Edward
La sfioritura della rosa rossa.
Idem per diversa.
Edward VI Tudor's motto.
Di mia madre avevo un ritratto. Non si trovava nelle mie stanze, come
quand'ero bambino mi appariva logico dovesse essere: in una sala da
cerimonie dispersiva quanto un cortile e inzaccherata d'oro barocco,
ch'era aggrappato da ogni parte come un venefico rampicante. Sapeva di
freddo,
di pagine ammuffite di liturgia, di fiori avvizziti e di ombra.
Detestavo andarci. Padre
Bresbury
dice che Sua Maestà mia madre mi guarda dall'alto e veglia
sul
mio sonno. Ma non potrebbe farlo più facilmente se fosse di
fronte al mio letto? Ero davvero perplesso: un uomo
intelligente come mio padre, che conduceva guerre, a
cui l'intero
popolo inglese affidava la patria, eppure incapace di
comprendere
qualcosa di così banale. Era fuori discussione che mia madre
riuscisse a vedermi, con tutte quelle porte e quei muri di mezzo,
figuriamoci a proteggermi da eventuali pericoli. Non ebbi l'ardire di
rivelare i miei pensieri al riguardo: le attenzioni che mi venivano
rivolte con pervicacia mi resero un bambino timido. Quando ne parlavo
con la governante, lei mi diceva che mia madre era in cielo e dal cielo
si può vedere chiunque, da qualsiasi parte sia, e che dovevo
lasciar perdere il ritratto. Ma non l'ascoltavo. Quell'ammasso di tela
e colore era magia, ai miei occhi. Era l'unica prova esistente al mondo
che dimostrasse che sì, anche io avevo avuto una madre,
molto
tempo fa. Perchè, a forza di sentirla nominare solo dalle
labbra
altrui, avevo iniziato a considerarla la protagonista della mia favola
preferita. Era mia madre, quel ritratto.
Lo andavo a rimirare solo se ero di buon umore. Perchè se
ero di
cattivo umore, cosa che capitava di rado -ma se capitava era spietata
ed irreversibile, subito mi sorgeva il pensiero che non me importava
nulla che mia madre fosse proprio quella. Era solo un disegno. Avrebbe
potuto essere anche diverso. Quella fisionomia rotonda ed affabile,
quella collana di minuscole perle coltivate, quelle acconciature bionde
e morbide, avrebbero potuto essere quelli di chiunque. Non avevo un
buon motivo per amarla. L'amavo perchè mi era stato detto quella è tua madre. Se
avessero indicato il dipinto di una contadina, avrei amato quello. Era
un'idolatria senza significato, come quella dei bambini per i loro
pupazzi di pezza. Il ritratto non poteva scorgermi. Il ritratto non
poteva salvarmi.
Fino ai cinque anni, non seppi in quale città abitassi. Non
seppi cos'era una città. Conoscevo quello che vedevo, e io
vedevo il castello di Windsor. Ero confinato là come un
pestifero contagioso. Nulla doveva nuocermi, nessuno poteva sfiorarmi.
Il mio mondo bianco. I dottori liquefacevano la realtà con
medicine che sapevano di sughero e ferro. Le mie giornate trascorrevano
metà in sogno, metà a letto -ad attendere il prossimo sogno.
Se mi alzavo, lo facevo per percorrere il corridoio e tornare indietro.
I contorni del marmo erano netti e vividi, la luce era come nebbia, mi
impediva di respirare. Chiazze di opalescente candore bucherellavano la
pareti. Le malattie erano ronzii vaghi ed inspiegabili che sospiravano
nelle mie orecchie. Passavano, poi, una alla volta. Io aspettavo e
rigiravo le lenzuola nelle mani. La mia infanzia è
un'esperienza
onirica. Tutti dovevano lavarsi le mani prima e dopo avermi toccato.
Dove abiti? A Windsor
castle. E dov'è Windsor castle? Avevo la lingua
secca. Mi
sembra di essere in una prigione, qui non vi sono gallerie e nemmeno
giardini dove passeggiare. Perlomeno, non per me. Mio
padre non prese in considerazione le mie lamentele. Lì è al
sicuro, lì è in salvo. Lui
si cullava in questa certezza, io dormivo in questa gabbia. Volti
attorno al mio letto, a debita distanza. Alito di medicina. Le dita che
formicolano. La testa che vortica, imbottita di cotone. Qualche passo
fievole, l'immensità mostruosa del pavimento, con le sue
piastrelle acuminate. Mani pronte ad afferrarmi, nel caso in cui
cadessi. Di nuovo il letto, di nuovo il sonno, di nuovo la nausea. Il
mio anno aveva stagioni brevi, dai termini labili.
Nei racconti altrui, Jane Seymour non era solo bella, ma anche gentile,
saggia
ed intelligente. Non mi stupiva che le fosse capitata una disgrazia. A
sentire la sua descrizione ineccepibile, sembrava proprio il capro
espiatorio perfetto per una fiaba. La
regina era bella, gentile, saggia ed intelligente, però... Però
era morta. Se le somigliavo? Sì, ma nel peggio. Era Mary la
bella della famiglia. Io non avevo nel viso l'imperio dei
Tudor, bensì la signorile contea dei Seymour. Non un viso da
re.
Di Henry VIII, Mary aveva la fredda intelligenza, Elisabeth il
fiammante carisma; io niente, io avevo tutta la patetica, bionda
mitezza di mia madre, la sua ingenuità di sole, il suo
mansueto,
innocuo, incorrotto lindore, la sventatezza senza gloria delle anime
quiete.
Mary aveva anche quella fiera bellezza, che -se solo l'avesse
desiderato- le avrebbe offerto il cuore di qualsiasi lord, ma la mania
che le deturpava il viso era quella di Caterina
d'Aragona. Nella madre, quella follia era quiescente, sopita, domata da
un'educazione rigida ed intransigente, impartitale da uomini che
s'erano premurati di cucirle la passione nel cuore, così che
essa
traspariva, insana e ringhiante, soltanto quando la luna si rifletteva
nelle sue iridi offuscate; Mary no, Mary non l'avevano domata,
le
avevano insegnato a giocare, e quello sarebbe stato l'errore fatale
dell'Inghilterra; sapeva schierare le sue pedine con la maestria di
qualsiasi cardinale. Era perseguitata da un furore tragico, che sapevo
paragonare soltanto alle scabre ninfe di Skopas ed alla cera disciolta
delle candele. Un'ombra di scontentezza solcava perennemente quelle
labbra carnose, ad indicare i sintomi di un tormento che non avrebbe
mai saputo risolvere. A me, da bambino, sembrava che portasse
costantemente un severo e dignitoso lutto per qualche
personalità insigne. Quando s'infervorava di rabbia, cosa
che
non accadeva spesso per via del suo tenace autocontrollo, vedevo sul
suo volto la furia di Henry Tudor, la furia che aveva spazzato via
Paesi e forgiato la politica del nostro tempo, la furia che aveva
ucciso tre regine e spanto mari di sangue. Se le avessero dato una
spada, avrebbe saputo uccidere. Un giorno molto lontano da quelli che
sto raccontando, Mary
annunciò radiosa la sua prima gravidanza. In seguito,
scoprì che quello che le cresceva dentro non era un bambino,
ma
un tumore. A quel tempo, io non ero giù più
lì, ad
assistere alla sua rovina.
