silver factory
.Silence
La
pioggia gelata scendeva acuminata come una serie di coltelli pronti a
trafiggermi mentre il sapore di un liquido metallico lentamente
aggrediva le mie
papille gustative.
Le
luci delle abitazioni e delle insegne sgargianti che si mescolavano
confusamente con quelle soffuse irradiate dai lampioni, cercavano
miseramente
di contrastare l'oscurità della notte che scendeva con il
suo manto oscuro.
Il
suono delle sirene in lontananza mi arrivava ovattato alle orecchie ma
ciò
non distoglieva la mia attenzione dalla pozza cremisi che si allargava
sul
marciapiede.
Tutto
si ridusse all'ultima persona a cui rivolsi l'ultimo pensiero e capii
che
il mio cuore non avrebbe mai smesso di battere realmente.
New
York non era mai stata più bella.
The Silver Factory or
Boardwalk for a
Pleasurable Death
.Bridge
Quando
ero piccolo, nella mia vecchia casa in campagna avevo una camera tutta
mia con un letto che affacciava sui verdi pascoli in collina. Era
piccola e
accogliente, però, quando la sera mi rifugiavo sotto le
coperte di lino,
iniziavo inspiegabilmente ad odiare quelle mura bianche; amavo la mia
vita e
amavo i miei genitori ma forse, mi dicevo, non ero felice
così, forse avrei
potuto meritarmi di meglio.
Mio
padre era una persona seria e distaccata, aggrappato fermamente al
residuo
di rigida austerità di quel tempo passato che ormai era
stato sotterrato dalla
fine della guerra; era una di quelle persone nate e cresciute attorno
ai
circoli letterari ed era fermamente convinto che tutta quell'aria di modernità
e leggerezza che si respirava in giro non avrebbero fatto altro che
attrarci
con l'inganno per poi dilaniarci senza pietà. Prima della
mia nascita era stato
un noto critico degli avanguardisti, si era allontanato di proposito
dalla
città perché secondo lui tutto quel clima di
spensieratezza e allegria non
erano nient'altro che una facciata. E la sera, prima che io andassi a
dormire,
era solito ripetermi la consueta frase che avevo imparato a cantilenare
come la
filastrocca dei mesi.
“Un
giorno potrai essere ciò che vorrai, nessuno ti
fermerà, ma non potrai mai
cancellare le tue radici”
Secondo
mio padre ero nato come figlio della tradizione e tale sarei morto.
Quelle
parole erano state il perno della mia infanzia e mi accompagnarono fino
ai 18 anni, quando decisi che il mio desiderio più grande
era di conoscere il
mondo. E qual'era il modo migliore se non trasferirmi nella caotica New
York
all'apice del suo boom economico?
Era
il 1963 quando raccolsi una discreta sommetta di denaro e fittai un
modesto
appartamentino per pochi dollari al mese.
Era
l'anno dell'uscita dei primi LP dei Beatles, della serializzazione di
The
Amazing Spiderman, del discorso di Martin Luther King, dell'assassinio
di John
Fitzgerald Kennedy, e io decisi di abbandonare i freddi moralismi del
passato
in favore di quel dolce veleno chiamato denaro – o almeno era
quello che
speravo di conquistare. Comprai una serie di libri sul diritto
monetario,
speculazioni di mercato e quant'altro (tutta roba nuova per un
ragazzino reduce
da studi classici) e passai l'intera estate a studiare prima di
trovarmi un
lavoretto come broker dilettante.
Nel
giro di pochi mesi ero stato travolto dalla frenesia di NewYork: la
città
diventava più prosperosa ogni giorno che passava, cantieri
su cantieri si
susseguivano con la stessa frequenza degli alberi che incorniciavano le
strade,
la borsa raggiungeva picchi sempre più elevati e i mezzi di
divertimento
crescevano a vista d'occhio. La tv, i fast food, il cinema, le serate
al luna
park, il jukebox mi avevano letteralmente strangolato e mi stavano
lentamente
soffocando in un ciclone di colori e profumi senza fine.
Oh,
si. Avevo trovato anche una fidanzata.
Una
ragazzina della mia età, bionda e mingherlina. Era una
pittrice amante
degli impressionisti, o forse espressionisti... non me ne intendevo in
realtà,
comunque era davvero brava.
Con
la mia nuova vita in città mi sentivo come una formica in
mezzo alla
savana; vivevo una vita vuota, priva di fondamenti e significati. Stavo
precipitando nel vortice di pigrizia e inerzia di cui erano accusati
tutti i
giovani come me, e fu sulle note di All My Loving che
fui protagonista
di un incontro che rappresentò il punto di radicale svolta
della mia vita.
Era
una sera come tante. Gli straordinari non retribuiti mi avevano tenuto
incollato alla scrivania fino alle 8, la scadenza dell'affitto si
avvicinava,
la dispensa era vuota, la mia ragazza era partita per Parigi insieme a
delle
colleghe dell'accademia d'arte e mio padre non voleva parlarmi quando
telefonavo a casa.
Forse
avrei dovuto aggiungere anche che era la vigilia di Natale ma questo
dettaglio non avrebbe cambiato alcunché, anzi, forse mi
avrebbe solo ricordato
quanto fossi solo in realtà.
Per
qualche strano motivo di cui non riuscivo a capacitarmi i miei piedi
invece
di proseguire dritto fino alla fine della strada e poi girare a destra,
avevano
deciso di svoltare a sinistra e dopo due isolati mi ero ritrovato sul
ponte di
Brooklyn. Ogni volta che da piccolo lo vedevo in fotografia non
riuscivo a fare
a meno di emozionarmi davanti a una delle tante dimostrazioni della
potenza
dell'uomo, avevo letto che quello era stato il primo ponte sospeso
più grande
al mondo. La città era deserta attorno a me e
così, con un po' di timidezza, mi
sporsi dalla ringhiera e rimasi a fissare la distesa d'acqua proprio al
di
sotto. Essa era scura e maestosa, sembrava in grado di risucchiare
qualsiasi
cosa e rimetterla nelle mani del creatore; era un'entità al
di sopra di tutte le cose mortali,
capace di cancellare in
pochi attimi un'esistenza. Era così pericolosa e allo stesso
tempo
affascinante.
La
sensazione di essere sospeso nel vuoto era per me così nuova
da procurare
qualcosa di indescrivibile dentro di me, la mente per un attimo divenne
improvvisamente vuota proprio come lo era la mia vita; tutto era
silenzioso, e
senza pensarci due volte mi ritrovai in piedi sulla ringhiera
d'acciaio, con le
mani appoggiate ad alcune travi e sotto di me nient'altro che oblio.
Mossi
una gamba in avanti e il mio piede si ritrovò sospeso nel
vuoto.
Un
rivolo di sudore dalla tempia scese sulla guancia e si
mischiò con la fitta
pioggia invernale che aveva preso a scendere, la bocca appena
dischiusa,
l'ossigeno bloccato nella mia gola, e mentre calibravo il peso del mio
corpo
leggermente in avanti, uno spasmo mi aggredì per un istante.
Era
accaduto tutto nell'arco di un paio di secondi ma vissi quegli attimi
come
se fossero stati minuti interminabili.
Mentre
ero pronto per lasciarmi andare, intercettai una luce accecante con la
coda dell'occhio e quando mi voltai, a terra poco dietro di me c'era un
uomo
che mi studiava con aria attenta. Non mi ero accorto del
suo arrivo né avevo sentito il rumore della macchina, ancora
in funzione, accostata più avanti.
La
pioggia riprese a scendere con il suo ritmo incessante, le mie vie
respiratorie si erano riaperte e le mie orecchie furono accolte
dall'allegro
ritornello dei Beatles. Adoravo
quella canzone.
Close your eyes and I'll kiss you,
Tomorrow I'll miss you.
Remember I'll always
be true.
“Potresti
spostarti da lì?”
Quasi
mi stupii di udire una voce e per sicurezza lanciai
un'occhiata a destra e a manca per assicurarmi che fosse indirizzata a
me, non
scorsi nessun altro oltre a quell’uomo.
“Mi
hai sentito? Ti ho chiesto di spostarti, così mi ostruisci
la visuale”
A
quel punto voltai il capo in direzione dello sconosciuto e lo fissai
con
perplessità.
“Come?”
“Sei
per caso sordo?”
Come
uno stupido rimasi a riflettere sulla sua domanda retorica e poi andai
a
ritroso con la mente “Quale visuale?”
L’uomo
alzò un poco la visiera del cappello, come per guardarmi
meglio e con un
gesto del capo indicò qualcosa davanti a noi. Agiva e si
muoveva con estrema
naturalezza, come se si trovasse a proprio agio in quella situazione e
la
pioggia che lo bagnava non lo infastidisse.
“Il
panorama visto da qui è spettacolare”
spiegò con voce vellutata e al
contempo annoiata, accompagnando le parole con un gesto della mano
“Però a
causa tua non riesco a gustarmelo perché sei
davanti”
Ci
furono una serie di elementi che mi stregarono completamente, forse era
l’estrema sicurezza che trasmetteva la sua voce o forse la
disinvoltura con cui
aveva posto quella domanda del tutto inappropriata ad un potenziale
suicida che
si stava quasi buttando giù da un ponte. Una forza
misteriosa mi spingeva ad
annuire e togliermi da lì per non contraddirlo, eppure il
suo tono mi
infastidì.
“C’è
un intero ponte se vuole vedere il panorama, le basta spostarsi di
qualche
centimetro. Qui sto io e non mi muovo” ribattei spostando lo
sguardo verso le
luci che illuminavano la sponda di Manhattan.
“Modera
il tono, bimbo. Hai idea di chi sono io?”
“Ma
chi diavolo si crede di essere?”
