The
voyage shall not weary.
A Irene,
che
dice di “avermi pensata”,
portandomi in qualche modo
con sé sotto quel palco.
Sappi
che ci credo.
Ti voglio bene!
City of
a million moonlit places.
City of a million warm embraces.
Where I found the one of all the faces,
Far from home.
- Justin?
Si volta, passandosi
stancamente l’asciugamano sul volto e la testa. Questo caldo
ci sta soffocando.
- Sì?
- Vado a fare un giro.
Da una controllata
all’orologio e poi torna a guardarmi incredulo.
- A quest’ora? – chiede,
attirando l’attenzione degli altri presenti – Da
solo?
Annuisco, dando l’ultimo
sorso alla mia birra: - Sì, ho bisogno di pensare.
*
Il rumore dei tacchi dei
miei stivali rompe il silenzio surreale intorno a me.
Mani cacciate nei
pantaloni, libero di sbottonare ancora un po’ la camicia, di
offrirmi all’aria
umida e silenziosa di Roma. Non c’è nessuno da
queste parti, ormai è notte
fonda, ma questa città mi ha rubato anche il sonno con una
quiete e solitudine
che non mi aspettavo.
Nemmeno Pistoia,
figuriamoci Milano. Le altre quasi non le ricordo.
Nessuna città di questo
paese a me ancora sconosciuto è riuscita a rapirmi come lei.
Se fosse una donna,
sarebbe una di quelle che ancora ricordo e porto in qualche angolo del
cuore.
Mi fermo, prendo un
respiro e l’aria che attraversa la gola profuma ancora di
pioggia, di fronte a
me i Fori Imperiali, la religiosità delle rovine, i contorni
delineati dalle
luci calde che sembrano rughe disegnate dal tempo, non solo quello
passato, ma
quello che verrà. C’è magia, come un
incantesimo scagliato su questa città
costretta a far sognare chiunque la visiti, innamorandosene.
Chiudo gli occhi, quei
contorni restano per qualche secondo illuminati sul retro delle mie
palpebre,
poi il buio. Ascolto. Un concerto di grilli, sicuramente nascosti tra
gli
alberi, l’eco del traffico in lontananza, un portone che si
chiude. Una folata
di vento e un ricciolo si poggia sul mio naso, il mio udito che si fa
ancora
più acuto.
Le sento ancora, quelle
voci. Si amplificano nella mia testa come se stessi ancora
nell’Auditorium.
Ad ogni voce un volto
diverso, che scandisce il passare del tempo esattamente come queste
rovine. I
miei coetanei, alcuni rimasti seduti fino alla fine del concerto, lo
sguardo
sognante, perso nell’epoca in cui avevamo oro o petrolio tra
i capelli. I “miei
figli”, i quarantenni tornati adolescenti per un giorno. I
“miei nipoti”, quei
ragazzini fiondatisi sotto al palco non appena è partita Whole Lotta Love, sollevando gambe e
urla. In quel preciso istante,
il tempo è tornato indietro. Quelle facce fresche e lontane
dagli attacchi del
tempo, sorridevano esattamente come quarant’anni fa, cantando
le parole quasi
come se fosse la loro lingua, ricordando a me stesso che, se ancora
oggi
calpesto i palchi di tutto il mondo, il merito è ancora di
una magia che si
chiamava Led Zeppelin, non antica
come quella di Roma, ma così potente da poter fare
innamorare e sognare le
persone anche ora che ne rimangono solo le rovine e i ricordi.
Sento una risata.
Apro gli occhi,
voltandomi con una morsa piacevole allo stomaco. Dall’altra
parte della strada,
sul marciapiede, due ragazzi. La risata era di lei. Si tengono per
mano,
camminando fianco a fianco, le fronti una contro l’altra,
ridendo e parlando
sotto voce. Poi lei guarda il cielo, indica qualcosa. Lui segue il suo
dito e
poi le fa fare una giravolta continuando a camminare, la gonna del
vestito rosa
di lei che si apre a ruota. Ride ancora, avvicina lui che le sussurra
qualcosa
nell’orecchio. Si baciano e poi spariscono imboccando una
strada.
Sollevo lo sguardo, nel
cielo nero una luna come mai l’avevo vista, così
vicina da darti la sensazione
di poterla sfiorare. Un po’ come quel pubblico sotto di me,
stasera. Tra un
ragazzo che mi urla “you’re
God!” e
un altro che rimane con gli occhi sgranati e immobile, incapace anche
di
cantare, ormai perso chissà dove, trascinato dalla musica;
tra una signora che
ballava e cantava ad occhi chiusi e una ragazza ansiosa di scattarmi
una foto
ma che, tanto per non smentirmi, glielo impedisco fingendo di
nascondermi la
faccia con una mano. Il suo sorriso era vivo come questa luna quando
poi gliel’ho
lasciato fare, gli occhi, che da lontano sembravano azzurri come i
miei,
brillavano di felicità pura. Ho immaginato il pensiero che
è passato per la sua
testa e quella degli altri presenti.
Sono felice.
L’essere più felice della terra.
Per qualcuno sarà stata
la sera più bella della sua vita, per qualcun altro una da
aggiungere alle
altre.
Per me, ogni sera, ogni
notte è un mondo a sé.
Questa, così lontana
dalle pazzie e le stronzate fatte in gioventù, conserva nel
mio cuore e in
questa città un suono mistico.
Un suono felpato, una
specie di tonfo leggero.
Abbasso lo sguardo a
terra e ne trovo la fonte. Un gattino nero, prudentemente, si avvicina
ai miei
piedi. Si siede, arricciando elegantemente la coda attorno alle zampe.
Gli
occhi che mi guardano con un verde intenso e felino. Mi abbasso sulle
ginocchia, si lascia accarezzare con la punta delle dita.
- Grazie della compagnia,
amico. – gli sussurro sorridendo, poi lui si alza con calma,
dirigendosi verso
le rovine.
Guardo l’orologio al
polso. Sono le tre e il tempo di partire si avvicina.
Chissà perché, sulla
strada di ritorno, mi ritrovo a cantare un vecchio motivetto di Sam
Cooke.
Goodbye, goodbye to Rome…
Angolo
della pazza.
Salve *singhiozza*
Inutile dirvi che
non ero al concerto e non sarò nemmeno a quello di Padova.
Maledetta miseria,
dico io! ù_ù
In compenso ci
è stata la mia caVa MoreUmmagumma! ^^
Mi è
piaciuto immaginare Robert che visita i fori imperiali, forse
perché somiglia a Zeus (?).
Ok, sto delirando.
:'D
E' solo una piccola
immaginazione, quindi prendete questa storia per quello che
è.
Un abbraccio,
Franny
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