L.o.c.k.e.d.
1^
Parte
No, quella in cui mi trovavo decisamente non era una situazione
normale. Anzi, era l’impossibilità fatta persona.
Eppure, pensai torturandomi il piercing che occhieggiava dal mio labbro
inferiore, mi trovavo proprio lì. E con
“lì” intendevo bloccata in un ascensore
del centro commerciale da quasi un’ora, sommersa di borse
stracolme, in compagnia di Tom Kaulitz. Se di
“compagnia” si poteva parlare. Non è che
avessimo fatto questa grande conversazione.
Comunque io l’avevo detto all’inizio che non era
una circostanza da ricercare sotto la categoria
“ordinaria”. Ed ero abbastanza
vicina da sentire il suo profumo...
Ma forse è meglio cominciare dall’inizio.
*
Quel giorno mi svegliai. Dato che circa sei miliardi di persone ogni
giorno trovano la forza di aprire gli occhi e di trascinarsi lungo la
giornata la potrete ritenere un’informazione irrilevante. Il
mio risveglio però non è un avvenimento
così ordinario. Per me il giorno equivaleva quasi sempre
alla notte, da anima nottambula quale sono, per cui spesso mi
addormentavo alle sei di mattina per svegliarmi alle sei di sera.
Quando andavo a scuola non potevo permettermi questi ritmi di vita
(anzi, mamma non me lo permetteva) e mi toccava immergermi a mia volta
nella massa di pendolari diurni ooogni giorno. Ma adesso che era estate
e avevo finito anche l’ultimo anno, potevo permettermi di
diventare un tutt’uno col mio letto anche per tre giorni di
fila, e guai a chi protestava! Quella Mattina fu la classica eccezione
che confermava la regola.
La sveglia trillò per circa venti minuti prima che la mia
mano intorpidita trovasse la forza di riemergere da sotto il cuscino
per scaraventarla a terra e poi gettare all’aria le coperte.
Sbuffando come un ciminiera mi misi seduta strofinandomi gli occhi e
cercando le pantofole contemporaneamente: non sopportavo il pavimento
gelato appena sveglia.
Mi alzai in piedi tutt’altro che cosciente cercando un buon
motivo per non tornarmene a letto di filato e, probabilmente per pura
inerzia, presi a zigzagare con l’andatura di uno zombie fra
le innumerevoli cianfrusaglie che disseminavano il suolo
tutt’attorno.
In origine, tutti quegli orsacchiotti sventrati, riviste
scarabocchiate, libri e fumetti strappati e bambole mutilate abitavano
innocentemente gli scaffali della mia cameretta color azzurro cielo, ma
col tempo sembravano chiaramente aver designato il linoleum graffiato
come loro nuova casa. E io non gliel’avevo certo impedito,
anzi, mi andava bene così. Chiunque fosse entrato in
qualsiasi momento nella mia stanza avrebbe, a ragione, pensato che come
domestica avessimo un tornado impazzito al posto della nostra cara
Ines.
Ines era una bella donna nera sulla cinquantina, tarchiata e molto
materna, a cui avevo sempre invidiato quel sorriso caldo che sembrava
avvolgere tutti; la sua voce profonda e autorevole aveva
incondizionatamente fatto rigare dritta la sottoscritta, almeno fino
all’indomabile età di diciotto anni. Negli ultimi
tempi infatti aveva rinunciato a chiedermi di risistemare almeno
quell’accozzaglia di roba sparsa sul pavimento al loro posto,
forse stanca di ricevere come risposta le mie imprecazioni bofonchiate.
Da mesi ormai si rifiutava di mettere piede nella mia stanza che,
abbandonata a se stessa, ormai era governata dal caos e dalla polvere
perenne.
Quella Mattina stavo appunto cercando di guadagnare la porta senza
ruzzolare a terra affidandomi solo su quattro dei cinque sensi (senza
contare il “sesto”), ma quando ormai sentivo di
essere vicina alla meta inciampai in qualcosa di rigido e ingombrante,
che quando fui col culo per terra identificai come uno scatolone colmo
di vecchie foto. Foto che mai e poi mai avrei permesso abitassero in
camera mia! Il colpevole poteva essere solo uno...
