrivere una storia vera,
quindi sono quasi felice dell’angoscia che provi. E del fatto che,
oggettivamente, proprio perché esiste anche Ilai, proprio perché esiste anche
Raissa, non si sa come potrebbe finire. Grazie.
Grazie
a Feffola della pazienza, dell’essersi preoccupata
che ci fossero motivi gravi per la mia assenza. Grazie di avermi rassicurato
sul fatto di non essere “pesante”.
Grazie
a GHIM 92, per avermi definito una delle più belle storie su EFP. Non so se sia
vero, ma tant’è… grazie.
Grazie
a Nyteshade e scusa se ti ho fatto sentire come se
avessi perso qualcuno, quando hai visto che non aggiornavo da così tanto.
Grazie
a DAFNEDAFNE, se ti è sembrato che i personaggi non fossero stravolti, ma solo
cresciuti. Per una fanatica dell’IC come me, fa davvero molto.
Grazie
Asaq, e spero che alla fine tuo figlio la merenda l’abbia
mangiata!
Grazie
Alchimista93, e grazie di tutte le tue domande. Perché sono tutte cose che
vorrò inserire nel seguito.
E
grazie a tutti gli altri che mi hanno recensito, ma che al momento non ricordo
se ho risposto, ringraziato, scritto via facebook o
altro. Prometto e qui mantengo, che alle recensioni risponderò qui, non via
risposta automatica, a meno di domande urgenti. Perché altrimenti me ne
dimentico, e sono costretta ad una nuova parabola di scuse.
Quindi
la sintesi è: scusate. Vi ringrazio. E se ci siete ancora, e se qualcosa non vi
è chiaro, contattatemi pure.
Cassie.