Pilikia
Forse la vita alle volte
ti gira in un modo che non
c’è proprio più niente da dire
Alle undici di sera il telefono squillò due volte, alla
terza Nani rispose. Annoiata, alzò la cornetta e si
portò all'orecchio l'apparecchio; lo fece sovrappensiero,
senza dare importanza alla cosa, senza immaginare che quella chiamata
avrebbe dato una svolta del tutto inaspettata alla loro vita. Allora
aveva diciannove anni, undici mesi e ventun giorni e cinque ore dopo
quattro agenti sedevano nel salotto di casa.
«Pioveva
molto» borbottarono appena oltrepassata la
soglia con le mani nelle tasche delle giacche a vento fradice; sul
pavimento si formò velocemente una pozza. «La strada era scivolosa»
aggiunse poi qualcuno, tirando su col naso; «la visibilità era
ridotta» specificò qualcun altro con
voce incerta e, «non
ce l'hanno fatta», l'avvisarono infine,
lasciando che lei prendesse posto sul sofà arancione: la
forza per alzare gli occhi e certificare chi avesse detto cosa le
mancò. Una mano le diede una pacca di conforto, un'altra le
strinse solidale il braccio.
Ancora stentava a credere che fosse reale: silenzio nel cuore e sulla
bocca.
Ore prima telefonicamente l'avevano avvertita che i suoi genitori erano
in bilico tra i due mondi, che forse non avrebbero visto l'indomani e
che lei doveva limitarsi ad aspettare, lasciando scivolare il temporale
che imperversava fuori ―
doveva attendere, pazientare in silenzio e nel buio a casa sola con
Lilo che dormiva tranquilla ― e Nani fino alla fine aveva
sperato, illudendosi.
Erano venuti ad avvisarla di persona, un atto di gentilezza dovuto alla
drammaticità dell'avvenimento: aveva subito compreso che
erano lì per quello. Le espressioni contrite dei poliziotti,
così buie da atterrire, riflettevano la tragedia, accertando
il disastro.
Tra loro Nani aveva subito individuato l'amico di
papà, il poliziotto che, quand'era piccola, le
punzecchiava sempre le guance. L'aveva riconosciuto immediatamente,
quando, pochi minuti addietro, aveva spalancato la porta. Il nome
nell'ansia continuava a sfuggirle.
«Lilo sa già qualcosa?» la ragazza
scosse la testa, perdendo un battito nel realizzare che la piccola era
ancora letto, dato che si era imposta di non svegliarla alla notizia
dell'incidente. Perché, lasciala
dormire, si era detta, è meglio
così; non farla preoccupare
inutilmente, mamma e papà se la caveranno. Ma
loro, come avevano detto gli agenti attimi prima, erano morti. Morti.
Non respiravano e lei, Lilo, ancora non sapeva ―
dell'incidente, dell'ospedale, di tutto ― e a Nani la sola idea di
accostare quel termine accanto alla parola mamma e papà fece
piegare le labbra in una smorfia di dolore. Ma doveva.
«Vuoi che le parliamo noi?» le chiese Kohai ― ecco come si chiamava l'amico di
papà.
Scuotendo nuovamente la testa rifiutò l'offerta, cortesia
non richiesta: ci avrebbe pensato lei, anche se la voce continuava a
morirle in gola e gli occhi a pizzicare. Doveva farlo. A Lilo sarebbe
crollato il mondo addosso e lei era l'unica a poter arginare i danni:
avrebbe dovuto calibrare la frase o tutto sarebbe andato in pezzi. La
loro ohana
si era drasticamente ridotta, perdendo elementi essenziali.
Gli uomini assentirono in silenzio. Quando lei li condusse alla porta,
desiderosa di rimanere sola, Kohai volle trattenersi: si
fermò fino alle sei, fino a quando una chiamata d'emergenza
ruppe il silenzio del salotto e fu costretto ad allontanarsi per
adempiere ai proprio doveri; un traliccio aveva ceduto e ingombrava la
strada.
Nani ringraziò quella telefonata e, finalmente,
riuscì a piangere, dopo aver visto l'automobile dell'uomo
allontanarsi arrancando nel fango: alcune palme attorno alla casa
oscillavano, spezzate dal vento di qualche ora prima.
Ma come, come, come
avrebbe dovuto dirglielo? Quali parole usare?
Dopo le lacrime, quando il cuore finalmente smise di battere
così forte e il sole illuminava debole i ripiani della
credenza, Nani dovette fare chiarezza nella mente: doveva preparare un
discorso, un filo logico, un qualcosa che le permettesse di dirlo,
anche se dirlo, dire quello, avrebbe reso tutto reale.
Perché loro ― mamma e papà ― sorridevano ancora
nella sua testa. E Lilo non sapeva, non ancora, e per un attimo
invidiò la sorella, sentendosi poi in colpa, capendo che,
comunque, l'avrebbe presto scoperto anche lei.
Sospirò: ancora pochi minuti e sarebbe accaduto. Le venne
un'irrefrenabile voglia di chiamare David. Magari lui avrebbe saputo
cosa fare, come comportarsi e l'avrebbe sostenuta come faceva sempre.
Alle sette e dodici uno scalpiccio di passi riempì la cucina.
«Dove sono mamma e papà?» la fronte di
Lilo era corrucciata, la finestrella tra i denti ben visibile.
Nani sospirò e quel silenzio fu più esaustivo di
mille discorsi: le parole furono solo un amaro dessert.
Sesta classificata al I
love Japan Contest indetto da tecla_ sul forum di EFP
La storia è ambientata prima dei fatti raccontati
nell'animazione, in occasione della morte dei genitori di Lilo e Nani
che, nel film, si dice che hanno perso la vita in un incidente
automobilistico a causa dell'asfalto bagnato. L'età di Nani
mi sono permessa di inventarla, dal momento che nel film non
è chiara, considerando però che quest'ultima
è diventata tutrice di Lilo in seguito alla morte dei
genitori, è evidente che fosse almeno maggiorenne al momento
della loro scomparsa. Infine il titolo è in hawaiano e
significa difficoltà (questo a secondo dictionary.com).
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