Ringhiai e imprecai per dei buoni minuti massaggiandomi il punto
dolente, lasciando che la rabbia mi desse di nuovo la forza per alzarmi
e scaraventarmi giù per le scale. Gli ultimi tre scalini li
saltai direttamente ma persi l’equilibrio e per poco non mi
ruppi l’osso sacro; fortunatamente, trovai come appiglio
l’attaccapanni sovraccarico che sostava vicino alle scale e
riuscii a riprendere la mia marcia furiosa senza danni.
Attraversai l’ingresso e quasi scardinai la porta della
cucina per entrare e ruggire:
«Daniel!».
Una veloce occhiata alla stanza linda mi permise di individuare la mia
“vittima”. Lasciai scivolare gli occhi lungo il
frigo lucente, i fornelli incrostati, il forno ammaccato, la tavola
strisciata e... eccolo!
Seduto tranquillamente su una sedia scassata, i gomiti appoggiati al
ripiano di legno a sostenersi la testa, il pestifero bimbo biondo
sogghignò socchiudendo gli occhioni verdi.
«Non ti è piaciuto il mio... regalino? Sai,
dovresti trovare una sistemazione per quello scatolone: ficcarlo nel
mio armadio non è stata una buona idea, lo sapevi, no? Certo
che siete venuti proprio bene tu e il tuo ex ragazz...».
«Sei morto, pulce!» strillai saltandogli al collo
per impedirgli di finire la frase. In uno scatto fulmineo, quello
scarafaggio socialmente riconosciuto come il mio adorabile fratellino
di nove anni sparì sotto al tavolo e le mie mani riuscirono
solo a graffiare l’aria. Ringhiai come un animale ferito e mi
tuffai anch’io in una sorta di battaglia sotterranea.
Già pregustavo la prossima punizione che avrei inflitto a
quella specie di serpe che stava cercando di divincolarsi
dalla mia stretta ferrea quando... suonò il telefono, ovvio.
Non so come riuscii a sentirlo sopra gli strilli di quella peste, ma ad
un certo punto, forse quando gli ficcai un pugno in bocca per farlo
tacere, udii un familiare squillo in lontananza. Ansimante per la
combattuta lotta, e pure un po’ contrariata (stavo vincendo!)
mi spostai i lunghi capelli scuri dietro le orecchie e schiacciando
Daniel a terra con un ginocchio per impedirgli di filarsela, gli
mormorai:
«Questa volta sei stato fortunato, piccolo mostro, ma alla
prossima che mi fai ti ritrovi appeso per i piedi al tetto.
Nudo».
Rotolai in piedi con l’agilità di un gorilla e
corsi a rispondere lasciando mio fratello pietrificato sul pavimento;
stavolta la sua espressione sembrava sinceramente terrorizzata,
constatai con piacere arricciando l’angolo del tappeto
persiano durante una scivolata per una curva troppo stretta.
Il telefono riuscì a trillare impaziente un’ultima
volta prima che lo afferrassi e me lo portassi all’orecchio.
«Pronto» esclamai chiaramente scocciata. Odiavo
qualunque genere di telefonate mattutine, anche se ormai ero in piedi
da un pezzo.
«Volevo solo assicurarmi che fossi riuscita a
svegliarti».
«Ciao Kat!» cinguettai sorridendo come
un’ebete.
Kat, anzi Katia, straordinario incrocio tra madre russa e padre
italiano, era, ed è tuttora la mia migliore amica. Tra di
noi c’è qualcosa di veramente forte, che ci lega a
filo doppio, la mia vita alla sua. Non so dire cosa sia,
però c’è! Ci conoscevamo
dall’asilo e ancora dopo tutti questi anni non ci eravamo
ancora stufate l’una di trascorrere ogni singolo minuto
libero con l’altra; a lei potevo perdonare qualsiasi cosa,
anche le odiate telefonate mattutine! Katia era così, mi
bastava sentire la sua voce melodica per cambiare completamente
atteggiamento e ritrovarmi a pensare che il mondo era meraviglioso.
