1-partenza
Partenza
Non starò qui a raccontarvi di come sia perdere tutto
da un giorno all’altro. Magari potete provare a immaginarlo. Immaginate di
andare a dormire una sera avendo una vita normale, una famiglia abbastanza
felice a cui volere bene, e una casa piena di oggetti inutili ma a cui, tutto sommato,
siete legati, e di svegliarvi la mattina dopo per scoprire che niente di tutto
questo esiste più.
Non è una storia strappalacrime quella che voglio
raccontarvi, quindi non entrerò nei dettagli. Vi dirò solo che i giorni successivi
ero completamente annichilita.
Non riuscivo a reagire, non riuscivo nemmeno a
ragionare. Lasciavo che gli altri si occupassero di tutto al posto mio, che
sistemassero i conti, vendessero la casa in cui non avevo voluto tornare, che
mi dicessero dove andare a vivere e cosa fare dopo. Ed ero scocciata se non lo
facevano abbastanza bene.
Non avevo progetti, non avevo voglia di fare nulla, e
tutto sommato speravo di morire nel sonno.
Poi mi sono vista, come dall’esterno, e non mi sono
piaciuta. È vero, quello che mi era successo era orribile, per quanto sia
grande il dolore ci sono molti modi di affrontarlo.
Io non lo stavo affrontando per niente. Mi ci
crogiolavo, quasi. Facevo completo affidamento sugli altri, mi lasciavo
viziare, stavo appassendo come uva lasciata al sole, incapace di reagire. Ero
troppo stanca e troppo vuota per fare qualsiasi cosa che non fosse lamentarmi…
Vuoto, era questo il problema.
Ricordo che lo pensai con insolita chiarezza e
lucidità, mentre giacevo sveglia fissando il soffitto, nel cuore della notte.
Forse se avessi trovato il modo di riempire quel
vuoto, avrei potuto reagire e smettere di vivere come un vegetale capriccioso,
pretendendo che chi mi stava attorno si prendesse cura di me e appassendo
nonostante si facessero in quattro per darmi la giusta quantità di luce e di
acqua, lasciando che giustificassero il mio comportamento, adagiandomi nella
loro compassione.
Appena giunsi a quella conclusione, buttai via le
coperte, senza fare rumore, e mi alzai.
Ero a casa di una cugina di mia madre, con cui non
avevo mai scambiato di quattro parole. Mi aveva preso con sé perché nessuno mi
riteneva in grado di cavarmela da sola, e parenti più stretti non ne avevo. Si era
sentita obbligata insomma, ma questo non sminuisce la sua gentilezza.
Presi il portafoglio con i documenti e la carta di
credito. Non avevo molti soldi, ma per quel che dovevo fare sarebbero bastati.
Non presi altro: non volevo nulla che mi collegasse
alla mia vecchia vita. Avevo bisogno di cose nuove. Uscii di casa senza fare
rumore, lasciando solo un biglietto.
- Parto. Non so quando torno. Mi farò sentire io.
Grazie di tutto.
La camminata fino alla stazione era stata lunga, e più
di una volta avevo pensato di tornare indietro, tornarmene a letto.
Era logico che mi sentissi così vuota e depressa, ma
se avessi aspettato le cose si sarebbero messe a posto da sole. Il dolore
sarebbe diminuito prima o poi, e avrei ricominciato a vivere la mia vita, senza
bisogno di fare qualcosa di così drastico.
Ma no. Come potevo reagire e andare avanti, se a una
piccola, disgustosa parte di me piaceva essere al centro dell’attenzione,
essere compatita ed essere tenuta nella bambagia? No, dovevo andarmene.
Avevo fatto il biglietto alla biglietteria automatica,
scegliendo una città quasi a caso. Una città del nord, parecchio lontana da
casa, ma ancora in Italia.
Era un treno notturno, di quelli con le cuccette per
dormire. Il biglietto era costato parecchio, ma c’erano in dotazione acqua,
salviettine e lenzuola.
Studiai tutti i pacchettini con una certa curiosità,
poi mi preparai la cuccetta.
Sentii una strana sensazione, che non sentivo da così
tanto tempo che faticai a riconoscerla. Come una scossa elettrica che partiva
dal fondo dello stomaco e si diramava lungo le gambe e le braccia: eccitazione.
Quando mi svegliai la mattina dopo il treno era ancora
in movimento, ma il paesaggio era molto cambiato.
Il treno stava sfrecciando fra alte colline, coperte
di piccoli boschi e di campi coltivati. Notai che il grano era quasi maturo. Non
pensavo che fossimo già così vicini all’estate.