Elisabeth era diversa. Aveva i capelli fulvi e il viso allungato: della
leggendaria
bellezza di Anne Boleyn non c'era traccia. Aveva l'indole di fuoco di
Henry Tudor, e fin dalla
fanciullezza le istitutrici lo compresero. La sua esuberanza le faceva
apprezzare le scampagnate a briglia sciolta, a cavallo, così
come i ricevimenti di corte, in cui dimostrava la compita
amabilità e la remissiva gentilezza tipiche di una
nobildonna,
una veste che, invece di andarle stretta, le calzava a pennello. Era
versatile come un saltimbanco, con l'eleganza delle trapeziste. Tutti
e tre noi fratelli eravamo così, affezionati, ligi e
diligenti
all'etichetta di corte, e nessuno si lamentò mai delle
infinite
cerimonie e delle cene di famiglia appestate di burocrazia reale.
Eravamo troppo assuefatti a quel clima per immaginare di vivere senza.
Elisabeth, comunque, era di certo quella che prediligeva maggiormente i
giochi all'aria aperta. Mary era troppo introversa, io troppo
indolente: non riuscivamo mai a superarla, quando galoppava davanti a
noi, con quel manto di capelli rossi al vento che non tagliò
mai, dalla morte di nostro padre.
Crescendo, diventando giovinetta, quest'animo ardente le
offuscò
a tratti la via. Più acquisiva malizia, più
fomentava il
desiderio di stemperarla. Invitata a trascorrere del tempo con
Catherine Parr, ultima moglie di nostro padre, come dama di compagnia,
ebbe una tresca con mio zio Thomas Seymour, fratello della mia defunta
madre, un uomo che aveva abbondantemente il doppio della sua
età. Non guardava mai i suoi coetanei, Elisabeth: forse
vedeva
in loro un'immatura adolescenza che lei non percepiva già
più. Ma, nonostante le laide voci che giravano su di lei,
quando
veniva a trovarmi il suo viso era sempre lo stesso, lindo e sorridente,
e non diceva mai di no ad una scampagnata a cavallo. Non dico che fosse
diventata un'anima libertina:
era solo una ragazza a cui piaceva evadere dagli schemi più
delle altre. Comunque fosse, nonostante lei sia stata ricordata in
seguito come la regina
vergine, non potevo dichiararmi d'accordo.
Le mie sorelle mi venivano a trovare più spesso di chiunque.
Cenavano con me, s'interessavano della mia salute e dei miei progressi
nello studio, imbastivano partite a scacchi. Mary era amabile, ma mi
parlava come ad un principe, senza risparmio d'inchini e titoli;
Elizabeth mi prendeva in braccio, mi faceva il solletico e diceva
ch'ero cresciuto come un fungo. Quand'era con me, si dimenticava il suo
ruolo, la sua situazione, le sue battaglie. Acconsentiva sempre a
tornare ragazzina.
Ho conosciuto mio padre quando di lui non rimaneva niente, solo voci di
un'altra epoca che entravano dalla finestra, un tormento sconosciuto
che divorava la sua antica bellezza come i tarli rodono le scarpe dei
poveri. La sua maledizione degenerava con lui. Aveva smesso di
guardarsi allo specchio e chiamarsi per nome. Viveva al buio, diluendo
i ricordi nei boccali di vino, e a volte si dimenticava anche di me.
Non poteva farlo per molto, ero il suo unico erede. Mi abbracciava come
se temesse di mandarmi in pezzi. Preferiva sorridermi da lontano, come
se si considerasse in qualche modo nocivo per la mia persona. Forse era
solo stanco. Forse era solo vecchio. Gli volevo bene, ma era un affetto
torpido, distratto, quello delle libellule per gli stagni. La
profondità che risiedeva in me la dedicai ad altro. Non mi
smarrivo in elucubrazioni mentali, non pensavo troppo a me. Anzi,
tentavo di farlo il meno possibile. Mi immergevo nelle pozzanghere del
giardino, piuttosto, precipitavo nelle fessure del legno. Mi invaghivo
delle piccole cose. Degli scatti con cui i fringuelli voltavano il
capo, dei pori sulla corolla dei funghi ispidi e marroni, dei percorsi
invisibili del muschio in ogni anfratto umido. Passavo ore ad imparare
a memoria le spille delle nobildonne, la forma dei cappelli delle
duchesse, i mantelli dei lord acciambellati per terra come animali
vivi. Ci trovavo un'enciclopedia di significati nascosti, eppure
segretamente chiari. Una parte di me capiva qualcosa che non saprei
spiegare. Per me aveva perfettamente senso. Cercai di rifarlo, in
seguito: affondare nella pelle del tacchino arrosto, nel piumaggio un
po' giallastro dei cigni da allevamento, nell'imbottitura antiquata di
sedie inutili. Ma la vita, ad un certo punto, divenne troppo rumorosa
ed esigente per poterla solo relegare ad una tranquilla scenografia
sopita nella sua rappresentazione. Forse non sono stato un bambino di
acuta intelligenza, ma certo incline alle distrazioni ed ai
vagheggiamenti.
Solo una volta mio padre mi parlò davvero, senza formule,
senza
etichetta, senza il branco dei cortigiani attorno. Aveva bevuto un po'.
Aveva chiesto alla tavolata di lasciarci soli. Io continuavo a
riempirmi il bicchiere d'acqua, per avere qualcosa da fare. Ero
imbarazzato. Mio padre taceva, scuoteva il vino con dispetto.
Sospirava. Infine si raddrizzò contro lo schienale, si
schiarì la voce e bofonchiò: -Edward. Edward,
ascoltami.-
Io mi allungai sulla mia sedia il più possibile, cercando di
carpire le sue parole biascicate fra le labbra.
-Tua madre è morta per darti alla luce. Perciò...
sii sempre degno del suo sacrificio, d'accordo?-
Quella specie di richiesta non riuscì a suonare come una
minaccia, nè come un ordine. Sembrava appena un
tentennamento,
una debolezza. D'accordo?
Avevo annuito più veloce che potevo, mi
scricchiolava tutto il collo. Certo
sua Maestà, naturalmente sua Maestà. A
volte lo sognai anche in futuro. Lui era lì, su quella
poltrona, e mormorava senza posa Edward?
Mi ascolti, Edward? Ascoltami. Morì
pochi mesi dopo. Si dice che furono i suoi spettri ad assisterlo. Avevo
nove anni, e per me quella mattina fu una come tutte le altre. Mangiai
le stesse cose e vestii quasi allo stesso modo. Il fiocco di velluto
nero che portavo appeso al bavero della giacca s'afflosciò
sotto
il peso delle prime gocce di pioggia. La scomparsa di mio padre mi
causò quasi un sollievo, come se non fosse altro che il
termine
d'una lunga agonia. La governante mi sussurrò all'orecchio
che
sarei diventato re, poi mi diede in pasto ai ministri, che mi
sballottarono da una parte all'altra, e al funerale e all'incoronazione
e al banchetto. Avevo nove anni, e l'unica cosa che pensai fu che avrei
potuto tenere la corona in testa. Sembrava divertente. Le mie sorelle
erano in prima fila, a osservarmi con gravità, e io sorrisi
con
agitazione, cercando un conforto. Eppure non riuscivo
mai ad incrociare il loro sguardo. Poi capii che stavano fissando il
trono su cui ero seduto. Una strana sensazione abbrancò la
bocca
del mio stomaco.