La
calma profonda che mi trasmetteva quell’uomo improvvisamente
si trasformò in
furore ardente che mi infuocava il petto e subito mi stupii di quella
mia
risposta, ero sempre stato un ragazzo educato e a modo e non mi sarei
mai
sognato di fare una cosa del genere, men che meno con uno sconosciuto.
“Chi
diavolo credi di essere tu” la stessa mia
domanda mi fu ritorta
contro con tanta semplicità da quell’uomo
così strano e anonimo, e per un
momento me lo chiesi anche io. Chi diavolo ero io? Un ragazzo di
campagna? Il figlio
di un professore che ripudiava i nuovi stili di vita come se fossero
dei
peccati mortali? Un ragazzo che cercava di fuggire
dall’austerità e dalla
morale che lo avevano intrappolato per 18 anni? Un ragazzo che non
aveva
trovato nulla nella sua vita?
“Roxas…”
mormorai solamente dopo qualche secondo di riflessione “Sono
Roxas… e
non pretendo di essere nient’altro”
Dopo
la mia risposta l’uomo si ammutolì e non disse
nient’altro. Studiai
attentamente ogni suo movimento, le mani che andavano a nascondersi di
nuovo
nelle tasche del pesante soprabito, le spalle basse, il collo rilassato
e il
suo sguardo,
insistentemente fisso su di
me. Tentai di dissimulare il mio imbarazzo dedicandomi alle luci della
città,
tuttavia dopo qualche lungo minuto la situazione mi seccò a
tal punto da
spingermi a valutare l’idea di scendere da quella ringhiera e
tornarmene a casa
– faceva freddo dopotutto. Eppure il mio rimuginare fu
interrotto dalla voce di
nuovo tranquilla dell’uomo.
“Roxas
hai detto? Che strano nome”
“Già”
io annuii e abbassai lo sguardo per spiarlo con la coda
dell’occhio,
senza però dargli la soddisfazione di voltarmi.
“Allora,
Roxas…” pronunciò il
mio nome con un’intonazione così profonda
che mi vennero quasi i brividi “Hai qualcosa in programma per
stasera?”
Io
spalancai gli occhi stupito e per un momento trattenni il fiato.
Cos’aveva
in testa quello sconosciuto con quelle sue domande assurde e del
tutto fuori luogo? Sembrava lo facesse apposta per farmi vacillare.
Scrutai
quello specchio nero che si stagliava sotto di me e poi, quasi con
preoccupazione, spostai di nuovo lo sguardo sull’altro.
“Niente”
risposi con una velocità quasi sospetta, come se dovessi
giustificare
qualche colpa o mancanza.
Quell’uomo
accennò un sorriso striminzito e mi porse una mano per
invitarmi a
scendere, forse fu nel notare la mia evidente perplessità
che decise anche di
accompagnare con le parole quel suo gesto.
“Neanche
a me va di passare la serata da solo. Vieni, ti faccio vedere un
posto”
“Ma…
ma non ci conosciamo nemmeno” fu l’unica protesta
che riuscii a
pronunciare con un fil di voce e lui a quel punto mi scrutò
con espressione
grave.
“Roxas,
noi non siamo altro che figure evanescenti con un nome e un volto fatti
per essere dimenticati nel tempo. La storia di ognuno è la
manifestazione del
proprio passaggio su questa terra e deve essere custodita gelosamente
come un
vecchio cimelio di valore. Essa è solo tua e nessuno ha il
diritto di
giudicarla, ci sono delle scelte che tu reputi giuste o sbagliate e che
non
tutti possono comprendere, quindi non sei tenuto a raccontarmi di te
come io
non lo farò di me. Per conoscere una persona non hai bisogno
di sapere la sua
storia ma solo le sue intenzioni. Noi ora siamo solo due uomini spogli
di ogni
ambizione e desiderio, due gusci vuoti che cercano un’anima
con cui collidersi”
Paradossale.
Ecco
come potevo definire l’intera situazione.
Era
paradossale come neanche 5 minuti prima ero sull’orlo del
suicidio e in un
batter di ciglia mi ritrovai sul marciapiede di un ponte sospeso,
assieme a un
uomo di cui non sapevo assolutamente nulla. Eppure non provai alcun
rimorso.
Quell'uomo
aveva ragione, non avevo motivo di dire
a qualcuno il perché del gesto che
stavo per compiere,
poiché le ragioni
erano mie e basta. Non ero in cerca dell'approvazione di nessuno, men
che meno
della compassione.
Avrei
potuto aspettare un altro giorno dopotutto.
“Posso
almeno sapere il suo nome?” sussurrai timoroso di spezzare
quel silenzio
irreale che era caduto tra di noi.
Mentre
l'altro mi apriva la portiera della macchina, mi penetrò con
il suo
sguardo e mi accorsi per la prima volta dei suoi occhi di un verde che
brillava
di luce propria. Si abbassò al mio orecchio per sussurrarmi
il suo nome
completo, e quando io lo guardai stupito lui parlò a voce un
po' più alta.
“Solo
Axel e basta... non pretendo di essere nient'altro” rispose
con un
sorriso riprendendo le mie parole “Almeno per
stasera”
All
my
loving I will send to you
All
my loving, darling I’ll be true
Non
riuscii a credere alla vera identità della persona che avevo
accanto a me
fino a quando la sua macchina non accostò al fatale
indirizzo di 231 East 47th
Street. Si trattava di un normalissimo
edificio di mattoni marroni dove era risaputo che il più
noto artista
commerciale della città avesse preso in affitto il penultimo
piano per un
centinaio di dollari all'anno.
Era lì che Axel Silvers
aveva costruito il suo impero
chiamato Silver Factory ed era sempre lì che, con i
venticinquemila dollari che
guadagnava per ogni commissione, si poteva permettere il lusso di
finanziare lo
stile di vita dei suoi impiegati: artisti in cerca di quei
quindici
minuti di celebrità che, secondo lui, non si potevano negare
a nessuno. Drag
queen, drogati, musicisti e liberi pensatori lo aiutavano a creare i
suoi
dipinti, recitavano nei suoi film, erano le sue superstar che in un
modo o in
un altro avrebbero lasciato un segno nel mondo.
L'appartamento era completamente
argentato: le
pareti, i pavimenti, il mobilio, l'interno dell'ascensore, il gabinetto
e probabilmente
anche il gatto lo era. Quando un giorno gli chiesi perché
avesse scelto proprio
quel colore, lui mi rispose che il colore argentato rappresentava
meglio di
qualunque altro il narcisismo, dal momento che restituiva le immagini
proprio
come se fosse uno specchio. Quella semplice risposta racchiudeva
l'essenza del
mondo in cui ero entrato senza neanche saperlo.
Girando per quell'ambiente non potei
fare a meno di
rivedermi nei panni di un bambino al parco giochi, perché
dopotutto la Silver
Factory, tanto ambita ed elogiata quanto criticata e disprezzata, ai
miei occhi
non era che un enorme sala divertimenti. Un luogo in cui il radicalismo
morale
delle mie origini e il vuoto della mia vita attuale non potevano
più
rincorrermi.
Volteggiavo in preda a un'ubriachezza
di risate,
davanti alle pareti in cui potevo specchiarmi perché
ricoperte di carta
stagnola e altri strani materiali, e fu come a rallentatore che mi
accorsi
della presenza silenziosa di Axel dietro una cinepresa.
Fino a quel momento non avevo mai
realizzato quanto
fossero intensi i suoi occhi, per non parlare dei suoi capelli del
colore del
fuoco che spiccavano con totalitarismo in quell'eccesso di grigio e
brillantezza.
I nostri sguardi entrarono in
collisione e mi accorsi
della nota di realizzazione che si disegnò sul suo volto man
mano che io
correvo nella sua direzione.
“Rimani qui con
me” vociò in un sussurro quasi
impercettibile mentre si avvicinava a me.
I secondi sembravano estendersi alla
lunghezza delle
ore, la lancetta del grande orologio appeso alla parete aveva cessato
di
muoversi e i suoni attorno a noi erano attutiti dall'atmosfera carica
di pathos
che regnava come sovrana.
Avevo letto molto riguardo Axel e la
sua fama, per me
fino a quella sera non era stato che un nome al quale abbinare delle
opere
d'arte, eppure in quel momento noi non eravamo nient'altro che figure
evanescenti con un nome e un volto fatti per essere dimenticati nel
tempo.
Vidi Axel per la prima volta come una
persona, fatta
di carne umana e mente geniale, e quando i nostri sguardi si
incrociarono
avvenne l'alchimia. I nostri cuori erano affini e se fossero entrati in
contatto avrebbero potuto creare un'anima completa.
E in quel momento io sorrisi, come mai
avevo fatto
negli ultimi anni.
“Buon Natale Axel”
Passai
la notte alla Factory, ammirando i quadri ammassati caoticamente a
ridosso della parete e mangiando zuppa Campbell in sua compagnia.
Non
parlammo molto, Axel di suo in realtà era una persona molto
silenziosa ma
dedita piuttosto all'osservazione, più volte l'avevo infatti
scorto a studiarmi
attentamente o anche a riprendermi con la sua Bolex mentre io ero
immerso in
qualche attività. In una situazione normale tutto
ciò mi avrebbe messo i
brividi, non mi sarei mai fatto trascinare chissà dove da
uno sconosciuto né
gli avrei permesso di filmarmi, eppure in quella circostanza tutto mi
sembrava
così normale che quasi non ci prestai attenzione. Era come
se lo avessi
conosciuto da sempre.
Tacitamente,
Axel mi stava rendendo il protagonista del suo mondo fantastico e
il motivo ancora mi sfuggiva. Avevo passato tutta la notte precedente a
rimuginare non sull'azione che stavo per compiere ma sul
perché quell'uomo
strano e di poche parole mi avesse teso la mano. Più ci
pensavo e meno riuscivo
a venire a capo del mio interrogativo, così decisi di
arrivare direttamente
alla fonte del problema e risolverlo.