C’era una signora sull’altra cuccetta. Doveva essere
entrata mentre dormivo. «Buon giorno» mi salutò. «Hai dormito bene?» Mi
stropicciai gli occhi un po’ spaesata e annuii. «Sei una persona dal risveglio
lento eh? Anche io lo ero alla tua età.» Non sapevo cosa rispondere così mi
limitai a sorridere e annuire. La signora aveva almeno sessant’anni, e aveva
una strana somiglianza con Jessica Fletcher. Mi chiesi quando sarebbe spuntato
fuori il morto. «Viaggi leggera? Non hai un bagaglio, o te l’hanno rubato?»
«È stata una partenza improvvisa.» Mi giustificai. La
signora evidentemente non aveva ancora soddisfatto la sua curiosità. «Io sto
andando a trovare mia sorella.» Spiegò, forse sperando che raccontassi più
dettagli anch’io. «È andata a vivere a Torino col marito. Non mi è mai piaciuto
molto quell’uomo.» Annuii, come se sapessi benissimo di cosa stava parlando, ma
non dissi nulla mentre lei continuava a raccontarmi tutti i sordidi dettagli
della vita di sua sorella.
Quando finì mi guardò speranzosa, ma io sorrisi
scrollando le spalle e tornai a fissare fuori dal finestrino.
La signora aggrottò le sopracciglia, poi sospirò e
inizio a tirare fuori dei pacchi di cibo per la colazione. Parecchi pacchi,
troppi per una colazione sola. Forse aveva notato il mio sguardo incuriosito,
perché si affrettò a spiegarsi. «Mia madre, santa donna. Ha ottant’anni e non
si fida dei treni, ha paura che io possa rimanere bloccata qui sopra per giorni
e giorni, e che possa patire la fame.»
La osservai aprire un contenitore con parecchie fette
di torta, con lo stomaco che brontolava. «Santa pazienza, come faccio a
mangiare tutta questa roba? Io glielo dico sempre a quella donna là, di non
cucinare per me, ma non mi dà retta. Ecco, aiutami, prendine un po’.»
Mi allungò due o tre fette di dolce con aria decisa, e
io accettai ringraziando. «Mi chiamo Mariuccia.»
«Jessica.» Risposi senza pensare. Non avevo un vero
motivo per dare un nome finto, ma forse per la sua somiglianza con la signora
in giallo mi era uscito così. Ora non valeva comunque la pena di cambiare
versione. «Quanti anni hai? Sembri molto giovane per andare in giro da sola.»
«Sembro più giovane di quello che sono. Ho già
ventitré anni.» Protestai, cercando di non indignarmi. Spesso mi scambiano per
minorenne, probabilmente perché sono bassa e minuta.
«Ventitré anni sono pochi. Fidati di me, che li ho
avuti.» Scrollai le spalle. Ovvio che avendo l’età dei dinosauri, chiunque
abbia meno di quarant’anni deve sembrare giovane come l’acqua, pensai un po’
troppo acidamente. La torta però era buonissima, quindi decisi di perdonarla.
«Cosa ti porta a Torino?» Insistette la signora,
ricordandomi improvvisamente che era quella la mia meta.
«Mi hanno chiamato per un colloquio di lavoro. Ho
dovuto partire senza preavviso.» Improvvisai con una scioltezza che non mi era
mai appartenuta «Oh che bello! Trovare lavoro, di questi tempi, deve essere
difficile!»
«Sì, infatti.»
«Che lavoro?»
«Armetovaia.» Risposi assolutamente decisa. «Cosa?»
«Si tratta di testare la solidità degli armatori di
pastinaca.» Sperai che la tattica presa in prestito da “amici miei” funzionasse
e che smettesse di farmi domande. Quando la signora annuì in preda alla
confusione, probabilmente credendo di essere ormai arrivata alla demenza
senile, mi sentii un po’ in colpa e pensai quasi di dirle che stavo scherzando,
e di inventare qualche balla tipo “voglio fare la pasticcera.” In effetti
sarebbe stato più semplice e sensato.
Fin da piccola mi divertiva spiazzare che mi chiedeva
cosa volessi fare da grande inventando mestieri che non esistevano e, sotto
sotto, riesumare quella vecchia passione mi fece quasi venire voglia di
sorridere.
L’annuncio che il treno era arrivato al capolinea mi
risparmiò la necessità di inventare altre balle. «Bene, allora buona fortuna
Jessica» Mi salutò dopo che l’ebbi aiutata a scaricare le valigie. Sorrisi
timidamente e corsi via, cercando di avere l’aria di chi sa esattamente dove
sta andando.
Poco dopo ero sulla via principale di Torino, città
che mi era completamente sconosciuta. E adesso era ora di darsi allo shopping.
Stranamente l’idea mi riempì di adrenalina e
eccitazione. Non avevo mai amato lo shopping, di solito compravo le magliette
in serie appena ne trovavo una che mi piaceva, per non dover tornare tanto
presto.