Finì il tempo delle malattie. Non ero più la
bambola di
cera sotto una campana di vetro. Cominciarono a vestirmi di granati e
smeraldi, a chiamarmi Maestà, a fiutarmi come cani da
caccia.
Prima non ero nulla, adesso ero la preda. Sembrava che fosse un gioco,
in verità: tutti dovevano fingere di ossequiarmi, di
rispettarmi, di ascoltarmi e riverirmi, dovevano ostentare questo di
facciata, però quando mi voltavo dovevano scombinare
completamente la scacchiera -in un modo così abile che io
non mi
accorgessi nemmeno che qualcosa era cambiato. Io acconsentivo a questa
farsa con rassegnazione ed indifferenza. Gli intrighi di corte non mi
interessavano, e non li capivo. Li
ignoravo, cercando di dimenticare il sordo frastuono del suo alveare,
di
tenermi impegnato in altro. Non mi importava del trono, non mi
importava del regno. Non mi importava nemmeno più di quella
corona ch'ero così ansioso di provare sul capo. Non avevo il
carattere di Henry, la sua ostinazione. Non m'imponevo
mai. Non facevo mai sentire la mia voce. Tacevo. Accondiscendevo.
Stetti sul trono per sei anni, e non fui re neppure per un istante.
Al contrario, l'arte militare
mi affascinava, forse proprio perchè, a causa della mia
debole
costituzione, non avrei mai potuto praticarla. Anche da guardare era
bella. Era potente. Come io non ero. Tutto ciò che era
piaciuto
a mio padre piaceva anche a me. Era un modo per sentirlo più
vicino, per comprenderlo meglio, nonostante le eterne differenze che
ci dividevano.
Elisabeth amava incondizionatamente nostro padre -osannava il suo
ricordo fino a distorcerlo, fino a plasmarlo nella sua mente, a
rifinirlo togliendogli ogni difetto ed elevandolo all'aureo mondo degli
dèi. Mary, invece, provava
per lui una sprezzante deferenza, una cortese disapprovazione, che ho
sempre paragonato ad un conflitto interiore. Il loro rapporto era un
mosaico indistricabile di pozzi neri come il petrolio e stelle di luce
iridescente, anni di disdegno e d'abbandono e anni di sorrisi bonari,
anni di pomeriggi sprecati ad attenderlo invano in stanze vuote, anni
di ricongiungimenti che non sapevano di vittoria, e che comunque non
duravano mai abbastanza a lungo. Non so cosa Henry Tudor provasse
davvero per lei, e non voglio insuperbirmi al punto di pretendere di
poterlo scoprire: nemmeno lui ne aveva idea. La scacciava ed
abbracciava al modo del moto delle nuvole, senz'ordine, con la bocca
amara e gli occhi asciutti. In Elisabeth cercava Anne Boleyn: in Mary
cercava se stesso, un'impresa che non trovò mai il coraggio
di
portare a termine. Entrambe si ripresero in fretta dalla sua morte. Da
allora, ci incontrammo ancora più di frequente. Le mie
sorelle
erano fanciulle estremamente intelligenti, perciò le loro
conversazioni erano perlopiù battibecchi. Che non corresse
buon
sangue, fra loro, era risaputo da un po'. Il dissapore per
motivi religiosi venne più tardi: prima si trattò
di
argomenti disparati, di semplici incomprensioni, di vecchie gelosie.
Era quasi divertente ascoltare l'una ribattere all'altra, ostinate come
muli, con lo charme e l'eleganza di vere principesse inglesi, senza mai
scomporsi o abbandonare il dolce sorriso di convenzione. Mary era
fredda e Elisabeth quasi impertinente, uno spettacolo spassoso per me e
i miei lunghi pomeriggi di noia. Vennero molto dopo i tempi in cui
dovevo urlare per farle smettere di ringhiarsi contro, in cui dovevo
minacciarle di rinchiuderle in prigione tutt'e due se non l'avessero
smessa di minacciarsi a vicenda. Vennero dopo i tempi dell'odio -prima
non ci fu altro che una Mary vagamente benevola seppur intimamente
scostante e una Elisabeth allegra e ciarliera, con la sua irresistibile
ironia, e poi c'ero io. Neppure io rimasi lo stesso. Cambiai.
Poi c'era la questione religiosa. Nella mia mente, associavo il
cattolicesimo al volto triste, rancoroso
ed invecchiato di Caterina d'Aragona, che durante i cortei reali
inveiva contro tutti gli inglesi con la sua voce bassa e rauca ed il
suo idioma svelto e sferzante, ch'era morta sola e consumata in un
castello buio e pieno di spifferi -prima che io nascessi. Nel mio
secolo, cattolicesimo
significava massacri. Quella religione estranea, intrigante e tanto
disprezzata m'ispirava un timore immeritato, eppure intuitivo, che non
mi abbandonò col tempo. Non avrei mai tradito il credo di
mio
padre: questo, almeno questo, glie lo dovevo. Ciò mi
attirò l'antipatia di Mary. Nei primi anni della mia vita si
era
sempre presa cura di me, se ce
n'era stato bisogno, mi parlava e mi carezzava i riccioli con le dita:
quando divenni re, furono le raffinate formalità di corte a
nascondere, come una patina di brina, un ombroso disappunto nei miei
confronti, un'inquietudine che si limitava al fatto che ero un
miscredente, un protestante. Bramava già il trono per
sè?
Non ne avevo idea. Era un sospetto troppo ignobile perchè
accettassi di prenderlo in considerazione. Mary non era ambiziosa
quanto Elisabeth, però la vita l'aveva costretta, per
legittima
difesa, a diventare calcolatrice. Guardava le persone come pedine,
senza volto nè identità, così come le
persone
avevano guardato lei quand'era bambina. La scelta che feci mi
costò la sua amicizia. Lo ritenni un peccato. Inutile
chiedersi
se, decidendo diversamente, avrei potuto cambiare il corso degli
eventi. Quel che si sa è solo quel che è stato.
Il resto
ha la consistenza dei miei deliri febbrili.
Si chiamava Jane Grey. Aveva solo nove anni quando la vidi la prima
volta, io appena uno di meno. Catherine Parr, ultima moglie di mio
padre, l'aveva invitata a corte come dama di compagnia. Non so se
l'amavo. Mi piaceva il suo dolce riserbo, il suo modo
di ridere. Magari mi affascinava l'omonimia con mia madre. Ero ancora
troppo piccolo. A pranzo, mi scordavo di mangiare per starla a
guardare, tanto che la governante doveva picchiettare ferocemente sulla
mia spalla per farmi tornare in me. Quando i nostri sguardi
s'incrociavano, Jane arrossiva tutta e mi salutava con la mano. Io
andavo a dormire ridendo. Il suo sorriso mi faceva contento. Era una
bambina schiva, si nascondeva volentieri dove nessuno poteva trovarla.
Ci assomigliavamo, sotto certi punti di vista. Al contrario di me,
quando i maestri parlavano Jane pendeva dalle loro labbra.