“Perché
ieri sera mi ha salvato?” domandai schietto a un certo punto,
avvicinandomi al divano sul quale l'altro era steso e intento a leggere
Vogue.
Lui
alzò appena lo sguardo dalla rivista, senza però
scollare il naso
dall'articolo, e assunse un'espressione stralunata “Definisci
salvato”
Io
mi sedetti sulla punta del tavolino da tè, a pochi
centimetri da lui e
scelsi accuratamente le parole da utilizzare perché non mi
andava di espormi
maggiormente e lui stesso aveva detto che non avrei dovuto dargli
spiegazioni.
“Ero
sul ponte...in bilico”
“E
allora?” domandò ancora una volta con quell'aria
di chi non ha idea di cosa
si stia parlando.
Boccheggiai
un paio di istanti in preda allo sgomento e mi domandai se in
realtà non mi stesse prendendo in giro “Lei mi ha
aiutato a scendere e mi ha
portato qui, no?”
“Quindi
mi stai ringraziando perché ti ho aiutato a scendere o
perché ti ho
portato in un luogo caldo in cui asciugarti e passare la
notte?” si fece
interessato e si mise a sedere per dedicarsi meglio all'argomento. In
quel
momento odiai spasmodicamente quel tizio perché era evidente
di cosa stessi
parlando eppure l'aria di finta inconsapevolezza che ostentava con
naturalezza
mi spingeva a credere alla veridicità del suo tono.
Mi
alzai infastidito e gli rivolsi un'occhiataccia prima di ritornare sui
miei
passi “Mi sono stufato”
“Dove
te ne stai andando?” Axel si alzò e mi
seguì con leggerezza, proprio come
se lui fosse un bambino e stessimo giocando insieme. Ma io non ero
dello stesso
avviso, forse avrei dovuto essergli grato se ero ancora lì
quel giorno però il
suo atteggiamento mi urtava non poco.
“Dove
vai?” mi chiese ancora una volta quando ero arrivato
all'appendiabiti
vicino all'ingresso.
“Tu
che dici?” risposi acido.
“Se
vai a prendere la colazione io voglio un caffè doppio e
pancakes, per il
pranzo poi ci arrangiamo”
“Cos-
ma che stai dicendo?” balbettai inizialmente sconcertato, ma
quella fu la
goccia che fece traboccare il vaso e realizzai che sicuramente mi stava
prendendo in giro perché un'artista del suo calibro non
poteva essere così
idiota. Serrai i pugni e aggrottai la fronte “Me ne sto
andando! Via. A casa
mia. Qualsiasi altra parte che non sia qui” mi ritrovai a
gridare senza una
ragione ben precisa “Mi sono stancato di essere preso per il
culo da un tizio
che neanche conosco”
Axel
sgranò gli occhi, forse preso alla sprovvista dal mio tono
“Io non ti sto prendendo
per il culo”
“Ah
no? Allora perché non dici nulla di sensato? Me ne vado e tu
mi ordini la
colazione, ti chiedo perché non mi hai lasciato su quel
ponte e tu inizi a
tergiversare. Vuoi che te lo dica a parole? Volevo gettarmi da
lì, non penso
che una persona sana di mente salga sulla ringhiera di un ponte sospeso
per
prendere una boccata d'aria”
“Oh...
volevi farla finita? Mi dispiace, credo di non aver colto la nota
suicida nei tuoi occhi” lo vidi sbadigliare svogliatamente e
si portò una mano
tra i capelli rossi per ravvivarseli.
“Stronzo,
in realtà non ti dispiace neanche un po'. Fai schifo a
mentire” senza
accorgermene avevo mandato al diavolo anche ogni tipo di formalismo, e,
senza
neanche un motivo ben preciso avevo iniziato pure a piangere
silenziosamente.
“Effettivamente
non mi dispiace neanche un po'” ammise con una
serietà e una
naturalezza che mi sconcertarono più di quanto non fossi. Le
lacrime scendevano
sulle mie guance ma non mi interessava, non sarei andato a nascondermi
per non
farmi vedere.
“Tu
non avevi e non hai tutt'ora
l'aria di uno che vuole
togliersi la vita” sospirò addolcendo il tono e
posò una mano sul mio capo,
prima di prendermi una mano e stringermi forte al suo petto
“Non avevo nessun
motivo di salvarti da un possibile suicidio perché tu non lo
avresti
commesso... tu sei soltanto tremendamente, profondamente solo. Quello
di cui
avevi bisogno era qualcuno che ti stesse accanto... e io credo di aver
colto
l'urlo straziante della tua anima, perché la mia
è stata richiamata con una
forza tale da essere ora terrorizzata di lasciarla andare”
Non
seppi il motivo preciso per cui lo feci, ma mi aggrappai saldamente al
suo
maglione e affondai la faccia nel tessuto. C'era qualcosa di quest'uomo
che
riusciva a placare tutte le mie insidie interiori con la sua sola
presenza,
probabilmente lui era quell'amore platonico e irraggiungibile che avevo
sempre
cercato e a cui ognuno è destinato.
“Io
non sono solo” tentai di protestare debolmente.
“Lo
sei” lui mi assicurò passando una mano tra i miei
capelli.
“Sto
bene così”
“Sei
infelice”
“Io
ho una ragazza che mi ama. Sono felice. Va tutto bene” mi
staccai alla fine
alzando di poco il tono.
La
sua era come una dolce cantilena che voleva farmi convincere di
ciò che in
realtà voleva lui; io da parte mia cercavo di contrastarlo
come meglio potevo
aggrappandomi all'ultimo barlume di ragione che avevo dalla mia, anche
se alla
fine, in realtà, non sapevo più a cosa volessi
arrivare, cosa volessi dire.
Cercavo solamente di contrastare qualunque cosa dicesse o facesse Axel
per
sfuggire alla realizzazione che probabilmente stessi iniziando a
provare
pulsazioni proibite nei suoi confronti.
Axel
rimase immobile per un tempo interminabile, continuando a guardarmi
mentre
il mio petto si muoveva velocemente a causa del respiro accelerato. Ero
affascinato di come potesse scrutarmi sempre con la stessa
intensità della
prima volta e mentre gli diedi le spalle per andare a prendere il mio
cappotto,
lui mi prese con gentilezza un braccio e appoggiò la fronte
alla mia nuca.
“Hai
gli occhi stanchi di chi spera tanto e non arriva mai niente. Vieni, le
tue parole addormentale con me” sussurrò
impercettibilmente e qualsiasi mia
altra risposta mi morì in gola.
Mi
condusse nel letto sfatto, dove io avevo passato la notte, e mi fece
sedere,
prima di baciarmi con un'accortezza che nessuno aveva usato nei miei
riguardi.
Axel
era una persona molto diffidente nei confronti del mondo, era un acuto
osservatore e non osava mai distogliere l'attenzione da qualcosa per
una
qualche strana e ossessiva paura di cui non riuscivo mai a venire a
capo,
tuttavia, quando mi baciava, riusciva ad abbandonarsi totalmente alla
passione
del momento e spogliarsi di ogni ambizione e desiderio.
Mi
stupii della velocità con cui gli permisi di baciarmi e poi
di portarmi a
letto, era stato dettato tutto da un'ancestrale istinto di benessere
mentale,
per la prima volta ero riuscito a sottomettere la ragione ai
sentimenti, al
desiderio, alla lussuria, e realizzai che quello doveva essere il
preludio di
un amore fulmineo, fatale, colmabile soltanto con la presenza
dell'altro.
Quando
però aprii di nuovo gli occhi e realizzai ciò che
avevo appena fatto,
nulla mi sembrò più sbagliato e immorale. Avevo
tradito la mia fidanzata con
una persona conosciuta neanche ventiquattro ore prima, un uomo per
giunta, e,
benché il mio cuore si sentisse per una volta appagato, il
mio raziocinio mi
condannava per il gesto compiuto. L'etica e gli insegnamenti che mi
furono
impartiti in quella lontana vita che avevo abbandonato, stavano di
nuovo
bussando alla porta della mia coscienza. Mi sentii dilaniato,
colpevole,
agonizzante.
Mi
misi a sedere nel centro del letto, con solo le coperte che mi
coprivano,
e guardavo Axel, affacciato alla finestra,
intento ad ammirare i grattacieli di New York. Sapevo di essere un
debole ma in
quel momento non riuscivo a fare altrimenti e mentre le
lacrime
scendevano sulle mie guance, andai alla ricerca dei miei vestiti con
l'intenzione di scappare e non tornare mai più.
“Nevica”
lo sentii sussurrare in preda a un fatalismo estatico e per la prima
volta, da quando mi ero risvegliato, si voltò verso di me
“Secondo te perché la
neve è bianca?”
Io
rimasi fermo, al centro della stanza, con gli occhi gonfi e spalancati.
Scossi debolmente il capo e mi morsi il labbro inferiore
“Axel...”
“Rispondimi,
Roxas”
Axel
per me era un nemico, l'uomo nero che si rintana sotto al letto, la
pioggia in una giornata estiva, il primo capello bianco di un ventenne,
il
serpente tentatore. Il mio nome associato al suo non poteva funzionare,
lui
apparteneva ad un mondo differente dal mio. Eravamo lontani anni luce
l'un
dall'altro... perché faceva così male?
“Mi
dispiace... non... non posso” abbassai il capo e cercai con
tutte le mie
forze di respingere le lacrime che continuavano a scendere
imperterrite.
“Perché
no?”