Decisi che come prima cosa avevo bisogno di abiti di
ricambio, e mi infilai in un negozio d’abbigliamento.
Avevo sempre avuto uno stile sobrio, colori scuri,
pantaloni stretti… ma adesso scelsi abiti comodi, jeans strappati, qualche
t-shirt e una felpa in cui avrei potuto entrare comodamente due volte, ma che
era calda e confortevole. Passai anche in una libreria, dove comprai un
quaderno e una penna, perché mi andava di scrivere, e un libro, per avere
compagnia. Non troppa roba, perché avrei dovuto portarmela sulle spalle, in uno
zaino che presi in un negozio di articoli sportivi assieme ad altre cose che mi
sarebbero state utili.
Lo scelsi con cura, pensando che sarebbe stato mio
compagno di viaggio per molto tempo. Era di un bel colore verde militare, un
po’ freak. Pensai che mi desse un’aria un po’ hippie e avventurosa.
Alle tre non avevo ancora pranzato, e affamata, decisi
di comprare degli spaghetti al curry a un takeaway vicino all’università. O almeno
penso che fosse l’università, vista la gran quantità di giovani che si
lamentavano degli esami lì attorno.
Anche io avrei avuto gli esami, se non avessi mollato
tutto per andare all’avventura. Avrei avuto un esame di antropologia… avevo
seguito solo le prime lezioni, ed erano state molto interessanti. Avevo già
comprato i libri da studiare, carica di entusiasmo, immaginandomi come una
specie di Indiana Jones. Chissà che fine avevano fatto?
«Stai scappando?» Mi
girai verso la ragazza che aveva parlato, corrugando la fronte,
sentendo il cuore battere forte nelle tempie. «Hai l’aria
di
una che sta scappando.»
«È per lo zaino?» Chiesi preoccupata. Non avevo
proprio bisogno di attirare l’attenzione. La ragazza rise di gusto della mia preoccupazione, offendendomi un pochino.
«Non solo per quello, è per...» mi studò da capo a piedi con un'occhiata divertita «Un po' per tutto.» Adesso ero abbastanza offesa, anche se non dissi nulla, visto che aveva sicuramente ragione. Mi ero vista allo specchio mentre facevo shopping. Rise di nuovo, dandomi un pogno scherzoso sul braccio. «Eddai, stavo scherzando!»
Cercai di guardarla con la faccia di una che sa stare allo scherzo, ma non sono del tutto sicura che la cosa mi riuscì.
Era una
tipa strana, con i capelli multicolore, vestiti indiani, piercing al
sopracciglio e un’aria pacifica.
«Studi qui?» Mi chiese, accendendosi una sigaretta.
Scossi la testa. «Nemmeno io. Mi sono ritirata. Tanto comunque la laurea non mi
servirà a nulla. Fra poco il mondo finirà.»
«Ah sì?»
«Sì, massimo fra un paio d’anni. Quando le calotte
polari si saranno sciolte del tutto.» Rispose serafica.
«Non sembri molto preoccupata.»
«E perché dovrei? Preoccuparmi mi serve a qualcosa?
No. Ora parto, vado un po’ in giro. Vedo un po’ di posti, prima di morire
annegata.»
«Sì, più o meno anch’io ho lo stesso programma.»
«Vedi? L’avevo capito, sai?» Esclamò esultante.
Sorrisi timidamente. «Hai un posto dove stare questa notte?»
«Ancora non ci ho pensato.»
«Vieni da me. È l’ultima settimana che ho l’appartamento in
affitto, faccio una festa.» Esitai, prima di ricordarmi che, se mi ero data una
regola per quel viaggio, era quella di farmi guidare da qualsiasi cosa il
destino avesse da propormi. E a quanto pare, quello che il destino aveva da
propormi, era una strana ragazza, con abiti indiani e con ciocche viola, blu e
verdi fra i capelli.
«Ok. Grazie.» Dissi cercando di sembrare più entusiasta e fiduciosa di quello che ero.
«Io
sono Marta.» Sorrise, tendendomi la mano. «Lee.»
Mi presentai, inventandomi un nuovo nome. Marta rise. «È
un nome falso, vero?»
Mi strinsi nelle spalle. «Oh beh, avrai i tuoi motivi. Vieni con
me! Allons-y!» Si alzò piroettando e battendo le mani. Io
mi alzai più goffamente e mi caricai lo zaino sulle spalle.
E seguii una perfetta estranea in un luogo ignoto.
Ciao! È
la prima volta che provo a scrivere una storia semiseria e non fantasy,
quindi se è il caso che lasci perdere, fatemelo sapere
subito, ecco. ^^
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