Scribacchiava appunti con una concentrazione che le aggrottava tutta la
fronte, china sul foglio, con la schiena storta. Ascoltava lezioni di
matematica e greco come fossero favole. Un giorno le scivolò
di
mano la piuma da scrivere, e con il cuore in gola mi accorsi ch'era la
mia occasione. Mi abbassai sulle ginocchia più velocemente
di
quanto avessi mai fatto e la raccolsi. Jane, dall'alto della sedia,
seguiva i miei movimenti con stupore. Quando le porsi la piuma, insieme
a qualche parola accatastata all'ultimo momento, questadev'esserevostramialady, mi
fece dono della sua gratitudine senza remore.
-Siete molto gentile, vostra grazia.-
Avvampai come se fosse la prima volta che qualcuno mi chiamava
così. Quel titolo, sulle sue labbra, assumeva un nuovo
significato, un nuovo sapore, una nuova grandezza. L'anno successivo
ero re. Jane si trasferì a Whitehall, insieme a Catherine
Parr,
e lì studiava insieme a Mary ed Elizabeth. Con il pretesto
di
andare a trovare le mie cugine, mi ci recavo non appena gli impegni
reali me lo concedevano. Crescendo Jane si faceva davvero bella. Aveva
lunghi, esili riccioli ramati, avvitati su se stessi, una bocca piccola
e un collo sottile. Gli occhi erano azzurri, penetranti e molto
espressivi, con la tendenza ad inumidirsi spesso. Il petto era
lattescente, le mani rosate. Il purpureo velo di pudore, discrezione e
discernimento che la schermava la rendeva ancora più
graziosa.
In mezzo alle mie sorelle, alle sue dame di compagnia, sembrava
appartenere ad un'altra specie. Non avevamo molto tempo per vederci,
comunque, e quasi mai eravamo soli. Spesso accampavamo come pretesto
quello di ripetere una lezione particolarmente difficile. Lei si
prendeva gioco della mia pronuncia, che di italiano aveva solo
l'intento; ed io non riuscivo ad offendermi, quasi abbacinato dalla
strana magia della sua persona. Sorrideva con una grazia
così
fluida, che la linea tenera delle labbra pareva essere stata disegnata
per incurvarsi a quel modo così morbido, melodioso e allo
stesso
tempo confidenziale e modesto: un modo in cui le mie sorelle non
avrebbero mai sorriso. In cui nessuna ragazza al mondo avrebbe sorriso.
Le si formavano due fossette nelle guance, quando lo faceva. Amava
leggere opere erudite, più di qualsiasi altra cosa. Era sia
colta che intelligente, però non faceva notare al suo
ascoltatore nessuna delle due cose, e non risultava mai noiosa o
saccente o arrogante. Spesso si rincantucciava agli angoli
in compagnia di un buon libro, la testa piegata
all'ingiù,
la copertina premuta sulle ginocchia. Avrei potuto rimirarla in eterno,
ma dopo due minuti lei sollevava la testa di scatto, allarmata, come se
avesse udito una voce chiamarla, e sorrideva imbarazzata, quasi fosse
stata colta in flagrante nel compiere qualcosa di proibito. Scambiavamo
poche parole, eppure mi sembrava di conoscerla meglio di chiunque
altro. Condividevamo qualcosa di intimo ed inespresso, a cui non sapevo
dare un nome.
Jane aveva ormai undici anni quando mio zio Thomas
Seymour mi sussurrò all'orecchio: ho chiesto ai genitori la sua
tutela, e me l'hanno accordata. Presto sarà tua moglie.
Quelle parole mi schiusero le labbra dalla meraviglia. L'idea di
sposarla mi appariva terribilmente giusta
-perchè questo è quello che un marito dovrebbe
sentire
per la propria moglie- eppure aliena, come un desiderio che si esprime
guardando le stelle cadenti, qualcosa di irriconducibile alla
realtà. La prima volta che rividi Jane dopo quella
rivelazione,
fu strano. Lei bisbigliò prometto che vi darò
molti figli, sani e maschi. Io ero sbalordito, e parlai
avventatamente, senza nemmeno calibrare la frase, senza pensare.
-Anche delle figlie andranno benissimo. Sicuramente sarebbero belle e
delicate come voi.-
Furono mesi fatti di nuvola. Mi svegliavo canticchiando e attendevo con
un sorriso raggiante che la giornata trascorresse. Io e Jane
parlottavamo di nascosto, pianificavamo i nomi dei futuri principini.
Un piccolo Henry, pensavamo, e una piccola Margaret. Intrecciavamo le
dita sotto il tavolo da pranzo. Facevamo lunghe passeggiate in
giardino, chiacchierando senza sosta; lei prediligeva i temi
filosofici, e io adoravo parlare di tutti i posti che non avevo mai
visto, ma che avrei tanto voluto visitare. Per spiegarle questa mia
passione, posavo un dito sul mappamondo nello studio e lo facevo
roteare vorticosamente, indicando questo o quel frammento di terra
sconosciuta, con scritto sopra, a minute lettere cubitali, Africa, Cina, Australia.
-Pensa quanto grande è l'universo e quanto poco
ne
abbiamo visto, pensa quante persone esistono e quanto poche ne abbiamo
conosciute. Ovunque qua ci sono foreste, deserti, città che
non
compaiono nemmeno negli atlanti. Che non possiamo nemmeno immaginare...
Vorrei esplorare tutto. Vorrei fare tutto mio. Essere cittadino del
mondo intero.-
Jane ascoltava con gli occhi che brillavano. E ci
piaceva andare a teatro, anche. Una volta diedi scandalo. Stavamo
assistendo ad una rappresentazione, e Jane allungò una mano
sfiorando la mia. Quando poi chinò appena la testa per
posarla
sulla mia spalla -mentre
il cuore minacciava semplicemente di esplodermi- le
guardie reali scattarono, combinarono un gran trambusto, fecero
accendere tutte le luci, interrompere lo spettacolo. Avevano visto dei
movimenti sospetti e pensavano volesse uccidermi. Tutto quello che
videro furono le nostre mani intrecciate, le nostre guance paonazze e
il mio fiato corto. Elizabeth mi prese in giro in eterno. Da allora,
raccontava questa storia a tutti gli ospiti in visita, terminandola con
un -... vostra grazia stava solo approfittando del favore delle tenebre
per divertirsi un po'.- Udendola spifferare la vicenda, provavo allo
stesso tempo una gran voglia di ucciderla e un caloroso moto d'affetto.
A Mary, Jane non stava simpatica, ma nemmeno l'odiava. Spesso avevano
dei
dibattiti religiosi: in quelle occasioni, Jane dimostrava una grinta
che non avrei mai immaginato celasse in quel corpicino gracile. Teneva
testa a Mary in maniera ammirevole, al punto che mia sorella le fece
addirittura i complimenti per la sua cultura -a denti stretti,
perchè era pur sempre una miscredente, ai suoi occhi.
Quando avevo tredici anni, mi fecero un ritratto. Il ragazzino della
tela non era nè biondo, nè riccio: aveva radi
capelli bruni e corti. Piccole
modifiche atte a farmi sembrare più simile a
mio padre. Il viso era pallido e smunto, con un mento pronunciato e
un'espressione come impaurita. Mi augurai fortemente di non essere
così brutto.
