Rising Tide.
Diamine!
Perché a me? Perché? Mai una
volta che le cose vadano per il verso giusto. E poi, per quale
sacrosanta
ragione non ho ascoltato la parte razionale di me stesso e ho deciso di
venire
ugualmente a questa festa di matti? Semplice Ace, perché sei
una emerita testa
di cazzo, ecco.
Attorno
a me le luci psichedeliche, aiutate dalla sfera stroboscopica che
dominava il
soffitto della sala, mi accecavano gli occhi, facendoli bruciare
più del dovuto
e mandandomi in tilt il cervello ormai annacquato per via
dell’alcool bevuto in
precedenza. Odiavo bere. Non lo sopportavo e non reggevo bene come
facevano
altri miei amici. Ubriaconi per l’appunto.
Ma
quella era una di quelle sere in cui ti permettevi di mandare a quel
paese i buoni
propositi e inibizioni e ti buttavi nella mischia, solo per una volta,
tanto
per provare. Provare ad essere qualcuno che non eri, provare a
raggiungere un
obbiettivo altrimenti impossibile.
Provare.
«Ehi,
ma guarda dove
metti i piedi!».
Mi voltai
in direzione
del colosso mal vestito che mi aveva appena urlato dietro, accorgendomi
di
avergli appena pestato le sue orrende scarpe, se così
potevano definirsi un
paio di pantofole a punta. Sul serio, non riuscivo a capire che bisogno
c’era
di dover seguire alla lettera la regola che stabiliva che ad una festa
in
maschera ci si dovesse mascherare. E se uno aveva una faccia da
schiaffi o da
babbeo tutto l’anno?
Quel
ragionamento
contorto mi passò per la mente nell’attimo in cui
mi persi ad osservare il
ragazzone travestito da Gandalf,
neanche fosse stato un cosplay, con tanto di cappello e barba finta, o
era
vera?, che stava aspettando le mie scuse. Non credevo le meritasse,
infatti i
suoi piedi sembravano ancora sani dopo essere stati calpestati dai miei
anfibi,
ma non mi pareva il caso di impuntarmi per sciocchezze simili.
Così, anche se
con la mente annebbiata dall’alcool ingerito, dissi
ciò che voleva sentire
senza impegnarmi troppo nel fargli capire che mi dispiaceva.
Perché non potevo
concentrarmi anche su quello, avevo
troppi problemi in corso da risolvere per perdermi in
futilità.
«Scusa,
non ti avevo
visto.» fu tutto ciò che riuscii a mettere
insieme, defilandomi subito dopo da
quella situazione per evitare di tirarla troppo per le lunghe. Era
già abbastanza
complicato dover scavalcare tutta quella gente ammassata e ansante che
si
dimenava senza creanza in mezzo alla palestra, trasformata senza
ritegno in una
sorta di bordello pieno di musica, alcolici e gente sfatta. Nonostante
fossi al
mio primo anno di università ero già stato messo
in guardia, da fonte più
che sicura, che le feste che
venivano organizzate all’interno dell’istituto
erano veri e propri Rave Party e
non deludevano mai. Lo credevo
bene,
fino a che gli studenti si rincoglionivano in quel modo qualsiasi cosa
sarebbe
apparsa divertente e indimenticabile.
Venni
spintonato da
tutte le parti quando attraversai la pista, inciampando sui miei stessi
passi
un paio di volte e allungando il collo nel tentativo di respirare aria
abbastanza pulita e non troppo inquinata dal fumo delle sigarette per
evitare
di rimanere soffocato dalla bolgia di corpi che cantavano a
squarciagola sulle
note della canzone del momento, agitando le braccia a ritmo e saltando
come dei
fottuti marsupiali australiani.
Non
appena raggiunsi il
tavolo allestito per le bevande mi fiondai direttamente su una
bottiglia di
birra, perché ero quasi
del tutto
sicuro che fosse birra, già stappata e appartenuta a qualche
povero diavolo,
buttando giù senza pensarci una bella sorsata di schiena e
pentendomene subito
dopo quando la testa prese a girare drasticamente. Era normale sentirsi
lo
stomaco sottosopra? E da quando il pavimento ondeggiava?
«Vacci
piano cowboy,
quella è roba forte.».
Ah,
ecco perché le luci stroboscopiche sembrano navicelle
aliene. Ehi, aspetta un
po’, cowboy a chi? Oh, giusto, il cappello.
Evidentemente
trovarsi
all’ultimo minuto senza un costume adatto per una cavolo di
festa in maschera
aveva contribuito a far si che, prima di partire, afferrassi i primi
vestiti
che mi capitarono a tiro nell’armadio e che li indossassi
senza far caso ai
colori o senza l’intento di somigliare a qualcuno o a
qualcosa. La camicia
gialla e antiestetica che avevo deciso di mettere, una delle mie
preferite,
nemmeno ricordavo dove fosse finita sinceramente. Probabilmente
l’avevo persa
quando i primi bicchieri di troppo avevano iniziato a fare effetto.