Non
riuscivo più a guardarlo, semmai avessi avuto il coraggio di
farlo mi sarei
ritrovato faccia a faccia con il peccato, e più lui tentava
di avvicinarsi a me
e più io indietreggiavo. Strinsi forte al petto il maglione
che avevo ancora
tra le mani e lì affondai lì tutto il mio dolore
e la mia angoscia “Che cosa ho
fatto... cosa ho fatto”
“Aspetta,
stai calmo”
Il
solo vederlo con quella sua aria di innocenza, che mi parlava
cautamente con
la speranza di non incutermi ancora più timore di quanto non
provassi, mi fece
sentire ancora più male perché capii che in
quella stanza ero io quello
sbagliato. Colui che era nato nei rigidi moralismi della vecchia scuola
e che
aveva perso la propria strada nella lussuria e nel peccato. Se mio
padre avesse
saputo mi avrebbe rinnegato seduta stante e io non mi sarei opposto.
“No...
ti prego non toccarmi. Io... io non posso più stare qui,
devo andare
via. E stato tutto un errore, scusami, io non dovevo rimanere
qui”
Cercai
di parlargli con quella poca calma che riuscivo ad ostentare ma alla
fine mi ero ritrovato ad urlare le ultime parole e a divincolarmi
forsennatamente, perché Axel aveva ignorato tutte le mie
parole e con scatto
felino mi aveva afferrato da dietro e mi aveva bloccato le braccia. A
quel
punto non riuscii più a trattenermi e piansi tutte le
lacrime che avevo in
corpo, il dolore, l'angoscia e il rimorso che mi impedivano di crearmi
una vita
indipendente. Fino a quel momento avevo fatto sempre tutto in funzione
di quello
che volevano gli altri per me, ma non avevo mai pensato ai miei bisogni
perché
essi semplicemente erano di secondaria importanza.
“La
neve è bianca perché è pura”
mi sussurrò all'orecchio e il suo caldo
respiro mi sfiorò il collo “La neve è
il bene che scende per coprire il male
della terra, essa esprime la speranza per il futuro, la fiducia nel
prossimo e
nel mondo. Lascia che la neve ricopra la tua sofferenza e il tuo
passato”
“Axel...”
la mia voce tremava ancora e continuavo a tenere gli occhi chiusi
come a non voler vedere la verità di cui voleva convincermi
lui, la bella
favola che avrebbe potuto liberarmi dalle catene del mio cognome.
“Roxas,
io ti capisco. La tua anima è proprio come la mia... noi
siamo fatti
per esistere insieme”
“Leggi
per caso Shakespeare?” singhiozzai ironico e a quel punto
Axel scoppiò
in una risata cristallina e mi strinse le spalle.
“Siamo
fatti anche noi della materia di cui son fatti i sogni, e nello spazio
e
nel tempo di un sogno è racchiusa la nostra breve
vita… Rox, la vita è troppo
breve per lasciare spazio all'infelicità”
Si
dice che il bianco sia il colore del silenzio e del freddo, ma allo
stesso
tempo anche della purezza e della spiritualità.
“Naminé
veste sempre di bianco...” mormorai asciugandomi le lacrime e
mi
rigirai in quella sorta di abbraccio per stringerlo forte a me.
“Lei
non ti merita” rispose senza poi aggiungere nient'altro.
Axel
mi diceva che se Naminé mi avesse amato davvero non mi
avrebbe lasciato
solo, non avrebbe mai lasciato un tale dolore crescere nel mio cuore.
Parlava
come se conoscesse lei e me, eppure tutte quelle verità che
uscivano dalla sua
bocca avrebbero potuto benissimo scrivere la mia biografia.
Quando
eravamo insieme Axel mi guardava e mi sorrideva, senza sapere
però che
intanto mi tremavano le mani. Forse avrei dovuto scappare quando
iniziai ad
amare cose di lui che gli altri detestavano ma non fui mai abbastanza
forte. Se
Axel fosse stato un elemento per me doveva essere la neve: freddo ma
meraviglioso. Perché lui non era una persona affine ai
sentimentalismi, non era
caldo e passionale come il suo look poteva suggerire,
ma con la sua sola esistenza riusciva a cambiare una vita.
“Amo
la neve” dissi chissà quanto tempo dopo,
quando ormai la notte era
calata di nuovo sulla città.
“Domani
torna di nuovo, ti presento qualcuno”
Feci
come mi disse e tornai tutti i giorni, per i due anni successivi.
.Factory
Men
Dopo
un anno di permanenza alla Silver Factory mi era quasi impossibile
tracciare un dipinto esaustivo sulla persona di Axel Silvers,
poiché dopo quel
fatidico natale del 1963 non parlammo mai delle nostre vite private
prima del
nostro incontro, il tutto si riduceva a una semplice
relazione sbocciata
dal nulla e senza motivo apparente. Axel era un tipo quieto e non amava
parlare
di sé o delle sue origini, tutto quello che sapevo di lui lo
scoprii nel tempo,
leggendo le interviste rilasciate, parlando con i suoi colleghi,
assistenti e
amici che erano soliti frequentare la Factory o addirittura ammirando
le opere
che produceva. Egli era ben consapevole del potere del silenzio e
spesso
durante le interviste si comportava come un ragazzino idiota,
ritorcendo le
domande o facendo grugniti insensati – proprio come faceva
con me – preferendo,
così, rimanere un mistero e non rivelare nulla del suo
passato. Lui diceva
sempre di essere come uno specchio, quello che rifletteva era solo la
facciata
esteriore di una società che pretendeva tutto e nulla, la
sua anima e la sua
storia erano invece lasciate al sicuro, riposte lontane dagli occhi del
mondo.
Axel
Silvers non regalava nulla a nessuno, restava muto a scrutare
cinicamente
e forse anche un po' adorante i cambiamenti che animavano la
società e la
cultura americana di quel tempo, e nel frattempo veniva pubblicizzato
come se
fosse lui un prodotto di marca. Tutto quello a cui mirava era
l'estetica. La
questione adesso non era più cosa pensava, quali erano le
sue emozioni, o cosa
ci fosse nelle lattine di zuppa che dipingeva, ma come egli si
presentava agli
occhi del pubblico. Lui cercava quello che gli altri volevano e senza
aggiungere assolutamente nessun tocco artistico lo metteva su tela e lo
riconsegnava sotto forma di opera d'arte. Era questa la pop art,
quell'arte
della quotidianità, della società in via di
cambiamento e a cui lui era devoto.
Axel
in persona era diventato un'icona pop, con il passare del tempo aveva
iniziato a creare un'immagine che si addicesse alla propria
personalità di
artista d'avanguardia. Seguendo la moda underground, mise a punto lo
stile che
sarebbe diventato un modello di moda: occhiali scuri, giacca in pelle,
maglie a
righe e selvaggi capelli rossi.
Lui
era l'anima della Silver Factory ma allo stesso tempo ricopriva un
ruolo
marginale, quell'industria in miniatura per
sopravvivere non avrebbe mai
potuto ruotare attorno alla sola personalità di Axel.
Ovviamente c'era
dell'altro.
In
quel microcosmo argentato e decadente, c'era un divano rosso trovato su
un
marciapiede della 47ª strada, scenario di fotografie e
pellicole scabrose,
ricettacolo di feste d’avanguardia a base di anfetamine; lo
Studio accoglieva
il mondo sommerso di una New York perduta, viziata e trasgressiva.
Uno dei
tanti frequentanti d'abitudine era Marluxia, meglio conosciuto come
Candy
Darling, attore (o forse attrice) di fama di molti dei film della
Factory, era
dedito al travestitismo quindi non sapevo mai come riferirmi a lui (o
lei),
però era una persona davvero gentile e quando arrivava mi
regalava sempre una
scatola di caramelle perché ai suoi occhi ero un bambino in
mezzo a quel branco
di animali più grandi di me. Marluxia era il più particolare
ma anche
gli altri erano tipi interessanti. C'era Zexyon Geldzahler, forse il
più
normale lì dentro e con cui amavo spesso dialogare, era uno
storico dell'arte
di gran fama e allo stesso tempo si dilettava a scrivere saggi e
trattati che
però nessuno leggeva... probabilmente per questo motivo era
sempre così triste.
Luxord Mead era un attore abbastanza conosciuto…. per me
però era famoso perché
girava per la Factory sempre nudo e con i pattini a rotelle, e questa
sua
malsana abitudine spingeva spesso anche altri a seguire il suo esempio.
Poi
c'erano Xaldin e Xigbar... in realtà non sapevo che dire su
di loro a parte che
erano dei tossicomani. Demyx Reed era il chitarrista dei Velvet
Underground,
gruppo preferito di Axel e di cui si era autoproclamato manager e
autore
ufficiale delle cover per i loro album. Demyx era la persona
più vicina a me
forse per l'età o forse perché era il
più travolgente. E infine c'era Larxene
Sedgwick, ricca e bellissima ragazza di Cambridge, era il soggetto
preferito
dei più famosi fotografi di Vogue, e quando divenne la musa
di Axel, circa un
annetto prima che lo incontrassi, emulò il suo stile facendo
in modo da
renderli la coppia più in voga di New York: tutti li
volevano ovunque e
avrebbero fatto di tutto pur di accaparrarsi la loro presenza anche
solo per
pochi secondi. Erano loro le opere in mostra nelle più
esclusive feste della
città.
Io
invece nel giro di un anno ero diventato il prediletto di Axel: non
avevo
particolari abilità né meriti per cui meritare il
diritto di frequentare la
Silver Factory, rimanevo il solito fallimento dalla vita vuota e
scialba anche
a contatto con le celebrità. Era come se tutto quello che
riuscissi a fare
fosse amare. Amavo Axel alla follia, amavo il suo odore, i
suoi baci, il suo calore, i suoi occhi, i suoi capelli, la sua pelle
liscia. Amavo qualsiasi cosa di lui ma a volte non sembravo
essere ricambiato
o almeno non del tutto.
Axel
era una persona fondamentalmente fredda, non dava nulla senza la
sicurezza
di un tornaconto personale e anche in amore era abbastanza refrattario.
Non
aveva mai detto di amarmi però mi voleva sempre accanto a
sé, ovunque andasse,
qualunque cosa facesse.