-Che ve ne pare?- domandai affabilmente, sedendomi sul divano accanto
ad Elisabeth, ed esaminando a mia volta il dipinto con aria critica.
Era strano pensare che quella, così nuova ed estranea ed
inconsapevole di me, era l'unica cosa che sarebbe sopravvissuta della
mia esistenza; che i posteri, un giorno, avrebbero guardato
quell'immagine e avrebbero detto lui
era così. Non sapevo se l'idea mi piacesse.
Mary aveva inarcato le sopracciglia, con sussiego.
-Vi fa apparire giovane, Vostra Maestà, troppo giovane.
Infantile, quasi.-
-Ma Vostra Maestà è ancora un bambino. Non
c'è niente di male se lo sembra.- sogghignò
Elisabeth.
-Non c'è niente di male ad essere giovani.- le feci eco io.
-Anzi, magari fosse possibile rimanere così oltre il tempo
prestabilito. Saremmo tutti un po' più felici.-
Ad ogni modo, il ritratto fu tenuto. Non c'era modo di chiederne uno
più rassomigliante.
Mi ero accorto di una cosa orribile, inoltre. Capitò che la
scollatura d'un vestito di Jane, per caso, se ella si piegava in un
certo modo, non riuscisse a coprire un grosso livido bluastro.
Ciò mi turbò un po', perchè somigliava
tanto agli
ematomi che Elizabeth si procurava a cavallo, però non le
chiesi
nulla. Avrei dimostrato molta impertinenza, sarebbe stato come
ammettere di aver sbirciato sotto al suo abito. Qualche tempo
più tardi, vidi un grosso segno nero contornato di giallo
sul
suo polso. Questa volta domandai, con noncuranza, come se lo fosse
procurato. La vidi impallidire, e compresi che qualcosa non andava. Ci
vollero diversi giorni prima che confessasse. Sua madre, lady Frances
Brandon, la picchiava. Picchiava quell'indifesa, fragile creatura che
si rifugiava nei libri. Picchiava quella ragazzina dai riccioli di rame
e gli occhi sempre umidi. Per la prima volta nella mia vita, mi sentii
davvero infuriato. Questo
non succederà più quando saremo sposati,
le promettevo con foga. Se
oserà metterti ancora le mani addosso, la farò
arrestare.
Ma quel quando non si realizzò mai. Un anno
più
tardi Thomas Seymour fu arrestato con l'accusa di tradimento e le sue
trame andarono in fumo. Jane tornò sotto la tutela dei
genitori,
e tremavo al pensiero di cosa potessero farle quei vermi.
Cominciò l'incubo. Cercai di parlare con John Dudley, mio
nuovo
consigliere. Ci doveva essere un modo per rimettere le cose a posto. Ero il re, no? Potevo decidere
io. Fu la prima volta che mi trovai a pensarlo, e anche
l'ultima.
-Tu sposai la figlia di un re scandinavo, Edward.- mi rispose
Dudley, con una rudezza quasi annoiata. Quando la mia vita diventava
storia, allora sì che non
erano solo affari miei.
L'aria nella mia bocca diventò sabbia. Spesso le figlie del
re
di Danimarca, Svezia e Norvegia erano giunte in visita: fanciulle dal
viso di neve, gli occhi azzurri e pungenti come il sole del Nord e
piatti capelli di platino strizzati in trecce rigorose come leggi, che
a malapena rivolgevano sguardi scontrosi nella mia direzione, per poi
accostarsi di più fra loro e borbottare nei loro arcani
dialetti
dalle vocali spietate e il suono tagliente. All'idea di prendere in
moglie una di loro, sentii le ginocchia vacillare dal panico. O Jane o
nessuna, dissi a Dudley.
-Queste sono beghe infantili.- ribattè. -Non
permetterò che il regno vada di nuovo in rovina per una
donna.-
Pensava a Henry, dicendo queste parole, vedeva Anne Boleyn con la
corona in capo e la pozza di sangue sempre più vasta. Io mi
sentivo folle. Se
l'Inghilterra deve bruciare affinchè io possa sposare Jane,
l'Inghilterra brucerà. Mi sentivo capace di
qualsiasi cosa. Avevo paura di me.
In quei giorni, non riuscii a pensare ad altro. La volevo mia, era
un'ossessione che mi tormentava dall'alba a mezzanotte, che mi sbarrava
gli occhi nel buio. Il fermento incandescente, inesploso
dell'adolescenza si mischiava ai primi sintomi della mia ultima
malattia. Alle feste, la testa che follemente girava, la stringevo a me
con gelosia, le sfioravo il collo con le labbra, e sentivo l'incendio
nella carne. La corte sparlava, io udivo solo la mia pira ruggire nelle
orecchie.
Jane amava i libri da sempre, ma solo un giorno trovai il coraggio di
chiederle cosa leggesse.
-È un'opera di filosofia greca di nome Fedone.-
spiegò. -Parla
di un uomo che trascorre la sua ultima giornata di vita e riflette su
ciò che lo
aspetta.-
-Sembra bello,- mormorai, -e
triste.-
-Cosa ne sarà di noi,
Edward?-
Era la prima volta che mi chiamava così, ed io
rabbrividii.
-Non tutto è perduto, lady Jane.-
Non rispose. Volevo asciugare la sua malinconia con un fazzoletto da
taschino, volevo risolvere i suoi guai con le mie stesse mani,
scacciare i suoi spettri e proteggere il suo sonno. Vederla soffrire e
non poterla consolare mi mandava in bestia. Ero sempre più
malato, sempre più arrabbiato, consumavo le giornate a morsi
e
le inghiottivo boccheggiando, esaurivo le mie forze gridando come non
avevo mai fatto, pestando i piedi e sputando per terra, percuotendo il
marmo e alzando le tasse. Jane stava male, io stavo male, il mondo
tremava.
Ad un certo punto, mi guardai allo specchio e sussultai. Cosa stavo
facendo? Ricadevo negli errori dei miei avi, come nelle leggende
moraleggianti dei preti. Avevo cominciato a pensare a Jane come ad un
possesso, a tentare unicamente d'appagare la mia volontà,
cancellando il mondo intero, zittendo la ragione. Io non ero Henry,
anche se per qualche tempo il sangue mi aveva offuscato lo sguardo.
Guardai la realtà con occhi d'estraneo e appresi tutto in un
attimo. La verità franò irreparabile sotto i miei
piedi.
Stavo deviando dal sentiero sterrato per inerpicarmi su rocce scoscese,
in attesa di precipitare, stavo commettendo imprudenze giovanili. Ma fu
John Dudley a risolvere il quesito, a capitolare e far tornare tutti i
conti, a spegnere ogni spietata speranza.
-Tu stai morendo, Edward.- mi disse, senza un pizzico di
commiserazione. -Che futuro darai a Jane? Vuoi renderla vedova a tre
mesi dal matrimonio? Vuoi piantarle in pancia un bambino che
soffocheranno nella culla? Risparmiale tutta questa sofferenza, lo dico
per voi.-
Chiusi gli occhi. Era vero. Era tutto vero. Nel vortice della mia
passione egoista avevo perso di vista la priorità, il bene
di
Jane. Così vero che non
riuscivo a credere in cosa la mia vita si fosse trasformata, da banale,
noiosa quotidianità scandita da riti e abitudini a questo.