L’ultimo
ricordo che avevo di essa riguardava una mezz’ora prima, o erano due ore?, quando, mentre uno
più grande mi aveva
spiaccicato addosso al muro per infilarmi la lingua in bocca, mi era
venuto
caldo e l’avevo tolta con l’idea di buttarmela in
spalla. Forse, nella foga del
momento, impegnato a rispondere per le rime a quel bacio rubato con
l’intenzione
di lasciargli i segni dei denti affinché imparasse che con
me non si scherzava,
avevo finito per lanciarla chissà dove, restando a petto
nudo. Pazienza, non
faceva affatto freddo, inoltre i pantaloni, sebbene non così
lunghi, li avevo
ancora, per cui non ero arrivato a rendermi del tutto ridicolo. Quanto influisse un cappello arancione
da cowboy, poi, dovevano giudicarlo gli altri. All’appello
mancavano solo le
pistole, se volevamo essere pignoli, ma un finto coltellaccio di
plastica
rigida, quello che solitamente usavano i bimbi per picchiarsi a
carnevale, mi
sembrava un ottimo sostituto, assicurato con un laccio alla mia
splendida ed
eccentrica cintura che riportava con orgoglio l’iniziale del
mio nome. Per non
parlare del mio fisico: ero il cowboy più sexy della serata,
ovvio che poi la
gente mi saltasse addosso.
Sono
come un temporale,
pensai orgoglioso, quando passo si
bagnano tutti.
Mi
rendevo vagamente
conto che l’alcool in circolo nel mio sangue stava
contribuendo ad abbassare il
livello della mia timidezza, alzando smisuratamente il mio ego e
l’autostima
che, solitamente, rasentava il gradino più basso. Non ero
mai stato un tipo
eccentrico e sentirmi così a mio agio e disinibito mi
sembrava strano, ma
divertente. Quella era una festa universitaria, dopotutto, per giunta
in
maschera, nessuno si sarebbe ricordato di me, il novellino un
po’ sfigato e
anonimo.
«Cowboy?
A me sembra
più un disperato!».
Il sosia
di Elvis Presley
accompagnò il suo non richiesto
commento con una risata, rivolgendomi un’occhiata che, se non
fosse stata
appannata da fiumi di vodka, probabilmente avrebbe voluto risultare
amichevole.
Non lo sarebbe stato comunque perché mi aveva indispettito
parecchio e non ero
di certo propenso ad elargire gentilezze a chi si prendeva gioco di me.
Sbronza
a parte, anche se ero ubriaco ciò non mi rendeva di
conseguenza anche
simpatico, disposto al gioco e socievole.
Tsk,
tagliati i capelli e fatti una vita!
Sul
serio, non avevo
mai visto una capigliatura più orrenda ed esibizionista di
quella. Era come se
il ciuffo di capelli cotonato e impiastricciato di gel e schifezze
simili
avesse una vita propria. Ero addirittura terrorizzato che, se si fosse
voltato
di scatto, avrebbe centrato in pieno la faccia del moschettiere baffuto
accanto
a lui, e gli avrebbe fatto pure male! Di sicuro la parrucca non doveva
essere
morbida, pareva cemento data la compattezza. Gli abiti più
originali se li
inventavano solo quelli dell’ultimo anno che, per la
precisione, mi stavano
parecchio sulle scatole. Troppo sbruffoni e con l’aria da
gente vissuta, si
credevano i padroni indiscussi del campus.
Diedi
loro le spalle,
assicurandomi di reggere ancora tra le mani la bottiglia con
all’interno
qualche goccia di qualunque cosa ci fosse
dentro e avviandomi verso il buffet che si trovava a poca
distanza dal
palco allestito per le band di musicisti improvvisati formate da
studenti che
avevano voglia di esibirsi e fare un po’ di chiasso. Non mi
piaceva la musica
troppo alta, soprattutto se dovevo mangiare, ma avevo
l’intenzione di rubare
giusto qualche panino per mettere qualcosa sullo stomaco e calmare i
giramenti
di testa che, di tanto in tanto, portavano la mia camminata
già scoordinata di suo
a tendere verso sinistra.
Raggiunsi
i tavolini
senza incappare in troppi ostacoli evitando attentamente la zona in cui
una
ragazza dai capelli rosa era impegnata a vomitare anche
l’anima. Le avevo
rivolto un’occhiata schifata e avevo continuato per la mia
strada, nascondendo
le mani nelle tasche e riflettendo con sarcasmo che, alla fine, finiva
sempre
così: esageravano fino a stare male, ma non ne volevano
sapere di smettere
prima. Bravi, bella idea, avevano tutto il mio appoggio.
Agguantai
un tramezzino
facendolo sparire in un sol boccone e compiendo lo stesso gesto per i
tre
successivi, quando una voce al microfono mi spaccò i timpani
mandandomi una
fitta lancinante alla testa che mi fece chiudere gli occhi e sfuggire
un
lamento.
Ottimo
lavoro, non potevo fare di meglio, sul serio, nemmeno se mi fossi
impegnato.
Bere come una spugna e lasciarmi distrarre da sciocchezze. Davvero,
sono
proprio uno sfigato. A me nemmeno piace bere, mi fa schifo!
Perché allora sono
ubriaco marcio come un asparago? Bleah, odio gli asparagi.
Il mio
terrore più
grande era rischiare di
andarmene dalla festa in modo squallido, sdraiato su una barella, senza
ricordare nemmeno il mio nome. Quelle erano figuracce che molto spesso
capitavano ai novellini che avevano voglia di farsi una fama, oppure
gli
sfigati. E la fortuna ed io, per la precisione, non andavamo molto
d’accordo
ultimamente.