«Sai, stavo per partire verso casa tua con
l’artiglieria pesante ma credo che a questo punto non ce ne
sia più bisogno», sghignazzò
metallicamente dall’altra parte del filo.
Potevo immaginarmela perfettamente, appoggiata al tavolino traballante
del corridoio, la cornetta bianca dal modello superato in una mano e
una ciocca color miele attorcigliata nell’altra.
Probabilmente stava anche masticando un chewingum alla fragola. Katia
aveva sempre una gomma alla fragola in bocca, che fosse mattina o notte
inoltrata, con la quale si divertiva a soffiare palloni profumati dalle
dimensioni considerevoli che io puntualmente le scoppiavo.
Adoravo Katia ma non mi era mai piaciuto quel suo continuo lavorio di
mascelle ovunque e in presenza di chiunque.
Anche la Mattina sentii in lontananza, attutito dai tre isolati che ci
separavano, lo scoppio di una bolla alla fragola. Cercai di ignorare
quel rumore fastidioso che mi faceva rabbrividire e mi concentrai sulle
parole della mia amica.
«... e devo andarci al più presto! Mi
accompagni?».
«Scusa Kat, non ti stavo ascoltando. Puoi
ripetere?».
La sentii sbuffare sonoramente.
«Lisa, svegliarti presto è così
terribile per te da farti spedire il cervello su un altro
pianeta?».
«Puoi ben dirlo! Sto ancora cercando un motivo per non
tornarmene dritta filata a letto».
«Uhm, vediamo, te lo trovo io? Dunque, c’era
qualcosa che dovevi fare oggi, forse andare in qualche posto, ma che
cos’era... oh, già, il concerto dei Tokio Hotel
forse?!».
Alzai gli occhi al cielo. Odiavo quel suo sarcasmo pungente.
«Grazie Kat, ma lo ricordavo da sola».
«Non ci metterei la mano sul fuoco... Comunque, se fossi
riuscita a registrare il senso delle mie parole, stavo dicendo che non
trovo più quella maglia che ho usato alla festa di quel
tizio la settimana scorsa, non mi ricordo come si chiamava... Un certo
Marco Qualcosa, mi sembra... Hai capito quale maglia intendo, no?
Sì, dai, quella nera, scollata, con i fiocchetti! Non so
dove l’ho messa, ho rivoltato la casa come un guanto, non la
trovo!, e visto che il concerto è stasera e non ho niente da
mettermi volevo che mi accompagnassi al centro commerciale vicino al
palasport, so che ci sono i saldi o comunque uno sconto di un tot
percento sui capi d’abbigliamento del secondo piano. Devo
andarci al più presto quindi non puoi dirmi di
no!».
Io, rimasta zitta per tutto il tempo di quel monologo improvvisato, non
potei trattenermi dallo scoppiare a ridere.
«Che hai tu da sghignazzare tanto?», mi
esclamò in un orecchio perforandomi i timpani con la sua
vocetta da soprano.
Finalmente mi ripresi e anche se a scatti a causa dei singhiozzi,
riuscii a risponderle.
«Kati, ma respiri mai quando parli?!».
«Ah, era solo per questo che ridevi come una scema?! Pensavo
ti stesse venendo un attacco di Nonsocosa, una malattia che ti fa
ridere ininterrottamente per dei giorni interi, ne devo aver letto in
qualche rivista la settimana scorsa...».
Sorridendo fra me e me, lasciai che il timbro piacevole della voce di
Katia si infrangesse nelle mie orecchie e lì si fermasse,
lasciando i pensieri liberi di vagare.
Perché d’accordo che ero sveglia da un pezzo, ma
per affrontare gli sproloqui di Kat dovevo prima riempire lo stomaco!