Era
cominciato tutto una mattina di circa sette mesi prima, quando la
nostra
relazione, allora segreta, era ancora in fase di decollo; io
saltuariamente
facevo un salto a casa di Axel con la premura di preparargli un pasto
decente e
quel giorno assieme alle uova strapazzate gli consegnai una lettera
trovata
nella cassetta della posta. Era senza francobollo né
mittente ma probabilmente
erano dettagli di secondaria importanza perché quando vide
quella busta si
ritirò in un angolo, lontano da me e dalle sue tele, e si
estraniò totalmente.
Mi
chiesi più volte da quale mano potessero provenire quelle
tre intense pagine
che Axel lesse e rilesse più volte con avidità,
come se la sua vita fosse
dipesa da quelle parole catturate dall'inchiostro. Un parente, un amico
che non
vedeva da anni, un collega, un magnate che criticava le sue opere,
qualche fan,
un'ipotetica fidanzata di cui non mi aveva mai parlato... Passai in
rassegna tutte
le possibili ipotesi ma niente, non seppi mai nulla a riguardo e questo
non
faceva altro che sottolineare l'enorme abisso che c'era tra me e Axel
perché
mentre lui mi conosceva, io non sapevo assolutamente niente sul suo
conto.
Passai
un lungo periodo di tempo perso nei miei pensieri, a fissarlo dalla
lontana poltrona del soggiorno mentre studiava nei minimi particolari
quella
lettera dalla carta ingiallita. La sua espressione diventava sempre
più
afflitta ogni minuto che passava finché non lo vidi piangere
silenziosamente.
Per
la prima e unica volta in tutta la mia vita
vidi Axel piangere e io, non so perché, ne rimasi sconvolto.
Axel
per me era sempre stato come il superuomo decantato da Nietsche, era un
faro nella nebbia della mia vita, una speranza dal profumo di certezze.
Era
un'entità al di sopra dei comuni mortali, ma dopo quella
lettera rividi in lui
tutti i sentimenti terreni che fino a quel momento aveva celato dietro
la sua
silenziosa facciata di celebrità.
Axel
era una persona come tutte le altre e quel suo pianto dimostrava che i
nostri cuori dopotutto erano simili.
Forse,
se gli avessi chiesto spiegazioni lui me ne avrebbe date, tuttavia
decisi di rispettare il suo momento di intimo dolore e gli rimasi
vicino
fisicamente. Lo raggiunsi ai piedi del letto dove si era rintanato e lo
strinsi
più forte che potei, per ricordargli che nonostante tutto
sulla terra era
sempre presente un'anima che gli era devota.
“Oggi
non andare a lavoro” furono le uniche parole che mi rivolse e
io annuii.
Come
mi disse lui, non andai a lavoro quel giorno, e neanche il giorno dopo,
e
neanche quello dopo ancora. Passai così tanto tempo a casa
di Axel che questi
decise al mio posto che avrei dovuto trasferirmi da lui, mi
obbligò anche a
lasciare il lavoro perché mi voleva sempre con
sé. All'inizio mi opposi ma alla
fine dovetti arrendermi.
Axel
mi offrì tutti gli onori che una persona potesse desiderare,
grazie a lui
conducevo uno stile di vita paragonabile a quello dei più
ricchi ereditieri
d'America. Io, che da piccolo non avevo mai visto tanta agiatezza, ero
ora
circondato dal lusso e dal benessere; avevo visto città,
gioielli, soldi, cose
che neanche sognavo quando vivevo nella mia casetta in campagna.
Arrivato ai
vent'anni la mia vita sapeva di déjà-vu, avevo
già visto e fatto
qualsiasi cosa che un ragazzo della mia età potesse
desiderare.
Quella
bella vita però era scialba per me perché il mio
unico bisogno era
l'amore, qualcuno al mio fianco che non mi facesse sentire solo.
Vivevo
la vita più invidiabile delle star acclamate sui giornali di
gossip e,
anche se non era ufficiale, tutti sapevano di me e Axel. Tutti
chiedevano ma
lui non osava rispondere.
Un
accessorio. Ecco cos'ero, un accessorio carino da
portare dietro a
feste e ricevimenti, da abbinare al proprio vestito e all'occasione.
I’ve
seen the world
Done it all
Had my cake now
Diamonds
brilliant
In Bel Air now
Hot summer
nights, mid July
When you and I
were forever wild
The crazy
days, city lights
The way
you’d play with me
like a child
“Dem piantala
con quella cazzo di
chitarra”
I miei pensieri furono
brutalmente interrotti
dalla voce assonnata di Xigbar
che proveniva dal divano rosso dove l'uomo era riverso, causa coma
post-sbornia. Era incredibile come
certi
soggetti riuscissero ad ubriacarsi anche la mattina.
Trattenni
a stento una risatina e lanciai un'occhiata divertita a Demyx che
intanto si era esibito in un buffo broncio accompagnato da un'aria
infastidita
“Devo riscaldarmi per il live di questa sera!”
“Puoi
farlo da casa tua”
A
qualsiasi ora del giorno la Silver Factory era sempre piena di gente
che
entrava e usciva, tanto che spesso mi chiedevo se gli altri avessero
una casa
propria – non era raro trovare qualcuno passare la notte
lì, magari perché
troppo devastato di alcol e eroina per tornare a casa.
“Questa
volta sono d'accordo con Xigbar. Hai rotto le palle”
Appena
udii la voce di Luxord che si avvicinava, chiusi di nuovo gli occhi per
evitare di entrare a contatto con scene di nudo e tornai a stendermi
sul mio
dormeuse.
Da quando la mia permanenza alla Factory era diventata
un'habitué
avevo preteso un divano personale sul quale nessuno era autorizzato a
sedersi,
ad eccezione di Zexion però, perché lui era il
meno propenso alle oscenità
degli altri.
Ci
furono delle risatine di sottofondo e improvvisamente mi sentii una
pacca
sulla testa che mi fece letteralmente saltare in aria e spalancare gli
occhi.
“Piantala
di fare il pudico, sono vestito” mi disse con malizia mentre
continuava a girare a vuoto sui suoi pattini argentati “Non
c'è bisogno di
essere tanto vergognosi, sono cose naturali che hanno tutti... o per
caso sono
le dimensioni che ti spaventano?”
“Luxord,
ti sembrano cose da dire in presenza di un angioletto come
Roxas?” si
intromise Marluxia che era appena entrato dalla porta
d’ingresso e si diresse
verso di noi con passo mellifluo. Indossava una lunga pelliccia beige e
i suoi
capelli rosa, già abbondantemente cotonati, risplendevano di
mille lustrini e
brillantini con i quali erano stati decorati; quando ci ebbe raggiunti
mi
sorrise e mi porse una grande busta “Quando sono andato a far
compere ho
trovato un vestitino davvero fantastico e, cavolo, ho subito pensato a
te. Con
questo gioiellino addosso persino Shirely Temple si volterebbe
indignata dalla
tua bellezza”
Io
sospirai e scossi il capo, ormai mi ero arreso alle sue attenzioni
stravaganti nei miei confronti e nonostante avessi provato
più volte a
sottolineare il mio fastidio, lui mi ignorava di proposito e continuava
a fare
come voleva perché dopotutto nel suo mondo valeva solo la
sua opinione. Tra
l’altro alla Factory non era raro vestirsi del sesso opposto,
questa pratica
faceva sempre parte di quella ricerca di libertà a cui tutti
erano
costantemente propensi.
“Ti
ringrazio tanto ma io sono maschio e preferisco rimanere
tal-” provai a
ribattere ma non riuscii a concludere la mia frase perché
Demyx arrivò come un
ciclone nella stanza e mi sovrastò senza farsi scrupoli.
“Questa
pelliccia è fantastica!” esclamò con il
solito tono alto e squillante
“Dove l’hai presa?”
“Un
negozio sulla tredicesima… troppo chic per te”
“Chissene
frega, la voglio anche io… tutti dovremo averne una. Anzi
no! Domani
sera organizziamo una festa a tema e tutti indosseremo pellicce, dammi
il
numero che le vado a ordinare… una trentina
basteranno?”
Rimasi
in silenzio durante quel breve scambio di battute, tramortito dalla
foga
e dalla disinvoltura che mettevano gli altri nello sfoggiare le proprie
ricchezze, mentre io invece mi sentivo a disagio. Era ironico come io,
che ero
arrivato in città con il solo scopo di far denaro, fossi
arrivato a provare una
paura tale da non volerlo quasi toccare. Cercavo di evitarne il
contatto quanto
più potessi in modo da sentirmi meno sporco e partecipe del
mondo corrotto e
ipocrita che mi aveva circondato.
Nello
stesso istante in cui Demyx stava effettuando il suo ordine da
quattordicimila dollari, Xaldin era arrivato a infastidire Xigbar e
Luxord non
aveva ancora terminato di esporre le sue teorie sul radicalismo
sessuale in cui
era ancora impregnata la società.
“Concordo
con le tue teorie su un maggior liberismo in ambito sessuale”
si
insinuò Zexion arrivando con una tazza di caffè
fumante e sedendosi accanto a
me sul mio dormeuse senza neanche aspettare un mio
invito “Tuttavia mi
trovo a dissentire il tuo eccesso e concordare con Roxas. Il girare
nudo non è
per niente fine”
A
quel punto si disegnò un ampio sorriso sul mio volto ,
sapendo di potermi
fidare sempre dell’opinione del ragazzo.
Luxord
grugnì in dissenso e andò a recuperare un
bicchiere e la bottiglia di
cognac abbandonata sul tavolo da biliardo in fondo alla stanza
“Sicuro… lui
davanti a noi fa il casto e il prezioso ma chissà cosa
combina quando è solo
con Axel”
“Cosa?”chiesi
stupito.
“Certo
che ti sei sistemato proprio per bene tu”
ridacchiò l’uomo dopo essersi
scolato il primo bicchierino.