Quando la
voce di
quello che si definì il miglior deejay
dell’università smise di essere
accompagnata da un fastidioso sibilo diventando più
sostenibile, capii che di
lì a poco avrebbero aperto le danze e dato inizio alla vera
festa. Quella a cui
avevo partecipato fino ad allora cos’era stato,
l’aperitivo? Ad ogni modo non
ci feci molto caso, non mi disturbai nemmeno ad aggregarmi agli altri
nell’acclamare quel, come si chiamava, Sacrathem
Abou? Scarabocchio Baboo?
«Scratchmen
Apoo!».
«Sei
il migliore!».
Bah,
e chi se ne frega, non posso pretendere che il mio cervello riesca a
connettere
bene a tutte le ore e in tutte le situazioni. Inoltre sto mangiando,
per cui
tutto il resto passa in secondo piano. Faranno festa anche senza di me.
Addentai
un bignè
dall’aria invitante e cremosa che, per l’appunto,
si rivelò una vera delizia,
tanto che ne presi un altro, giusto per sottolineare il mio
apprezzamento,
quando, per bontà Divina, prestai attenzione a un trambusto
alle mie spalle
sempre più vicino e rumoroso; così, per miracolo,
mi scomodai a voltarmi per
guardare cosa diavolo stesse succedendo, spostandomi dal tavolo dei
dolci
giusto in tempo per evitare di venire investito da un colosso di due
metri,
largo tanto quanto un armadio, il quale finì dritto, dritto
con la faccia
spiaccicata su una torta al cioccolato.
Peccato,
quella volevo assaggiarla.
Il tizio,
sicuramente
un fanatico dell’Heavy
Metal
data la pelliccia di un indefinito animale morto e con dei capelli
rossi piuttosto
interessanti, puntò le mani sul ripiano, facendo tremare le
gambe in legno e,
con lentezza calcolata, si tirò su, afferrando la tovaglia e
pulendosi il viso
alla bell’é meglio. Guardandolo notai come i
muscoli delle braccia erano tesi e
non mi stupii affatto dell’espressione assassina che assunse
quando si voltò,
puntando lo sguardo davanti a sé e incenerendo qualcuno
vestito di nero e
incappucciato al limitare della pista. Era difficile riconoscere il
pazzo che
l’aveva fatto volare in quel modo data la calca di gente che
continuava a
muoversi e a passarci davanti perciò, quando lo vidi
avanzare a passo svelto
verso la sua preda, liquidai la faccenda con un’alzata di
spalle, finendo
quello che era rimasto del dolcetto che avevo fortunatamente salvato
dalla
strage custodendolo nelle mie mani.
Certo che
giravano
proprio dei tipi strani in quel campus. Eppure quella che avevo scelto
era
stata descritta ed elogiata da tutti come una delle
università più prestigiose
del paese, ma da quello che avevo visto facevano entrare cani e porci.
Oh, beh,
non erano problemi miei, bastava solo tenersi alla larga da certa
gentaglia.
«Pardon,
Monsieur,
avez-vous vu un garçon abeillé comme moi?».
Sbattei
le palpebre e
mi concentrai sulla figura che mi era spuntata davanti agli occhi nel
giro di
un secondo, guardandola stranito e sorpreso dal suo costume da
astronauta.
Perché quella tuta bianca non poteva significare altro,
nonostante lo stupido cappello
con scritto Penguin sulla visiera.
Al
massimo poteva passare per un eschimese moderno. Restava comunque il
problema
che non avevo capito un accidente di quello che aveva appena detto. Che
razza
di lingua parlava?
«Scusa,
non ti capisco.»
ammisi, indietreggiando nel tentativo di allontanarmi e togliermelo di
torno.
«Qu’est-ce
que vous
avez dit?»
insisté invece
quello, avanzando, anzi, ciondolando in avanti. Doveva essere per forza
ubriaco
pure lui, altrimenti non mi sarei spiegato la presenza di un francese
al
campus.
Con mio
sollievo
qualcuno alle mie spalle attirò la sua attenzione
perché il suo sguardo
annebbiato si illuminò e si affrettò a
sorpassarmi, mormorando frasi sconnesse
in quello che mi parve tedesco o greco, o altre diavolerie
internazionali,
lasciandomi libero di ritornare a farmi gli affari miei e a cercare di
non dare
nell’occhio.
O almeno
così credevo.
Una mano
sbucò dal
nulla, afferrandomi per un braccio e trascinandomi verso la pista,
facendomi
scontrare con chiunque si trovasse in mezzo al mio, o nostro, cammino e
urtando
i nervi e la pazienza di parecchi presenti ai quali pestai i piedi
senza
rendermene conto. Quando una luce accecante mi abbagliò, il
mio livello di
ebbrezza si abbassò all’improvviso, dandomi modo
di capire che mi trovavo
nientemeno che in piedi al centro del palco improvvisato davanti a
più di mille
studenti che frequentavano le diverse facoltà
all’interno del campus. Poco
importava che fossero mezzi rintronati, una presentazione del genere
non
l’avrebbero dimenticata mica tanto facilmente e, anche se
speravo di
sbagliarmi, avevo la sensazione che a breve mi sarei pentito di aver
preso
parte a quella festa.
Al
diavolo Usopp, Sanji, Nami e le loro madri baldrac… la colpa
è tutta loro. E
Rufy! Cristo Santo, lo ucciderò quell’idiota!