Finsi di ascoltare i vaneggiamenti della mia amica per qualche altro
minuto, poi però mi stufai e decisi di troncare la
conversazione usando come scusa un bisogno impellente del bagno.
Un po’ scocciata, Kat mi congedò dandomi
appuntamento a quel pomeriggio davanti a casa mia per partire alla
volta del centro commerciale alla ricerca di qualcosa da mettere che
avrebbe stupito perfino quei quattro figoni dei Tokio Hotel.
M’incamminai verso la cucina, sollevata di trovarla vuota e
silenziosa, rivolgendo i miei pensieri solo al barattolo di Nutella che
mi fissava maliziosamente aperto sopra al ripiano del lavello. Raccolsi
col dito una dolce goccia viscosa che scivolava testardamente lungo il
vasetto e me la portai alla bocca, assaporandola come fosse
l’ultima.
Mmm, buona. Troppo buona.
Afferrai il barattolo e mi sedetti a tavola, pregustando un altro pasto
di solo pane e cioccolata. Se quella sera avessi assistito al
più meraviglioso concerto della mia vita, tanto valeva
assumere un po’ di zuccheri per prevenire svenimenti o
tachicardie. No?
La mattinata scappò via in fretta, forse troppo velocemente,
così come il primo pomeriggio, passato quasi interamente a
sonnecchiare per recuperare le ore perse, e prima ancora che avessi
potuto mandare giù la peperonata di zia Lidia (mamma alla
fine mi aveva brutalmente strappato dalle mani il barattolo di
Nutella), Katia era sotto le mie finestre a suonare a trombe spiegate
il clacson della sua Panda Young bianca scassata.
Con solo la vecchia maglietta grigia extralarge che usavo come pigiama
corsi fuori ad aprirle il cancello.
In due manovre Kat parcheggiò nel mio vialetto e scese con
grazia dall’auto, masticando sfrontatamente a bocca aperta la
solita gomma alla fragola.
«Ehilà, cricetina! Ci si rivede finalmente! Mi
sembra una vita che... Ma non sei ancora pronta? Te l’avevo
detto che arrivavo verso quest’ora, non puoi essertene
già dimenticata! Su, forza, non ho tutto il
giorno!» esclamò vedendomi impalata sulla porta di
casa, assonnata, a piedi nudi e con i capelli tutti arruffati. Ridendo,
mi raggiunse a lunghe falcate e prese a spingermi dentro.
«Su, su, animo! A lavarsi e cambiarsi, il look sonnambula non
ti dona affatto! A meno che tu non voglia lanciare una nuova moda...
Forza, i vestiti te li scelgo io, tu vai!» mi disse
irrompendo nella mia stanza e lanciandosi a saccheggiare il mio
armadio.
Per qualche minuto rimasi ad osservare la maggior parte del mio
guardaroba volare per tutta la stanza sforzandomi di capire chi ero e
cosa ci facessi lì, quando Kat, dall’aria
soddisfatta, riemerse con una maglia della Reds di traverso sulla testa
e un paio di Converse in mano.
«Be’?» sbottò accorgendosi
della mia presenza. Io la fissai di rimando, senza capire. Lei si
alzò e mi trascinò in bagno sbuffando come una
locomotiva.
«Vai a farti una doccia, no? Dai, Lisa, collabora per una
volta!» miagolò cacciandomi in mano un asciugamano
bianco e chiudendomi la porta in faccia.
«Ma...» provai finalmente a protestare.
«Sbrigati!» mi urlò Kat dal corridoio.
Dopo qualche secondo di riflessioni decisi che sì, potevo
farmi una doccia veloce, così lasciai cadere a terra la
maglia grigia e mi infilai nello stretto cubicolo. Il forte getto di
acqua calda mi rianimò completamente e mi permise di
imprecare con lucidità contro Katia e la sua maledetta
irruenza per dei buoni minuti. Ogni volta che prendeva a parlare mi
trovavo con dieci borse di Dolce&Gabbana in mano o peggio, a
ballare sul cubo in discoteca! Era impossibile schiacciare lo stop, e
prima che te ne rendessi conto, tac!, ti trovavi davanti al fatto
compiuto.