“Che
diavolo dici?!”
“Axel
Silvers è proprio un buon partito, continua ad approfittarne
finché sei
in tempo”
A
quel punto non ci vidi più e scattai in piedi, strinsi i
pugni ai lati e cedetti
all’ira che accecava i miei occhi “Non osare
più dire cose del genere”
“Perché
scusa, cosa ho detto?” mi disse con finta innocenza
appoggiandosi al
tavolo e incrociando le braccia al petto, in quel momento Larxene, che
passava
di lì, gli aveva fregato il bicchiere e si era servita per
gli affari suoi.
“Non
accetto che tu venga a dirmi che io miro solo ai suoi soldi!”
“Non
è per caso così?”
“Io
amo Axel con tutto me stesso” alzai la
voce e sottolineai il tutto
con un tono più marcato “E vale lo stesso per lui,
ne sono sicuro”
“Vacci
piano con le parole, bimbo” Larxene si mise a sedere sul
tavolo da
biliardo. Il suo vestitino corto nero, che ricopriva le sue gambe
accavallate,
rivelava più di quanto in realtà dovesse
mostrare; essa parlava con il tono
altisonante di un’ereditiera che aveva sempre vissuto
nell’oro e nel mentre si
accendeva la sigaretta e la inseriva nel suo bocchino rigorosamente
argentato
“Come puoi asserire con tanta sicurezza che il tuo sentimento
sia ricambiato?”
Boccheggiai
qualche istante, stupito da quella domanda così assurda.
Zexion mi
mise una mano sulla spalla mi rivolse uno sguardo.
“Non
ascoltarla, Rox”
“Lui
è un’artista” la ragazza
continuò scandendo accuratamente le parole, per
niente infastidita dall’interruzione di Zexion. La Silver
Factory raccoglieva
nella sua interezza persone così egocentriche e piene di
sé che sembravano
vivere in un mondo tutto proprio in cui era la loro opinione che
contava e la
loro parola doveva essere l’ultima. Erano tutti
così viziati e capricciosi che
non ammettevano ordini o regole nelle proprie vite, e l’unica
persona a cui
rispondevano era Axel, tutto il resto semplicemente non era degno.
“Vuole
farti vacillare” mi sussurrò
all’orecchiò Zexion.
“Non
puoi fidarti degli artisti. Appena non gli andrai più a
genio si
sbarazzerà di te come se fossi una vecchia tela di poco
valore”
“Rox-”
Non
potevo credere a quello che diceva.
Inspirai
profondamente e tutto prese a funzionare a rallentatore per me. La
voce di Zexion mi arrivava ovattata alle orecchie, i gesti di Demyx
mentre
suonava la chitarra apparivano così ampi e calibrati,
Marluxia piroettava con
eleganza a ritmo di musica, Luxord e Larxene improvvisarono un lento
dal
retrogusto erotico, i movimenti di Xigbar e Xaldin che si prendevano a
cuscinate erano così lenti, e, mentre dai cuscini avevano
iniziato a cadere su
di noi delle candide piume, la nuvola di fumo che proveniva dalle sue
labbra
rosso matto di Larxene contribuivano a dare un aspetto onirico alla
scena.
E
io me ne stavo lì, al centro di quel caos, con il volto
rivolto al soffitto e
assistevo dal basso alla scena riflessa negli specchi proprio come se
fosse un
film girato in diretta.
I’ve
seen the world, lit it up
As my stage now
Channeling
angels in the new age now
Hot summer
days,
rock’n’roll
The way you
play for me at your show
And all the
ways I got to know
Your pretty
face and electric soul
In quel momento la
risposta a tutte le mie
domande si palesò così chiaramente
ai miei occhi da non lasciarmi più ombra di dubbio. Quella
della Factory
rappresentava appieno la
società newyorchese degli anni 60, dove
un’eccitazione teatrale e perversa
sembrava trionfare sulla mancanza d’amore, e, mentre tutto
attorno marciva, a
dominare erano la bellezza e il piacere.
Rimasi
in piedi in mezzo alla stanza con aria sconfitta perché,
anche se in
fondo al cuore una piccola parte di me cercava di urlarmi che loro
avevano
ragione, la mia coscienza voleva coprire tutto con una pesante coltre
di
indifferenza.
Mi
abbandonai al piacere estatico di quell’attimo prima che la
porta d’ingresso
si spalancasse per rivelare quel sole attorno al quale ruotava tutto il
mondo.
La mia espressione si illuminò alla vista di quel volto
euforico e selvaggio
mentre si faceva strada nell’ingresso. I suoi occhi erano
vispi e il sorriso
era radioso, ma il mondo mi crollò addosso quando realizzai
che tutto quello
non era rivolto a me ma a un altro ragazzino che stava guidando verso
lo studio
fotografico. Il mio sguardo basito rimase incollato sulla mano di Axel
che
manteneva saldamente il braccio dell’altro ragazzo e mi
sentii inspiegabilmente
come tradito. Quella non era la prima volta che si portava qualcuno
dietro,
ormai era all’ordine del giorno, però
c’era qualcosa – forse la sua estrema
contentezza o l’estrema vitalità che lo stava
animando, mi fecero sentire come
un giocattolo fuori moda.
Non
potevo essere rimpiazzato con tanta semplicità, non potevo
ammetterlo.
“A-Axel?”
lo chiamai incerto seguendoli nell’altra stanza.
“È
quello giusto” farfugliò in preda
all’emozione facendomi da parte per
chiudere la porta alle nostre spalle, spostai lo sguardo dal mio
compagno al
ragazzino senza nome che era andato a posizionarsi sullo sgabello
davanti alla
macchina fotografica e poi tornai di nuovo ad Axel.
“Cosa…
è quello giusto?” deglutii nervosamente, timoroso
della risposta.
“Lui”
affermò con un gran sorriso mentre preparava
l’armamentario “È il modello
che ho sempre cercato… è perfetto”
Il
mio cuore perse un battito nell’udire quelle parole e mi
diedi dello stupido
per essermi illuso che una persona come Axel avesse mai potuto provare
un
sentimento del genere nei miei riguardi.
“Tu
sei Roxas, vero?” mi chiese lo straniero con tono affabile,
io annuii senza
la benché minima voglia di instaurare un dialogo con lui
“I tabloid fanno
spesso congetture sulla tua identità e su una tua possibile intima
amicizia
con Axel. Io invece sono Sora Lancaster, felice di
conoscerti”
“Ho
visto un tuo film al cinema qualche mese fa. Sei bravo”
assentii atono
abbassando il capo. Di fronte a me avevo un altro super divo del
cinema,
talentuoso e molto più avvezzo al lusso e al mondo del
divertimento rispetto a
una persona anonima del mio calibro. Sora fisicamente era molto simile
a me:
stessa statura, conformazione del viso pressoché identiche,
stessi occhi blu;
l’unica differenza era nel taglio e nel colore di capelli, i
suoi erano castani
e leggermente più lunghi; però nonostante le
nostre somiglianze lui brillava di
luce propria. Era raggiante, amichevole, sorridente e soprattutto era
bello.
Un’esistenza completamente opposta alla mia fatta
d’ombra.
Non
mi accorsi di essere rimasto in disparte, in un angolino della stanza,
ad
assistere all’interminabile set fotografico che Axel gli
stava dedicando
finché la sua voce vellutata non mi
risvegliò chissà quanto tempo dopo.
“Dì
a Demyx che questa sera non andrò a vedere la sua
esibizione, oggi ho
voglia di creare” mi disse quasi con assenza, senza neanche
degnarsi di girarsi
verso di me poiché il suo sguardo era ancora incollato al
viso sorridente di
Sora che fingeva di mandare dei bacetti all’obbiettivo.
“Oggi
c’è qualche festa qui alla Factory,
Axel?” cinguettò allegramente il
castano del tutto disinteressato dal fatto che si fosse intromesso nel
nostro
discorso.
“Si
fa sempre qualcosa, puoi provare a chiedere agli
altri” annuì
l’altro.
“Si
parla spesso delle orgie che si tengono qui… è
tutto vero?”
“Il
piacere è un benessere primario, chi sono io per fermare le
pulsioni
sessuali degli altri?”
Sora
rise, mi lanciò una breve occhiata e si mise di nuovo in
posa “È un
peccato che tu non partecipi mai”
Serrai
le labbra in un impeto di gelosia, avendo colto al volo il tono
minatorio del tutto gratuito nei miei confronti, ma non feci nulla per
educazione; nonostante tutto il silenzioso ricordo delle mie umili
origini mi
seguiva costantemente e si interponeva sempre nelle mie relazioni con
gli
altri, sottolineando la differenza abissale che distingueva me da tutti
gli
altri. Io non ero nulla in confronto a loro, mi sentivo fuori posto. Un
accessorio da indossare e riporre il girono dopo nel cassetto.
Dopo
quella frecciatina il silenzio scese di nuovo sulla stanza, interrotto
soltanto dal rumore di qualche scatto o indicazione di Axel su come
l’altro
dovesse posare, la calma però durò troppo poco
per poter essere denominata
tale.
“Forse
passerò la notte qui alla Factory”
affermò Axel ancora troppo
concentrato su Sora per rivolgermi uno sguardo “Prima di
andartene mi ordini la
cena?”
Non
ce la feci più.
Tutti
i buoni sentimenti che provavo per Axel, e che mi avevano trattenuto
dal
prendere a pugni Sora, non furono abbastanza forti da placare
l’ira che nutrivo
nei loro confronti in quel momento, sapevo che se fossi rimasto ancora
lì avrei
fatto qualcosa di stupido.