Dov’è? Che fine ha fatto? Aspetta
solo che mi capiti a tiro! Io non ci volevo venire,
l’avrò ripetuto migliaia di
volte, e loro che hanno fatto? Mi hanno costretto per imbucarsi, quei
mocciosi!
Dopo lo
stupore
iniziale mi riscossi, muovendo i primi passi verso le scale,
intenzionato a
scendere e ad evitare di fare il mio ingresso
all’università riconosciuto da
tutti e garantendomi così un anno di battute ed etichette
varie del tipo ‘oh guarda,
c’è il cowboy spogliarellista’.
Perché si, dovevo ammetterlo, il pensiero che volessero
incitarmi a spogliarmi
anche dei pantaloni e del resto mi era passato per la mente facendomi
accapponare la pelle.
«Frena
cowboy, dove
credi di andare?». Di nuovo quella mano mi arpionò
per i passanti della
cintura, fermando bruscamente la mia avanzata e rischiando di farmi
cadere
rovinosamente a terra. Mi voltai con l’intento di dirgliene
quattro e, quando
riconobbi la faccia da schiaffi del mio interlocutore, mi sentii
doppiamente
motivato ad insultarlo.
«Cowboy
un paio di
palle! Lasciami andare John Travolta dei poveri!» dissi ad
alta voce per
sovrastare il caos attorno a noi. Le luci si erano abbassate e non
erano più
puntate addosso a noi, quindi potevo ancora darmela a gambe. Se solo
quell’idiota cotonato avesse mollato la presa.
«Hai
un bel caratterino.»
rise l’altro, per niente intimidito, «Mi piace. Che
anno frequenti?».
Cosa?
E a lui che gli frega?
«Il
primo.» ribattei
sulla difensiva, sperando che, se l’avessi accontentato, mi
avrebbe lasciato
andare.
Sollevò
le sopracciglia
con fare sorpreso e sinceramente stupito, ma non perse mai il sorriso
allegro e
divertito che aveva stampato in faccia.
«Per
essere un
ragazzino impertinente hai del fegato da vendere, mi pare. Meglio
così, sarà
interessante vedere come te la caverai.» decretò
con convinzione, voltandosi e
continuando a trascinarmi dietro di lui fino ad arrivare ai piedi della
console
dove altri giovani dall’aria poco sveglia, ma non per questo
poco robusti,
attendevano l’inizio di qualcosa.
Ignorando
le mie
proteste, Elvis, o come diavolo si chiamava, fece cenno al dj che
poteva
cominciare quando voleva e che erano al completo. Poco dopo, quello che
doveva
chiamarsi per forza Apoo,
attirò
l’attenzione di tutti su di sé, anzi, sul palco
dove io e il resto dei
poveracci venimmo allineati con l’ordine di restarcene buoni,
buoni e
sorridere. Quello fu l’ultimo dei problemi, dato che tutti
non avevano smesso
un secondo di ghignare ubriachi, ma il cibo che avevo mangiato aveva
fatto il
suo effetto e mi sentivo molto più attento e vigile, quindi
tutto ciò che
ottennero da me fu un broncio poco cordiale.
«E’
con grande piacere
che stasera, per inaugurare l’inizio dell’anno,
come da tradizione si terrà la Grande
Sfida! Si, si urlate, forza, vi
voglio carichi! Uno di questi arditi giovanotti avrà
l’occasione di entrare
nella Confraternita dei Pirati di
Barbabianca! Un applauso per loro, prego!».
Certo,
la Grande Sfida, me ne avevano parlato. Se vincessi entrerei
già in una
confraternita, avrei un sacco di vantaggi e potrei pure
studia… Oh cazzo! I
Pirati di Barbabianca! Nessuno ne è mai entrato a far parte
prima dl terzo anno
e io nemmeno speravo di potermi candidare così presto! Che
botta di culo!
Grazie ragazzi, ovunque siate svenuti, grazie per avermi costretto a
venire
stasera!
L’edificio
universitario era una delle costruzioni più antiche e
storiche della città,
costruita intorno al XVI secolo con l’intento di creare una
residenza che
prestasse asilo ai fuorilegge e ai pirati che per anni avevano operato
attorno
alle acque che bagnavano il nostro paese, ritenuto uno dei luoghi
più
frequentati dai bucanieri. Era stato proprio il pirata Barbabianca a
finanziare
i lavori e, in suo onore, dato che con il potere accumulato proteggeva
gli
abitanti delle città portuali, erano state istituite varie
confraternite a tema
che facevano riferimento alle molteplici leggende sul suo conto, sulle
sue
scorribande e sui suoi compari di lavoro. Tra tutte, quella era
l’università
che mi aveva affascinato anche dal punto di vista riguardante le
origini. Non
ne esistevano di migliori.
Cercai
con lo sguardo
l’idiota cotonato che mi aveva dato l’occasione di
mettermi alla prova, ma non
riuscii a vederlo e pensai che l’avrei certamente ringraziato
più tardi, quando
avrei vinto la gara. Se c’era qualcuno che meritava di essere
premiato quello
ero io per il semplice fatto che avevo patito le pene
dell’Inferno per convincere
mio nonno a lasciarmi iscrivere alla facoltà. Per non
parlare dei test
d’ingresso impossibili da passare. Avevo in qualche modo
superato quegli
ostacoli ed entrare in quella confraternita sarebbe stato il massimo
visto e
considerato che era ritenuto un privilegio esserne membri. Ed io avevo
tutta
l’intenzione di lasciare un segno e di stupire tutti. Ce
l’avrei fatta, senza
dubbio.