Quando capii di stare rinunciando a Jane, mi sentii come se il mio
cuore annaspasse nella cenere. Era la cosa migliore da fare. Era la
cosa migliore, ma quelle erano parole e non mi impedirono di piangere.
Sposò un altro, Jane Grey. I suoi genitori avevano fretta di
trovarle marito. Dudley propose un matrimonio fra lei e suo figlio,
Guilford, e io non trovai nulla da ridire. Lo conoscevo vagamente, un
ragazzo tranquillo e insicuro di sè, che non beveva e non
frequentava le taverne, un tipo a posto. Un uomo che non l'avrebbe mai
picchiata. In compenso, ci pensò sempre sua madre.
Poco prima che andasse all'altare, gli sussurrai: -Abbi cura di lei.
È la cosa più preziosa della mia vita.- Mi
lanciò
un'occhiata atterrita, forse temeva rivalse da parte mia.
Eppure, a Jane non andava per nulla bene. Vestì l'abito
bianco,
partecipò alla cerimonia, tacque per tutto il tempo e
schiuse le
labbra solo per dire sì, ma quella sera si fece scortare
dalle
sue damigelle in un'altra stanza e dormì sola, involta fra
le
lenzuola, barricata fra le coperte. E così fece per molte
altre
notti che seguirono. Ogni giorno tornava a corte, da me, a implorarmi
di annullare quel matrimonio.
Mi si spezzava il
cuore, eppure mi costringevo ad essere forte per lei. Volevo esserle di
conforto, non devastarla ulteriormente. Non avrebbe mai visto il mio
dolore, la mia amarezza, decisi. Per cui sorrisi, saldo, imperterrito.
Doveva farlo, le ripetevo, era suo dovere. Era fortunata a stare con
uno come Guilford, che pazientava e rispettava il suo volere. Un altro,
più vecchio e più presuntuoso, l'avrebbe buttata
per
terra e le avrebbe aperto le gambe senza troppi complimenti. Anche se
adesso non le sembrava così, in realtà lei voleva
questo
-un matrimonio conveniente con un esponente d'alto rango, un marito,
dei figli- e, se ora vi avesse rinunciato, in futuro se ne sarebbe
pentita. Il mio tempo era quasi scaduto, in fondo. Ma Jane
dava sempre la stessa risposta, con la neutralità vitrea
d'una
sfinge.
-No, non voglio.- No,
non voglio, ogni
sera lo diceva, forte d'un rinnovato coraggio che non sapevo dove
trovasse. Ed ogni mattina sua madre la veniva a trovare, per
controllare, e ogni mattina Jane aveva un livido nuovo. Stava
diventando una
sagoma ritorta su se stessa, il viso sempre più gonfio e
viola,
l'espressione della bocca sempre più inasprita. Io morivo
giornalmente,
come lei. Arrivai a supplicarla, a piangere.
-Ti prego, Jane, basta.
Fallo. Fa' quello che vogliono. Smettila di opporti. Quella donna ti
ucciderà.- A gettarmi ai suoi piedi affinchè si
concedesse ad un altro
uomo. Mi chiedevo se quel dolore un giorno avrebbe avuto fine, e non
capivo come
avrebbe
potuto. Jane e Guilford consumarono il matrimonio un mese dopo
le nozze. Tirai un sospiro di sollievo, perchè significava
che i
suoi lividi avrebbero potuto cominciare a guarire. Jane piangeva in
silenzio. La sua sofferenza mi faceva impazzire, mi sarei volentieri
roso le falangi con i denti.
La mia malattia peggiorò progressivamente, giorno per
giorno. I
medici diagnosticarono tubercolosi, e ormai passavo le mie giornate a
letto, di nuovo tornato a quello stadio infantile e tanto assuefante
-consapevolezza ed incoscienza intermittenti, senza troppa differenza
fra uno stadio e l'altro. Jane, quando le era possibile, veniva a
leggermi qualcosa: aveva degli orari da rispettare, era una donna
sposata, ora. Se anche prese atto della gravità delle mie
condizioni -e sicuramente era così, perchè lei
era
un'osservatrice acuta- non lo diede a vedere. Sfogliava quei suoi libri
di filosofia. Nemmeno una parola mi raggiungeva, però mi
beavo
ascoltando la melodia della sua voce e ciò bastava a
condurmi in
un sogno senza dolore. Un giorno, sul punto di andarsene, mi uccise.
Fece così: si alzò dalla seggiola dov'era seduta,
strinse
il libro in grembo, si chinò vicino al mio orecchio e
sussurrò: Ti
stai rimettendo. Domani starai molto meglio. Avrei voluto
piangere, ma ero disidratato. Finsi di dormire per non urlare.
Incombette il momento di dettare
il testamento. Non ci avevo nemmeno pensato, con tutto quello ch'era
successo. De iure,
non c'erano dubbi su chi avrebbe dovuto succedermi... L'immagine della
corona foderata di velluto rosso adagiata sui riccioli di Mary Tudor mi
faceva accapponare la pelle. Era una fanciulla colta ed intelligente,
ma io sapevo fino a che punto perdesse la testa quando si trattava di
religione. Per diffondere la propria fede, era disposta a qualsiasi
follia -e non mi sentivo nemmeno in diritto di giudicarla. Certo, Mary
avrebbe dovuto diventare regina. Però... Il re ero ancora
io.
Non per molto, ma per un tempo sufficiente a nominare chi mi pareva
adeguato. A fare la scelta migliore per il regno. Mary lo era?
No, l'Inghilterra aveva bisogno d'una regina gentile, dal sorriso senza
spigoli, dalla fanciullezza sulle gote. D'una regina che il popolo non
si vergognasse d'amare. L'immagine che venne proiettata nella mia mente
ottenebrata dalla febbre fu inesplicabile: e, nei miei sogni imbrattati
di rosso, dai margini malcerti, il viso di Jane si sovrapponeva
confusamente a quello del quadro di mia madre, senza che riuscissi
più a distinguerne i lineamenti. Il germe di quell'assurdo
pensiero ormai era stato inoculato nel mio cuore, che prese a battere
più freneticamente. Jane era mia cugina, nipote della
sorella di
Henry, e il sangue nelle sue vene era in parte Tudor -un sangue che non
perdona. Aveva ricevuto una formazione classica di tutto rispetto e
aveva studiato il latino, il greco, l'ebraico e l'italiano. Era dolce,
ma allo stesso tempo forte, lo aveva dimostrato più volte;
sarebbe stata magnanima, però allo stesso tempo capace di
farsi
rispettare. Aveva il sorriso gentile delle benefattrici e la saggezza
di una donna molto più vecchia. Magari Jane non avrebbe
potuto
essere la mia
regina... però ciò non escludeva che potesse
essere semplicemente la
regina.
L'idea mi folgorò come un ultimo ardore di
gioventù. Lasciare
in eredità a Jane il dono più grandioso che si
possa mai offrire...
Il mio cuore, così debole e stremato, era cosa da poco. Lei
meritava di meglio. Mi sentii invadere da un'inaspettata energia
positiva. Tutti
cercavano di
confondermi, di approfittarsi della mia inesperienza, di propinarmi il
loro tornaconto personale in veste di consiglio, ma quella era la mia
storia. E io la potevo
cambiare.