“Sai
una cosa?” richiamai la sua attenzione, puntando lo sguardo
su di lui e
alzando improvvisamente la voce. Il mio odio doveva essere riflesso nei
miei
occhi in maniera così evidente che lo vidi tentennare per un
istante quando
decise finalmente di guardarmi “Vaffanculo Axel”
Non
mi presi la soddisfazione di rimanere ad assistere alla loro reazione,
girai i tacchi e me ne andai senza guardare in
faccia a nessuno. Sicuramente Axel non doveva essere rimasto
impassibile al mio
scatto, ero sempre stato fin troppo paziente e sottomesso per
permettermi mai
di fare qualsiasi cosa. Avevo sempre accettato qualsiasi decisione
senza mai
dir nulla, gli avevo permesso di modellare la mia vita a suo piacimento
senza
chiedergli nulla, illuso di fargli provare le stesse emozioni che lui
mi
provocava.
Will
you still love me
When I’m no longer young and
beautiful?
Corsi a perdifiato
per le strade di New York fino
al nostro appartamento a Lexinton Square dove mi abbandonai al dolore
che mi
dilaniava l’anima. Mi sentivo tradito e non solo da Axel ma
da tutto. Erano i
nuovi canoni che stavano uccidendo la società:
l’agiatezza, il lusso, il
piacere e il bisogno spasmodico di cambiamento. La ricerca di quella
felicità disdegnata
dai canoni tradizionali era il
nettare proibito della nuova generazione e io, come tutti, ne ero
caduto
miserabilmente vittima.
Forse
ero io il debole ma avevo la certezza che la mia vita mi stesse
sfuggendo
dalle mani e non avevo la certezza di riuscire a proseguire
ulteriormente.
Mio
padre aveva sempre avuto ragione, fin dall’inizio, tutta
quella
spensieratezza non era altro che ipocrisia, il divertimento era noia,
la
ricchezza era povertà d’animo.
La
vita nella città era una corsa dettata dalla
fugacità delle nostre misere
esistenze, si cercava di accaparrare sempre il meglio e quando esso non
bastava
più lo si rimpiazzava.
Mi
accorsi dell’arrivo di Axel dalle musiche allegre e confuse
che provenivano
dalla televisione e dalla radio. Ogni volta che questi metteva piede in
casa
accendeva entrambi i dispositivi e li lasciava funzionare per gran
parte della
sua permanenza nell’edificio, Axel era amante della
tecnologia al punto da
raggiungere quasi l’ossessione e ogni volta che usciva una
nuova diavoleria sul
mercato lui era sempre tra i primi ad averla. Il suo primo gadget
elettronico
fu la Kodak di famiglia che considerava quasi come una figlia, poi
c’era il
registratore di cui parlava come se fosse sua moglie, ma la sua
più lunga
relazione amorosa era quella con la Tv, iniziata verso la fine degli
anni ’50
quando acquistò uno dei primi modelli per il salotto.
Era
patetico ma a volte mi sentivo quasi in competizione anche con questi
oggetti perché ero sicuro che l’amore che nutriva
per essi era sempre superiore
a quello che provava per me.
“Perché
ci sono quelle valigie vicino la porta?” la sua voce bassa e
calma
raggiunse le mie orecchie con estrema dolcezza, udii la porta del
balcone
chiudersi alle sue spalle ma non si mosse da lì, rimase
dietro di me con le
braccia strette al petto a causa del freddo.
Lo
adocchiai con la coda dell’occhio e tornai di nuovo a
concentrarmi sul
freddo manto stellato che illuminava la notte newyorchese.
“Domani
me ne vado” proferii in un sussurro; la gola mi bruciava
ancora, a
causa di quelle poche parole strillate quel pomeriggio, dal momento che
non ero
abituato a certi scatti, gli occhi erano arrossati dalle troppe lacrime
versate
e il naso era irritato per i troppi fazzoletti usati. Facevo
così schifo che mi
ero antipatico da solo, come facevano gli altri a sopportare una
persona debole
come me che non faceva altro che piangere?
“Dove
vai?” mi domandò Axel con una nota di interesse
nella voce.
“Non
lo so ancora…” affermai pensieroso prendendomi una
breve pausa “Penso in
un hotel e raccoglierò le idee su cosa potrò
fare”
“Non
puoi rimanere qui?”
“Per
quale motivo dovrei?”
“Beh-”
Per
uno strano evento più unico che raro, Axel rimase a corto di
parole e quasi
mi sentii vincitore perché finalmente lo avevo messo con le
spalle al muro
davanti la realtà. Quella sarebbe stata la volta decisiva
per fargli ammettere
la verità su di me.
“Perché
questa è casa tua”
Gli
avevo lasciato tutto il tempo che voleva per riflettere ma non avrei
mai
immaginato un’uscita del genere da parte sua,
tant’è che mi voltai incredulo.
“No”
scossi il capo con una naturalezza tale da farmi rabbrividire
“No… questa
non è mai stata casa mia”
“Certo
che lo è-”
“No
Axel. Per piacere non iniziare” indurii
l’espressione e mi girai di scatto
verso di lui “Non ti permetterò di riempirmi
ancora di belle chiacchiere per
farmi passare tutto. Adesso basta, non ne posso
più”
“Dimmi
cosa c’è che non va, Roxas. Non tenerti sempre
tutto dentro”
Axel
sospirò e si portò una mano tra i suoi selvaggi
capelli color fuoco, nei
suoi occhi verdi in cui si rifletteva la mia figura era evidente il suo
animo
ferito da quella discussione per lui inattesa. In qualsiasi situazione
Axel
aveva il dono di mantenere sempre e comunque la purezza
d’animo di un bambino,
anche quando sbagliava, e vicino a lui non potevo fare a meno di
sentirmi
sempre, irrimediabilmente colpevole e ritirare ogni mia accusa, per
quanto
veritiera potesse essere. Ma non quella volta. Ero stanco di essere
sempre
l’unico a dover soffrire.
“Parlami…
insieme potremo risolvere tutto” mi disse ancora non udendo
nessuna
mia risposta.
“Parlarti?”
feci quasi sconvolto e poi alzai il tono “Parlarti? Tu chiedi
a me
di parlarti quando tu sei il primo a tenermi
completamente all’oscuro
della tua vita? Io ti ho sempre parlato di me ma ti
sei mai interessato
veramente a quello che provo davvero? Ti sei mai interessato delle mie
paure,
delle mie insicurezze?”
Ormai
le lacrime avevano preso di nuovo a scendere incontrollate
così come la
neve imbiancava elegantemente e senza sosta la
città come a voler coprire
con il suo velo di freddo tutta l’oscurità e la
corruzione che dilagavano nel
mondo.
“Perché
oggi te ne sei andato così?”
“Oh-
allora ti sei accorto della mia assenza. Mi congratulo con lei, signor
Silvers” esclamai tra i denti con sarcasmo, mi
asciugai le guance bagnate
con la manica del mio maglioncino e tirai su col naso.
“Torniamo
dentro altrimenti ti prenderai qualcosa” la sua voce in
confronto
alla mia era sempre pacata e tranquilla, come se niente potesse
scalfire la
quiete della sua anima. Tentò di avvicinarsi a me e
prendermi per mano ma io mi
scostai malamente.
“Non
ti azzardare a toccarmi!”
“Abbassa
la voce altrimenti ci sentirà tutto il vicinato”
“E
che ci sentissero! Almeno verranno tutti a sapere chi è
veramente Axel
Silvers!” ormai ero arrivato al punto di non ritorno in cui
nulla mi avrebbe
più fermato e sapevo che presto me ne sarei pentito
amaramente ma non potevo
farci più nulla.
“Roxas,
per piacere”
“Ti
ho detto di non toccarmi” strillai indietreggiando
velocemente e
rintanandomi sul tavolo da esterni in ferro battuto per sfuggirgli.
“Cazzo,
Rox. Piantala con queste stronzate, potresti cadere
giù”
Lo
vidi indurire l’espressione ma non mi lasciai intimorire,
alzai il volto,
socchiusi gli occhi e inspirai profondamente l’aria gelata
che ci avvolgeva
senza pietà. Semmai fossi inciampato avrei compiuto il mio
destino e mi sarei
aggiunto alla sfilza di vite scomparsi prematuramente. Sapevo che
quella era la
mia strada.
“Facciamo
un bel gioco” dissi enfatizzando con gesti teatrali,
incurante dello
scarso equilibrio “Proviamo per una volta a essere totalmente
sinceri l’uno con
l’altro”
“Okay…
okay va bene, però ora scendi da lì”
La
sua espressione preoccupata mi convinse ad accettare la mano che mi
stava
offrendo in aiuto tuttavia non abbassai la guardia.
Will
you still love me
When I’m no longer young and
beautiful?
Will you still love me
When I got nothing but my aching soul?
“Dimmi la
verità…” sussurrò abbassando
il capo e
continuando a stringere convulsamente la mia mano, nonostante io
cercassi
sempre di allontanarlo “Che intenzioni avevi questa
sera?”
Io
rimasi in silenzio, chiusi gli occhi e mi morsi un labbro per evitare
di
ricominciare a piangere per l’ennesima volta, alla mia
mancata risposta però
Axel parlò di nuovo.
“Il
tuo sguardo era diverso… diverso da quella sera sul ponte
tanto tempo fa.
C’era perdizione, disincanto, apatia”
commentò con amarezza portando la mia
mano al suo petto “Cosa ti è successo,
Roxas?”
Respiravo
profondamente mentre la mia mente si svuotava velocemente di tutti
quei pensieri che vorticavano frenetici, i miei occhi spalancati non
vedevano
in realtà nulla. L’unica cosa di cui ero cosciente
era il calore che
accarezzava la mia mano destra.
"Ho
perso il sorriso quando ho acquistato consapevolezza del mondo"
mormorai più a me stesso che ad altri mentre il mio corpo
era scosso da tremori, poi mi rivolsi a lui dopo una breve pausa
“Vuoi… la verità?”
“Hai
detto che dobbiamo essere sinceri, no?”