«Ehi,
ma cosa… oh,
stupendo, gente! Indovinate chi abbiamo qui stasera, una leggenda
indiscussa!
Fate sentire il vostro affetto per il Comandante della Prima Divisione:
Marco!».
Uh,
la Prima Divisione? Ma quante ce ne sono? E dov’è
questo tizio, non lo vedo.
A
giudicare
dall’entusiasmo degli studenti qualche gradino più
in basso rispetto a me,
questo Marco doveva godere di una certa notorietà e di una
buona fama. Sembrava
che Apoo avesse appena nominato un personaggio famoso o amato dalle
masse. Era
davvero così benvoluto da tutti?
A furia
di guardarmi
attorno almeno riuscii ad individuare Elvis, il quale, stringendo
convulsamente
qualcuno addosso a sé nell’intento di passargli un
pugno tra i capelli e
ridendo sguaiatamente, si accorse del mio sguardo interrogativo e
ammiccò nella
mia direzione, sorridendo spensierato e lasciando andare il povero
ragazzo che
aveva rischiato di soffocare. Bei Capelli
gli sussurrò poi qualcosa all’orecchio per farsi
sentire e, quando quest’ultimo
alzò lo sguardo alla ricerca del mio, mi sentii sprofondare
nel riconoscere
quel ciuffo biondo e inconfondibile, pensando bene di dargli le spalle
e
sperare di scomparire tra il resto dei partecipanti.
Sono
nella merda.
Ovviamente
lo studente
più in vista, guarda caso, era anche il ragazzo con cui
qualche ora prima avevo
passato un quarto d’ora schiacciato addosso ad una parete,
intento a cercare di
liberarmi di lui.
La gente
continuava a
urlare e ad ammassarsi addosso al palco, schiamazzando e vociando, gli
uni
sopra agli altri quasi come se si fossero trovati ad un concerto dei
Queen. Ad
ogni modo, poco mi importava: fino a che nessuno mi teneva in
considerazione le
cose andavano bene e non volevo nemmeno pensare a cosa stava per
toccarmi. Era
certo, però, che avrei fatto di tutto pur di entrare nella
confraternita,
parola mia.
«Bene,
Signori e Signorine,»
fece Apoo, sostenuto da un
coro femminile di urla, «Diamo inizio allo spettacolo!
Quest’anno i ragazzi
dovranno sostenere una prova d’intelligenza, o
di stupidità che dir si voglia! Avranno una serie
di domande a
cui dovranno rispondere entro un determinato numero di tempo e, se
sbaglieranno, dovranno bere ogni volta tre bicchieri di un indefinito qualcosa. chi resiste fino
all’ultimo
senza svenire, vomitare o morire vince!».
Che
stronzata, pensai,
mordendomi un labbro e prendendo un respiro profondo, sentendo lo
stomaco
gorgogliare minaccioso. Per un istante temetti di poter iniziare a
rimettere
l’anima addirittura prima di iniziare la sfida.
Per
qualche miracolosa
ragione ciò non accadde e riuscii a tenere a bada
l’agitazione fino a quando il
dj incallito non diede il via, sbraitando al microfono e abbassando la
musica
per permettere a John Travolta di porre le domande.
Guardandomi
attorno mi
accorsi che in totale eravamo circa sette povere anime ubriache. Alcuni
si
reggevano in piedi a fatica, mentre altri avevano un colorito
verdognolo in
faccia. Non ero certo di essere messo meglio, dato che non riuscivo a
vedere
bene oltre i due metri, ma speravo di poter essere abbastanza forte e
lucido da
poter resistere fino alla fine.
Oltre a
ciò e al fatto
di dovermi concentrare, quando già di mio faticavo a restare
attento per più di
dieci minuti, dovevo pure nascondermi dietro alle corporature degli
altri
prescelti per non farmi vedere dalla leggenda
dell’università.
Quel
tale, Marco, ad
essere sinceri me l’ero ritrovato tra i piedi il primo giorno
di inizio corsi,
esattamente due settimane prima, e da allora l’avevo sempre
visto in giro.
Sorvolando sul fatto che cercassi di mia spontanea volontà
la sua zazzera di
capelli assurdi in giro per il campus, mai mi sarei aspettato di
ritrovarmi
incollato a lui durante una squallida festicciola studentesca. Non che
mi fosse
dispiaciuto il nostro scambio di salive alcoliche, intendiamoci,
semplicemente non
era da me lasciarmi sopraffare e prendere alla sprovvista. Ero un
uragano, una
forza della natura, una marea, che diamine! E speravo di poter
sfruttare l’annebbiamento
dei miei sensi, e dei suoi, per dimenticare l’accaduto e non
dovermi nascondere
quando l’avrei incontrato per i corridoi i mesi a venire.
Sicuramente,
se mi
avesse riconosciuto, e se avessi vinto, sarebbe stato scomodo doverlo
vedere
tutti i giorni e ricordarmi delle sue labbra invitanti e di quella
schiena
scolpita.
Smetti
di pensarci, mi
dissi, o portare i pantaloni
diventerà
scomodo.