Quando lo rivelai a Dudley, lui sospirò faticosamente.
Infine mi guardò.
-Perchè la vuoi sul trono?-
La voce mi uscì dalle labbra forte e chiara, come non mai.
-Perchè la amo.-
-Se la ami, non dovresti volerla sul trono.-
Non l'ascoltai. I giovani non ascoltano mai, ed io ero giovane
-giovane, infatuato e moribondo. Il destino non mi perdonò
nessuna di queste condizioni.
Non potevo permettermi di morire prima di portare a temine questo
progetto, e non avevo tempo da perdere. La fronte
paonazza grondava sudore al punto che, se non vi avessi
premuto
una pezza, avrebbe infradiciato il foglio, e io intinsi la piuma
nell'inchiostro con mano tremante per lo sforzo. Tracciai di mio pugno
il testamento che cedeva l'Inghilterra a Jane Grey, posi in fondo la
mia firma e rimasi ad ammirare il mio operato. Con un po' di fortuna,
quello sarebbe stato il gesto più significativo che io
avessi
mai compiuto per il regno, e per questo mi avrebbero ricordato, per
aver trasmesso il trono alla grande regina Jane. Amarla sarebbe stato
il motivo della mia piccola gloria personale. Quel pensiero mi rendeva
felice.
Due giorni prima di morire, la feci chiamare nei miei appartamenti.
Jane entrò nella camera, e le fu sufficiente rivolgermi uno
sguardo insospettito per comprendere il perchè della sua
convocazione. Giacevo su un letto dalle coperte rosse come il sangue e
su un guanciale bianco come la neve. Ero così gracile e
debilitato da sparire fra le coperte, che sembravano avermi
inghiottito. Il mio viso era rigato dal sudore, i boccoli umidi erano
incollati alle tempie e puzzavo già di
morte. Jane invece era bellissima, con una reticella per capelli
d'argento tempestata di ametiste nere, con un corsetto di damascata
sera azzurra.
-Edward, dimmi che non è vero.-
Scossi debolmente il capo, ma non per negare l'evidenza, come lei
avrebbe desiderato. Non era su questo che volevo ci soffermassimo a
discutere.
-Adesso devi solo ascoltarmi fino alla fine. Mi hanno chiesto di
eleggere il mio successore, e l'ho fatto.-
Jane si morse il labbro inferiore, inspirando per ricacciare indietro
le lacrime. -Mary o Elizabeth?-
Le sorrisi amabilmente, giulivo. -Hai un portamento così
fiero,
un capo così nobile. La corona ti starà
d'incanto. È un
peccato che non possa esserci per vederti.-
Osservai la sua reazione, il suo progressivo orrore, mentre recepiva
sconvolta le mie parole.
-Oh, no. Scordatelo.-
-Ho già preso la mia decisione.- la interruppi con calma e
fermezza.
Era indignata, quasi indispettita. -Non puoi farlo.-
-Come no? L'ho già fatto.- Indicai con un cenno la pergamena
sigillata con la ceralacca reale, e lei seguì il movimento
con
lo sguardo, devastata.
-Devi bruciarlo immediatamente.- sibilò. Gli occhi le si
offuscarono, e la patina si sciolse in grosse lacrime rade. -Non posso,
Edward. Non posso. Quello sei tu, non io. Tu sei il re...-
-Per poche ore ancora. Poi lo farai tu al posto mio. Così
sarà come se lo facessimo insieme.-
Continuava a scuotere la testa, automaticamente.
-È Mary la tua legittima erede. E se lei non ti va a genio
perchè è cattolica, nomina Elizabeth.-
-Tu sei l'unica di cui io mi fidi veramente. Il nostro regno ha bisogno
di te... Promettimi che lo farai per me, Jane. Promettimi che ti
prenderai cura dell'Inghilterra, quando io non ci sarò
più.-
-Come posso prometterlo?-
-Non avrei mai preso questa decisione, se avessi pensato che non ne sei
in grado. Jane, scusa, vorrei chiederti una cosa. Volevo chiederti se... se tu
mi potessi... baciare.-
Rimase per qualche istante attonita, come se la situazione le apparisse
ancora più irreale di quanto non lo fosse già,
infine scoppiò in una risata disperata ma piena di gusto.
-Oh, Edward,- biascicò quando riuscì a darsi un
contegno. -È una richiesta così... fuori luogo!-
Distolsi lo sguardo, mortificato. L'eventualità che lei
rifiutasse nella mia mente non l'avevo mai calcolata. -Perdonami per la
mia sfacciataggine. Non avrei-
-Beh, allora lo farò, o almeno se non entrerà uno
stuolo di soldati puntandomi la spada alla gola, perchè ti
sto soffocando.-
La mia risata flebile s'unì alla sua. Mi guardò
negli occhi, e per qualche secondo mi mancò il coraggio.
Avvertivo le ossa sciogliersi e il cervello scottare. Andavo per i
sedici anni, e non avevo mai toccato una ragazza. Alla stessa
età, mio padre si dava alla pazza gioia con tutte le
fanciulle più graziose di corte; se soltanto l'avessi
ordinato, avrei potuto cambiarne dieci per notte. Ma non volevo. Non mi
piaceva svelarmi agli altri, condividere cose importanti con persone
che non lo erano altrettanto. Davo valore a ciò che per un
re, che per un uomo è fin troppo facile ottenere.
Ciò che è gratuito non ha mai valore. Il sesso si
vendeva, si comprava, era conio nelle ombre dei sotterfugi di corte, in
un vile baratto di cuori e corpi. Era uno scempio che mi disgustava.
Una ragazza che non fosse Jane non mi avrebbe dato nulla. Come le mie
sorelle, nascondevo ciò che ero agli occhi del mondo, nella
speranza che così la mia natura più intima e
recondita non venisse mai profanata dalla crudeltà di un
ruolo irrevocabile. Ma, tralasciando tutta questa strappalacrime e
artificiosa retorica, in due parole ero imbranato.
Non sapevo nemmeno da che parte iniziare, ma Jane fu paziente. Con una
mano mi
sollevò la nuca intrisa di sudore dal cuscino; aveva un
marito, e le sue labbra non esitarono nello sfiorare le mie. Erano
lisce e gonfie come lamponi. Il sangue mi schizzò alla
testa, insieme a mille impulsi selvatici di cui ignoravo
l'esistenza. Fu il primo e l'ultimo bacio che diedi nella mia vita.
Casto, lieve, a causa mia persino goffo. Un bacio da bambini.
Sorrisi piano e tossicchiai. -Platone... cosa dice che
succederà alla mia anima?-
Lei rispose al sorriso fra le lacrime, che mi cadevano sulle guance
come stille di pioggia. -Che salirà all'Iperuranio e
contemplerà il Bene e Bello per l'eternità.-
Una prospettiva confortante. -Ed è vero?-
-Solo se ci credi.- Jane mi carezzò i capelli bagnati,
premendo la fronte sulla mia. -Portami via con te.-
bisbigliò impercettibilmente contro la mia bocca.
L'idea mi fece venire freddo. O forse era la tubercolosi. O forse il
veleno che presumibilmente mi era stato somministrato.