Chiusi l’acqua e uscii dalla doccia avvolgendomi subito
nell’asciugamano che mi aveva preparato Katia; odiavo
avvertire anche il minimo soffio d’aria sulla mia pelle
bagnata. Presi un altro asciugamano più piccolo, stavolta
rosa, e mi frizionai velocemente i capelli. La mia sosia allo specchio
imitava alla perfezione ogni mio movimento, fissandomi con aria assorta
dall’altra parte del vetro. Mi avvicinai, appoggiandomi al
lavandino.
Non sono brutta, ma neanche nulla di speciale: i miei capelli sono
banalmente castani e lunghi, e se fossero lisci e setosi potrei anche
accettarlo, invece sono ribelli e tutti ondulati; ho un viso
ordinariamente ovale su cui spiccano, per un puro caso genetico, un
paio di occhi verdi e una bocca piccola e spesso corrucciata; sono alta
nella norma, forse un po’ di più, e ho un fisico
asciutto, in quel momento fatto risaltare ancora di più
dall’asciugamano. Ragazze così però ne
avrete viste a milioni, e a parte la voglia a forma di cuore che ho
sulla mano destra io non differisco da loro in niente...
Sbuffai e allontanai quei pensieri che potevano affondare la mia
autostima come una barchetta di carta e uscii dal bagno, rivolgendo
solo un’ultima occhiata distratta al mio riflesso
imbronciato. E quando per quei pochi attimi incrociai i miei stessi
occhi, ebbi l’impressione di scorgere uno strano luccichio,
quasi che loro sapessero, conoscessero già qualcosa a me
negato.
Ma sapessero cosa?, mi chiesi tornando nella mia stanza.
«Kat?», chiamai incerta affacciandomi dalla soglia,
indecisa se entrare oppure no.
«Mm-mm?», mugugnò una voce vagamente
localizzata dalle parti del mio armadio. Perfetto...
«Tutto bene?», chiesi seriamente preoccupata,
cominciando a muovere i primi passi nella stanza. Mi guardai intorno.
«Ma che cazzo è successo qui? Che hai
fatto?», gridai.
La mia stanza, se possibile, era ancora più disordinata
dello standard massimo. Maglie, jeans, gonne, scarpe, camicie,
pantaloni, canottiere, shorts, stivali e ciabatte erano sparsi in tutta
la stanza, da sopra al lampadario a sotto il letto, ma principalmente
sul pavimento.
Mi avvicinai all’epicentro di quello sterminio, raccogliendo
man mano i caduti di guerra che incontravo lungo il mio cammino e
spolverandoli amorevolmente con le mani.
Aggirai l’anta aperta dell’armadio, scavalcai una
pila di riviste e piombai come una furia sulla causa di quel genocidio.
«Katiusha Kalinin!», tuonai con le mani sui
fianchi. Sapevo quanto Kat odiasse il suo nome completo, e io mi
divertivo a sfoderarglielo davanti ogni volta che mi faceva
imbestialire.
Difatti, la mia amica sospirò lasciando cadere una maglia
gialla che non sapevo neanche di avere e mi guardò facendo
una smorfia. «Lisa, sai quanto odio il mio nome
completo».
Dentro di me sorrisi. Oh, sì lo sapevo bene.
«Non me ne frega un tubo! Mi spieghi a cosa è
servito scaraventare il mio armadio per la stanza? So ancora come
infilarmi una maglietta decente, e sicuramente l’avrei
trovata prima di te!», le strillai indicando il disastro che
aveva combinato. Kat si alzò in piedi guardandosi intorno
con la fronte aggrottata.
«Io non vedo alcuna differenza rispetto al disordine che
c’era prima».