«Dunque,
prima domanda
e iniziamo da… come ti chiami? Koby! Allora, rispondi:
Mediamente, quanto può
durare un rapporto prima di raggiungere l’orgasmo?».
Io
impallidii, mentre
il povero malcapitato dai capelli rosa e dagli occhiali tondi
crollò a terra
svenuto ancora prima di dare la risposta sotto agli occhi di uno
stupito Elvis,
il quale, con un’alzata di spalle, rese noto che eravamo
appena rimasti in sei.
La
successiva mezz’ora
fu un vero e proprio massacro. Furono poste le domande più
assurde, insulse ed
inutili che si potessero immaginare e altri due vennero eliminati. Dopo
tre
gironi io mi ero scolato solamente tre birre, avendo risposto in modo,
a detta
della giuria, incompleto alla domanda imbarazzante che mi era stata
posta.
Ovvio che
non potevo
sapere esattamente come funzionasse il ciclo per le donne, mica mi
interessava
saperlo e, a quanto pareva, citare la fase lunare non era bastato, dato
che mi
avevano chiesto se per me le donne fossero come lupi mannari.
Dopo
altri tre quarti
d’ora di sofferenze eravamo rimasti in due, barcollanti e
storditi fino
all’osso, ma ancora in piedi.
Il mio
avversario dai
capelli verdi e l’aria da schiaffi era un osso duro, ma avevo
tutta
l’intenzione di farlo fesso e prendermi tutta la gloria.
Davanti a
me, alcuni
membri della Confraternita di Barbabianca ci osservavano divertiti,
commentando
di tanto in tanto il nostro equilibrio precario e le nostre facce da
babbei, ma
poco importava. Non mi interessava nemmeno più di essere
riconosciuto da Marco,
sinceramente. Insomma, tanto mi ero già messo nei guai, uno
in più non faceva
la differenza. Se dovevo farmi una figura di merda tanto valeva farla
bene.
«Siamo
alle ultime
domande!» si entusiasmò Apoo, affiancando un
membro della confraternita e
stringendolo a sé, «Thatch, continua
pure!» lo esortò.
Quello si
schiarì la
voce con fare solenne, portandosi il foglio con i quesiti sotto al naso
e
iniziando a leggere le battute finali. Se Zoro, il mio sfidante, ed io
avremmo
risposto correttamente senza svenire, allora la gara sarebbe continuata
fino a
che uno dei due non avesse ceduto.
«Zoro,
rispondi: quale
di questi ha… ehi, aspetta, ma che diavolo?».
«Gneh,
basta bere
questa roba. Vado a prendermi un po’ di vodka.»
disse il ragazzo con i capelli
verdi sotto gli occhi impressionati di tutti, facendo il giro del
tavolo dove
svettavano bicchieroni di birra e dirigendosi verso le scale per
lasciare il
palco.
«Ti
stai, ehm,
ritirando?» gli chiese Thatch, stranito. «Non vuoi
entrare nella confraternita?».
«Uhm?
E che me ne
importa? Io nemmeno faccio parte di questa università, mi
sono imbucato solo
per bere.» detto questo, deliziando il pubblico con un sonoro
rutto, si dileguò
verso il bar, barcollando e appoggiandosi di tanto in tanto alle spalle
di
qualche altro povero diavolo ubriaco marcio giù in pista.
Rimasi da
solo davanti
agli studenti e ai giudici mezzi svampiti e vestiti in maniera orrenda
e bizzarra.
Andiamo, quale uomo sano di mente avrebbe mai avuto il coraggio di
indossare un
kimono femminile?
Thatch si
voltò a
osservarmi a bocca aperta, fissandomi dall’alto in basso
mentre ero impegnato a
stringere le mani sui bordi del tavolino fino a far sbiancare le
nocche. Non dovevo
vomitare, prima dovevano dichiararmi vincitore. Solo dopo avrei potuto
prendere
in considerazione l’idea di risparmiarmi una corsa ai bagni e
inondare il
palco.
«A
questo punto credo
che…» iniziò a dire Apoo, ma un coro
esaltato coprì la sua voce, mentre quel
Thatch mi correva incontro a braccia aperte, sbraitando frasi veloci di
cui
riuscii solo a capire ‘nostro nuovo
acquisto’.
Ce
l’avevo fatta
quindi, senza nemmeno averlo previsto ero riuscito
nell’impresa in cui avevo
giurato di cimentarmi una volta raggiunto il terzo anno. Che botta di
culo
pazzesca.
Capelli
cotonati mi
abbracciò
stretto, scrollandomi da una parte all’altra, dimentico del
mio stomaco straziato
dall’alcool. Certo che aveva coraggio a stringermi
così forte, avrei potuto
esplodere da un momento all’altro, ma ciò sembrava
non interessargli affatto.
«E
bravo, cowboy!»
esultò.
«Te
l’avevo detto che
questo era un pazzo!» si intromise l’energumeno che
avevo intravvisto a metà
serata, vestito da spadaccino e con dei baffi finti, almeno
così speravo, e
delle spade di plastica assicurate ai fianchi.
Mi diede
una poderosa
pacca sulla schiena e se non vomitai fu solo perché mi morsi
a sangue un labbro.
Dovevo filarmela, e alla svelta. L’idea di rimettere davanti
ai miei nuovi
confratelli non era più tanto brillante come lo era sembrata
all’inizio.