-Non se ne parla. Tu devi vivere. Tu devi regnare.-
Strinsi fra le dita per l'ultima volta un ricciolo della sua superba
chioma di rame, trassi a me con tutte le forze che mi restavano il
profumo del suo collo d'alabastro. Poi le dissi addio.
-Sorridimi, Jane. Sorridimi.- mormorai. Quello che vidi era il suo
sorriso più triste, però erano comparse quelle
fossette, e mi sentii in pace con me stesso come l'estrema unzione non
mi avrebbe mai fatto sentire. Uscì dalla stanza con
discrezione, chiudendo piano la porta. Il rumore della maniglia che
cigolava fu l'ultima cosa che afferrai di lei, l'ultimo segno della sua
esistenza, e mi tuonò in testa per ore. Le avevo strappato
un bacio ed un sorriso, e l'avevo mandata via, ad attendere d'essere
incoronata.
La verità è che non intuii la verità
in tempo. Non capii, non volli capire. Non potei capire. Non potei immaginare.
Elisabeth venne a trovarmi quando ormai non ricordavo più
nemmeno il mio nome. La consunzione masticava il mio corpo da dentro,
per mesi l'aveva fatto. Il logorio delle funzioni vitali che si
spengono impegnava tutta la mia attenzione. Aprivo e chiudevo la bocca
senza dire nulla, mi sporcavo il mento di rivoli di sangue. Quel che
restava della mia famiglia mi fissava contrita. Elisabeth aveva perso
la grazia dopo i vent'anni, le ossa sporgevano contundenti dal viso
lungo e dalle braccia bianche. I capelli s'erano fatti stopposi
anzichè ricci. Avrebbe avuto lo stesso una miriade di
pretendenti, se solo non avesse amato l'indipendenza e non avesse
scoperto d'essere sterile.
-Edward, ma cosa hai fatto?- Non mi giunse gli significato delle sue
tristi parole. Cercai di sorriderle, ma riuscii solo a stirare una
smorfia rossastra. Forse lei provava pietà per quel
fratellino con cui aveva trascorso i pomeriggi, correndo e giocando;
forse se n'era dimenticata. Il
re malaticcio si leva dai piedi. Non voglio sapere s'era
questo che pensava. Mary non venne. Se anche l'avesse fatto, non
l'avrei ricevuta. Mi avrebbe squartato con le sue stesse unghie, e io
volevo morire in completo rilassamento.
Avrei dovuto aspettarmelo, fui sciocco proprio come un ragazzino di
quindici anni. Il mio testamento dimostrava che della corte inglese non
avevo capito assolutamente niente. Come potevo davvero credere che
fosse una persona a salire sul trono? Vi saliva un nome, un rango, un
sesso, un prestigio, una medaglia, una fama, un patrimonio. Un
involucro di opinioni e titoli. Quando mai a farlo era una persona?
Quando mai Jane avrebbe potuto esprimere la sua intelligenza o la sua
benevolenza? Quando mai le sarebbe stata data
un'opportunità? Il mio decreto era vento, foglie secche,
carta straccia. Una volta morto, non avrei potuto recriminare nulla.
Una volta morto, tutto quello che mi riguardava crollava
nell'insignificante. E così Jane. In fondo tutte le fiabe
iniziano così, no? La
regina era bella, gentile, saggia ed intelligente. Però...
In seguito, la chiamarono Jane Dei Nove Giorni. Nove giorni. Questa
fu precisamente la durata del suo regno. Radunato un esercito di
alleati cattolici, Mary marciò su Londra. La tennero per
otto mesi prigioniera in una torre, poi me la uccisero decapitandola,
sullo stesso patibolo dov'era morta Anne Boleyn, Catherine Howard,
Thomas Cromwell e tutte le vittime innocenti colpevoli d'essersi
imbattute in mio padre. Jane aveva la colpa d'essersi imbattuta in me.
Forse io e Henry non fummo poi così diversi come pensavo,
entrambi condannati dalla maledizione dei Tudor -rigettare tutto il
male che il mondo vuole farci contro coloro che amiamo. Jane chiese al
boia, con affettata cortesia, di fare in fretta, se era possibile.
Pianse perchè, con gli occhi bendati, non sapeva dove
appoggiare la testa per farsela staccare dal collo. Devo
averle trasmesso la sentenza letale baciandola. Probabilmente la
persona che durante la vita di Jane le causò meno dolore fu
quella che l'aiutò a morire. Giustiziarono lei,
suo marito e suo padre. Mary era molto rattristata
dall'accaduto, ma in fondo quelli erano miscredenti e traditori, no? La
madre si risposò due settimane dopo la decapitazione dei
familiari. Edward, ma
cosa hai fatto?
Mary si sposò con Filippo II, re di Spagna, ma
-nonostante il suo femminile servilismo, nonostante la sua commovente
dedizione- le donne di potere non sono destinate ad essere brave mogli.
Lui la trattò sempre con grande freddezza, e l'astio si
accentuò con il passare del tempo, poichè Mary
non gli aveva dato figli. Lei morì presto, il suo regno fu
ancora più breve del mio. Elizabeth passò alla
storia, com'era giusto che fosse. Se
non potrò mai essere madre, saranno tutti i cittadini
dell'Inghilterra i miei figli. Di me è rimasto
un ritratto in cui sembro
infantile, quasi. Di Jane è rimasto un fregio
nella Supreme Court di Londra, la ritrae mentre sorride a quella corona
che le fecero accettare a suon di schiaffi. Di noi non
è rimasto niente. Del mio delitto, della sua paura, della
nostra storia. Niente, niente di niente. A volte ad Elizabeth, quando
si sveglia scuotendosi di dosso brandelli di ricordi, in cui compaiono
un adolescente efebico dai riccioli biondi e una ragazzina che
singhiozza su un patibolo lordo di sangue, pare che sia stato solo un
sogno. Ma, nel centro della sala dei ricevimenti di corte, quei due
stessi bambini ballano ancora con le palme delle mani congiunte, al
ritmo d'un coro di flauti dolci -trovando sottovoce un compresso sui
nomi dei loro figli.
Note dell'Autrice: E questo è tutto. u.u Immagino che pochi
lettori abbiano sentito parlare di Edward. Nei libri di storia si
studia Elisabeth, a volte Mary viene nominata, ma lui è
proprio snobbato, perchè dal punto di vista storico non ha
fatto nulla di eccezionale. Però è stato re, ha
avuto una vita, dei sogni e delle speranze -a cui io ho cercato di dare
un'interpretazione personale. Era un ragazzino, insomma, sulle cui
spalle gravavano fin dall'infanzia grandi aspettative e la cui salute
era sempre cagionevole.
La relazione con Jane Grey è una mia elucubrazione mentale,
un mio headcanon XD Per il resto, ho cercato di attenermi il
più possibile alle informazioni che mi sono procurata
sull'argomento, tenendo conto che nessuna ricostruzione storica
potrà mai ricreare con assoluta fedeltà la
realtà dei fatti. Nessuno dei personaggi è di
fantasia.
Spero di avere reso un po' di giustizia a figure trascurate come quelle
di Jane ed Edward, perchè questo era il mio scopo. Sarei
molto felice di sapere cosa ne pensate sull'argomento in generale, e
sulla mia storia in particolare.
Grazie mille per aver letto fin qui! ^-^
Lucy
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