Ruggii e saltai al collo di Kat che, ridendo, mi schivò. Mi
ripresi evitando di spiaccicarmi col muso a terra e tentai un nuovo
placcaggio, riuscendoci stavolta. Atterrammo entrambe di peso sul
letto, scompisciandoci dalle risate, e la finta rissa
terminò lì.
«Che sceme che siamo, eh?», singhiozzai
asciugandomi le lacrime.
«Soprattutto tu!», replicò Kat facendo
una linguaccia. Stavolta non ribattei: era inutile, contro di lei. Solo
in quel momento mi accorsi di essere avvolta solo in un misero
asciugamano bianco.
«Accidenti, devo cambiarmi!», esclamai saltando
giù dal letto. Con lo sguardo percorsi l’intera
camera. E ora, come avrei fatto a raccapezzarmi in quella baraonda?
Prima di aver capito dove mettere la mani sarebbero passati almeno
qualche decennio! Presa com’ero dall’orrenda
prospettiva di mettere tutto a posto prima di riuscire a recuperare i
capi d’abbigliamento che cercavo, ovviamente gli ultimi sui
quali avrei posato gli occhi, non mi accorsi di Kat che, silenziosa
come una pantera, mi si era avvicinata, e sussultai dallo spavento
quando mi posò sul petto una maglia.
«Che ne dici? Va bene questa?», mi chiese
ridacchiando. «Sai, credo proprio che per il concerto sarebbe
perfetta, insomma, tu ci stai da dio e in più è
nera e dark, proprio come i Tokio Hotel, è perfetta ti dico,
perfetta! Non la provi?».
La guardai inarcando un sopracciglio, stupita ancora una volta di come
riuscisse a parlare così in fretta senza mangiarsi neanche
una parola. Kat sembrò non notarlo, e anzi, sorrise
sventolandomi sotto la naso la maglia, euforica. Sbuffai e afferrai
rudemente la prossima causa del mio esaurimento nervoso, consapevole di
aver acceso la miccia della bomba a scoppio immediato imbottita di
commenti e gridolini eccitati su come sarei stata per-fet-ta per il
concerto e baggianate simili.
«Io esco, tu vestiti e truccati e poi fatti vedere, nel caso
serva qualche ritocchino... A dopo!», trillò Kat
senza lasciarmi possibilità di replica. Quando finalmente
rimasi sola, sospirai e mi stesi sul letto, stanca come non mai. Non
aveva senso mettere adesso i vestiti che avrei indossato questa sera,
si sarebbero spiegazzati e probabilmente li avrei macchiati, come
facevo di solito quando aveva addosso qualcosa da tenere da conto. E
poi, a pensarci bene, non ero sicura che la maglia che aveva scelto
quella pazza della mia amica fosse davvero adatta per il concerto.
D’accordo, era nera, stretta sotto il seno e poi libera, come
andavano di moda adesso, e aveva un sacco di nastri e fiocchetti,
però non riuscivo ad immaginarmela addosso. Io volevo
distinguermi, volevo dimostrare di essere diversa da tutte le altre fan
che mettono solo abiti neri per fingersi emo, dark o gotich. Volevo far
vedere la vera me stessa a quei quattro sul palco, se mai mi avessero
notata. Avevo il mio stile, non mi attirava l’idea di
confondermi con la massa pur di dire “a me piacciono i Tokio
Hotel”, anzi, non dovevo mostrarmi come tutte le altre!
Mi alzai dal letto e seguendo solo il mio istinto mi diressi verso la
maglia gialla, abbandonata per terra; rimasi a fissarla un bel
po’ prima di decidermi a prenderla in mano. La studiai: non
era niente male, in fondo. Chissà perché non la
mettevo mai... Sorrisi fra me e me mentre me la infilavo, immaginando
la faccia scandalizzata di Kat quando mi avrebbe vista uscire combinata
in quel modo: avrei sconvolto i suoi piani! Chissà, poteva
essere la volta buona che rimanesse senza parole!
Risi forte e mi accucciai sotto la scrivania per recuperare il paio di
jeans più frusto, graffiato e strappato che possedevo.
*
» Fine prima parte.
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