Nel
frattempo, ignari
delle mie preoccupazioni, i membri della Confraternita di Barbabianca
chiacchieravano
attorno a me, parlandosi l’uno sopra l’altro e
presentandosi. Non avevano
capito che dimenticavo i loro nomi l’istante dopo aversi
sentiti.
«Ohi,
testa d’ananas,
vieni qua e fa gli onori di casa!» schiamazzò
qualcuno.
Faticando
per tenere
gli occhi aperti e per mettere a fuoco la visuale appannata, vidi
avanzare in
mezzo al gruppo un tizio biondo con i capelli che facevano concorrenza
allo
stesso Elvis, o Thatch, chiunque fosse, sondandomi da capo a piedi una
volta che
mi fu davanti.
Deglutii
a fatica,
sperando che si fosse dimenticato del nostro precedente incontro.
Insomma, mica
potevo essergli rimasto così impresso. Morsi e graffi a
parte, ero solo un
ragazzino e se era vero che lui era all’ultimo anno, allora
doveva per forza
essere abituato ad avere di meglio e non dei veri e propri selvaggi.
«Ma
guarda,» disse
invece, sorridendo allegro, forse per via della sbronza che aveva
attaccato
pure il suo cervello, «E io che mi chiedevo come avrei fatto
a rintracciarti.».
Il salto
che fece il
mio stomaco a quelle parole fu il colpo di grazia e feci appena in
tempo a
scattare fuori dal cerchio, prendendo a gomitate le persone, per
raggiungere un
angolino del palco e iniziando a tirare fuori anche i polmoni, ma
evitando che nessuno
rimanesse traumatizzato a vita.
Alcuni
colpetti
rassicurativi sulle spalle mi rivelarono la presenza di qualcuno e un
panno
umido apparve sotto ai miei occhi stanchi.
«Tieni,
avevamo pensato
che avrebbe potuto servirti.» spiegò Marco,
sorridendomi amichevolmente.
Borbottai
un piccolo
ringraziamento e mi asciugai il viso sudato, notando che le mie mani
tremavano
e che le gambe erano tanto, tanto pesanti.
Aspettò
paziente che
riprendessi fiato e, quando mi voltai a guardarlo con
l’intenzione di dire
qualcosa di non stupido, dovetti
pregare tutti i Santi per non ricominciare a stare male, dato che il
mio
stomaco si contorse in tutti i modi quando il ragazzo mi prese il mento
tra le
mani con decisione.
«Sappi
che non l’avrai
vinta sempre tu, ragazzino.» mormorò sogghignando,
e fui certo che non si
stesse affatto riferendo alla Grande Sfida che avevo sostenuto,
bensì a qualcos’altro in
particolare.
Stavo per
aggiungere
dell’altro, ma arrivò Thatch che, con il suo tatto
espansivo, mi passò un
braccio attorno alla vita, trascinandomi con sé
giù per gli scalini, puntando
la pista da ballo. «Pronto per festeggiare il tuo ingresso
nella nostra ciurma?»
domandò, facendo apparire una bottiglia di whiskey ancora
sigillata.
La
guardai dubbioso,
pensando di declinare l’offerta e scappare a dormire per non
esagerare, ma
quando adocchiai per caso un vichingo con i capelli rossi caricarsi in
spalla
un tizio incappucciato, trascinandoselo chissà dove, e due
astronauti corrergli
appresso, decisi che, probabilmente, non ne avevo ancora viste
abbastanza di
assurdità e se volevo avere un bel ricordo da raccontare a
Rufy quando l’avrei
ritrovato, era meglio darsi da fare.
«Non
vedo l’ora.»
assicurai sorridendo.
Proprio
una bella
festa.
Special*
Mi
rifiuto di crederlo, non è successo sul serio. Quella
maledetta piaga non ha
davvero avuto il coraggio di osare così tanto.
Mi passai
la lingua
sulle labbra, riconoscendo l’inconfondibile gusto di
cioccolato. Di conseguenza
battei violentemente i palmi sul tavolo.
Figlio
di puttana, l’ha fatto eccome!
Mi pulii
nel miglior
modo possibile il viso, almeno quel tanto che bastava per vederci bene
ed
esibire un’espressione omicida che difficilmente avrebbe
potuto essere
fraintesa da coloro che ormai conoscevano il mio carattere.
Quell’affronto non
potevo perdonarlo, non quando la scena era avvenuta sotto gli occhi di
tutti.
Quel bastardo me l’avrebbe pagata cara. Molto, ma molto cara.
Ignorando
lo sguardo
allibito di un mocciosetto del primo anno con un cappello da cowboy
assurdo,
camminai a passo svelto verso il mio peggior nemico, ovvero colui che
da ben
tre anni si divertiva a rovinare la mia vita universitaria. Avrei
ribaltato lui
e la sua confraternita, prima o poi, poco ma sicuro, dopotutto guerre
di quel
genere erano all’ordine del giorno.
«Com’era
la torta,
Eustass-ya?» mi chiese con l’intento di sfottermi
il ragazzo che presto sarebbe
finito al cimitero più vicino a far compagnia ai morti. Di
lui e della sua
brutta faccia da schiaffi ne avevo avuto abbastanza.
«Che
ne dici di
assaggiarla? Ho giusto un pugno ripieno
pronto per te.» lo avvisai, affrettando la mia avanzata e
alzando il braccio
pronto per sferrare il colpo e rivoltargli il muso, tanto da
cancellargli una
volta per tutte quel ghigno derisorio che tanto detestavo.
«No
grazie, preferisco
non rischiare di diventare grasso e assomigliarti.»
sibilò, giusto l’attimo
prima di abbassarsi e schivare abilmente il colpo, rialzandosi subito
dopo e
costringermi di nuovo alla vista di quel suo sorrisetto compiaciuto.
Nonostante
tutti i miei tentativi ce l’aveva sempre vinta lui.
«Non
sono grasso!»
ribattei infervorato e punto sul vivo. Ma mi aveva guardato bene almeno?
«Certo
che no, è la
pelliccia che ti fa sembrare rotondo.» mi
assecondò sarcastico.
Strinsi i
pugni nel
disperato tentativo di calmarmi e digrignai i denti. Conoscevo quel
piantagrane
da una vita e ancora non riuscivo a capacitarmi della sua infinita
insolenza,
mista a sfacciataggine, bastardaggine, sadismo e una grande,
grandissima dose
di macabro. Anche in quel momento, guardandolo bene, sembrava il
ritratto della
Morte con quella spada a portata di mano, probabilmente
un’alternativa alla
falce, e una tunica nera completa di cappuccio calato sugli occhi. In
quanto a Re dei Vichinghi quale
ero, non potevo
di certo farmi mettere in ginocchio dalla riproduzione di una delle
sfighe
peggiori del mondo. Ero un guerriero, e che cazzo.
«Sul
serio, Eustass-ya,
come devo dirtelo che non ti ho messo appositamente i bastoni tra le
ruote per
farti finire con la faccia in mezzo a strati di pan di spagna e panna
con
l’obbiettivo di fotografarti per poi vendere le foto al
giornalino del campus?
Non sono così subdolo e calcolatore come credi.»
ghignò, dandomi così la
conferma che tutto ciò che era appena uscito dalla sua bocca
altro non era che
la pura e semplice verità. Voleva sabotarmi e mandare a
monte la mia
reputazione, quello stronzo. Ma se credeva di potermi mettere nel sacco
così
facilmente si sbagliava di grosso. Ormai doveva sapere abbastanza bene
che non
mi lasciavo fregare da nessuno. Gli assi nella manica ce li avevo anche
io ed
erano dei veri e propri piani geniali, quasi quanto i suoi.
Ingoiai
quel quasi dal
sapore amaro. Ammettevo difficilmente persino a me stesso che le sue
idee
avevano sempre quel qualcosa in più. A differenza delle mie,
dirette e
prevedibili, da lui non si sapeva mai cosa ci si poteva aspettare.
Sarebbe stato
anche capace di vendere i cuori di un centinaio di studenti
vivisezionati al
miglior offerente sul mercato nero dei malati mentali.
«Non
lo farai.».
«E
chi me lo impedirà?
Tu? Come credi di poter… ehi! Mettimi
giù!».
Due tizi
vestiti con
delle tute bianche si mossero per andare in soccorso del loro
cosiddetto capo,
ma bastò un mio cenno del capo per far apparire davanti a
loro due miei
compagni di studio, o di guai, armati di muscoli e una buona voglia di
iniziare
una rissa, soprattutto quello con i capelli biondi e con delle lame, all’apparenza finte, agganciate
ad un
aggeggio meccanico sulle sue mani.
«Voi
ragazzi restate
pure qui a godervi la serata.» mormorai, riferendomi a tutti
e quattro, i quali
non si scomposero nel vedermi afferrare quell’impiastro e
caricarmelo con
disinvoltura sulle spalle come se fosse stato un sacco di patate.
«Noi andiamo
a fare i fuochi d’artificio.» sogghignai, ignorando
l’incappucciato che si
dimenava inutilmente nel tentativo di liberarsi.
«Toglimi
le tue manacce
di dosso Eustass-ya!».
«Chiudi
il becco,
Trafalgar!».
«Non
ti permettere…»
iniziò a dire.
«‘Di darmi ordini’.»
lo imitai, concludendo la frase che mi ripeteva
sempre e che ormai mi aveva scartavetrato le palle. «Bla,
bla, bla. Adesso ti
faccio vedere io chi è quello grasso».
«Ti
ho punto sul vivo,
eh?» mi sfotté una volta che lo ebbi scaricato
malamente per terra, sul retro
dell’edificio dove si stava svolgendo quella stupida festa.
Gli
chiusi quella
boccaccia con un bacio improvviso e che di dolce non aveva proprio
niente. Era meglio
definirlo uno scontro fra titani. «Ti odio.»
mormorai piccato.
«E
io ti odio di più!»
ribatté saccente.
Mai una
volta che
potessi averla vinta.
*
Angolo
Autrice:
E’
una cosa che non ha
senso, ma era in cantiere da una vita, per cui se vi siete fatti
qualche risata
mi fa piacere, altrimenti pace, amici come prima ^^
Spero sia
tutto chiaro:
Ace ha appena iniziato l’università e
già fa faville, mentre Law e Kidd, beh,
si fanno la guerra come sempre.
Scappo,
un abbraccio a
tutti.
A breve
altre One-shot
e si, il capitolo di Chi non muore si
rivede. NON ME LO SONO DIMENTICATO *O*
See ya,
Ace.
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