Alzai
il volto e mi specchiai nelle sue iridi del colore dello smeraldo,
anche
Axel era visibilmente scosso, era come se i nostri dolori potessero in
qualche
modo fondersi e diventare tutt’uno.
“Ero
pronto ad uccidermi… e l’idea non ha ancora
abbandonato la mia mente”
questo era anche uno dei motivi per cui ero rimasto fuori al freddo, se
magari
avessi avuto troppa paura per fare qualcosa almeno sarei morto
d’ipotermia.
“Credi
che la morte sia l’unica soluzione ai problemi della
vita?”
In
un certo senso mi aspettavo una domanda del genere, anche se non da
parte di
Axel, nel corso della mia esistenza spesso mi ero chiesto se in un modo
o in un
altro sarei riuscito a sfuggire in qualche modo al rimorso che regnava
in me. La
mia anima era dilaniata dal conflitto tra la ricerca della
felicità e la
consapevolezza che tutto che l’etica condannava
l’immoralità dilagante.
Probabilmente
mio padre doveva avermi odiato non poco per avermi cresciuto nel
costante timore della vita.
“Perché
oggi te ne sei andato dalla Factory?”
“Ax…
rispondimi seriamente. Che significato ha la mia presenza
lì?” ribattei
alzando lo sguardo su di lui e mi affrettai a continuare, nel
leggere una nota di incomprensione nella sua espressione “Io
non ho talenti particolari, non sono famoso come le
celebrità che frequentano
la tua Silver Factory, non sono un artista... cosa c’entro
con il tuo mondo?
Io
non sono altro che un ragazzo di campagna, cresciuto
nell’austerità e nella
paura di poter incappare nella perdizione dei peccati
mondani… sono scappato di
casa con il desiderio di perseguire i miei sogni però mi
sento strangolato da
uno strano senso di ansia. Ho passato tutta la mia vita a studiare e
lavorare
con la speranza di far carriera, di diventare qualcuno e
invece… cosa ho
ottenuto? Un misero lavoretto alla borsa dove mi sfruttavano solamente.
Quando
ho conosciuto te invece la mia vita è cambiata, in un batter
d’occhio mi sono
ritrovato a condurre la vita di un ereditiere, attorniato da
celebrità e ricchezze,
senza bisogno di alcuno sforzo. Cosa diavolo è questa
società? Perché gli
sforzi non vengono compensati adeguatamente?” interruppi
giusto per un istante
il mio monologo solo per rivolgergli un’occhiata carica di
dolore “Perché tu
sei diventato ricchissimo per qualche fotografia o quadri che ti fai
fare da
altri mentre io che lavoravo da mattina a sera ero solo una
nullità?”
Axel
aggrottò la fronte e mi scrutò per qualche
secondo “Questa è la società
attuale, non ci puoi far nulla… però io ti ho
sempre dato il meglio”
“Lo
so dannazione… è una società che si
fonda su nient’altro che bellezza!”
“Roxas
tu non ne capisci il vero significato”
“Allora
spiegamelo!” esclamai con foga, allontanandomi da lui giusto
per
poterlo vedere meglio “Hai portato chiunque nella Factory,
hai dedicato a tutti
ritratti, film, fotografie e a me nient’altro che uno sketch
deforme e un paio
di brevi filmatini che non ha mai visto nessuno…
Perché loro sì e io no? Sono
tanto brutto?”
“Cosa
diavolo sono queste domande?!” questa volta fu il turno di
Axel di alzare
la voce ora irritata, e, sebbene fossimo nel bel mezzo di una
guerra non potei fare a meno
di rimanere incantato dal suo furore poiché quella era la
prima volta che
lasciava trasparire delle emozioni così vive.
“Io
da te cercavo supporto morale e non economico” ora capivo il
significato
delle parole di mio padre quando mi diceva che i soldi non fanno la
felicità
“Non mi hai mai dimostrato un briciolo d’amore,
sono stato sempre io accanto a
te e mai il contrario. Ecco perché oggi me ne sono andato e
perché domani farò
lo stesso, definitivamente”
“Tu…
non puoi farlo!”
“Ah
no? Prova a impedirlo allora, dammi un solo motivo per non
andarmene”
Axel
mi scrutò in silenzio, quella discussione doveva averlo
colto decisamente
nel vivo perché era raro vederlo così
preoccupato. Rimanemmo in piedi, l’uno di
fronte all’altro per una buona manciata di minuti, prima che
Axel riprese a
parlare, questa volta con tono determinato .
“Dammi un giorno… aspettami solo
ventiquattro ore e poi deciderai tu stesso” detto questo
ritornò in casa.
Passò i due giorni seguenti rinchiuso nella sua stanza e io,
nonostante non
avessi la più pallida idea di cosa stesse combinando e
nonostante il suo
ritardo, rimasi ad aspettarlo in salotto in compagnia dei gatti.
Quando
alla fine la porta della sua stanza si aprì ne
rivelò una figura stanca
ma soddisfatta, Axel mi sorrise dolcemente dopo avermi adocchiato e si
avvicinò.
“Grazie
per aver atteso”
Aveva
una tela in mano,
da disegno di
medie dimensioni, e inizialmente mi domandai se non avesse passato gli
ultimi
giorni a lavorare per gli affari suoi ma poi quando voltò la
superficie verso
di me rimasi a bocca aperta: era un dipinto fatto con tempere e
acquerelli di
un realismo unico. Era un mio ritratto con nient’altro che me
stesso in dosso:
ero io steso sul mio dormeuse argentato, con un braccio appoggiato sul
bracciolo e le gambe distese e leggermente piegate, gli occhi erano
seri e
l’espressione era fiera, e l’unico velo che mi
copriva nei punti giusti era la
mia copertina di seta preferita. Il ritratto era di una bellezza
statuaria e lo
stile e le tecniche adottate erano completamente opposti a quelle a cui
era
fedele, era come se fosse tornato a uno stile classico e tradizionale
solo per
me.
Se
avessi dovuto essere sincero quello era assolutamente l’opera
migliore di
Axel e non perché ritraeva me ma perché mostrava
tutta la sua maturità e
l’amore che poteva infondere nel fare qualcosa.
“Allora…
ti piace?” mi domandò a un certo punto e io,
improvvisamente, mi
dimenticai di tutto il mondo attorno a noi e non seppi più
cosa dire, mi sentii
quasi a disagio.
“Io…
io non sono così bello”
“Tu
sei così ai miei occhi”
Forse
non avrei dovuto chiedergli di mettermi nero su bianco,
l’immagine che
aveva di me era troppo idealizzata poiché nella
realtà non raggiungevo i canoni
di bellezza che lui ricercava.
“Non
hai usato neanche una foto come guida?”
Axel
scosse il capo “Avevo tutto impresso nella mia
mente… te l’ho detto, tu
sei la mia opera d’arte, è inutile dedicarti altro
altrimenti ti sminuirei
soltanto"
Rimasi
in silenzio a fissare quella tela davanti a me in estasi, non per la
bellezza delle linee che si muovevano con eleganza e i colori quasi
sbiaditi
che davano vita al ritratto ma perché finalmente avevo la
dimostrazione che
Axel provasse almeno un minino sentimento per me.
“Perché
l’altra sera non sei rimasto più alla
Factory?”
“Per
te”
“A
volte vorrei odiarti, sarebbe tutto più semplice”
Lui
sorrise “Cosa ti fa incazzare di più, il mio
comportamento o il fatto che
non riesci a odiarmi?”
Mi
avvicinai a lui e appoggiai il capo sul suo petto senza dir nulla. Lo
avevo
odiato profondamente in quegli ultimi giorni ma era passato tutto in un
baleno,
alla sola vista del suo volto rilassato e speranzoso avevo dimenticato
tutta la
rabbia. A volte credevo di essere più forte dei miei
sentimenti, ma poi, alla
fine, mettevo troppo amore anche nei silenzi che usavo per fargli
guerra.
“Capisci
perché non ti ho mai fatto ritratti prima
d’ora? Perché tu sei
solo mio e basta, non volevo che nessun’altro potesse
ammirarti. Non l’ho mai
fatto perché sei tu la mia opera
d’arte in carne e ossa e non avevi
bisogno di altro per esaltare la tua avvenenza”
“Io
sono già tuo. Ovunque io vada, qualsiasi cosa io faccia,
ogni mio respiro
sarà rivolto a te”
“Roxas…
gli altri per me non sono altro che volti da ritrarre e da riprodurre
in serigrafia. Tu invece sei unico… hai una bellezza senza
pari e non volevo
sminuirti ritraendoti”
Ma
la bellezza un giorno svanirà! Era quello che
avrei voluto ribattergli
ma alla fine non lo feci, mi limitai a prendergli la mano e appoggiare
la
fronte alla sua spalla. Mi lasciai guidare nel suo mondo e come sempre
lui fece
in modo da occupare completamente i miei pensieri.
Will
you still love me
When I’m no longer young and
beautiful?
Will you still love me
When I got nothing but my aching soul?
I know you will
I know you will
I know you will
Will you still love me
When I’m no longer young and
beautiful?
Alla fine quel
ritratto fu venduto per l’esorbitante
cifra di settantamila dollari (quasi il triplo di tutti gli altri
lavori) e
decidemmo di sbarazzarcene per non lasciare che si potesse interporre
tra noi e
il nostro riscoperto amore. Molto cambiò della nostra vita
da quel giorno, Axel
finalmente uscì allo scoperto e ufficializzò la
nostra relazione il che lo rese
ancora di più il personaggio più discusso di New
York, divenne popolare nelle
comunità omosessuali della città, mentre gli
anziani e gli artisti con
mentalità tradizionalista – tra cui
Naminé - continuarono a criticarlo ancora
di più, e lui ne era felice perché in un modo o
in un altro contribuivano a non
lasciar spegnere il mito di Axel Silvers. Per quanto riguarda me, la
mia fama
cresceva di giorno in giorno e se all’inizio ero
conosciuto per essere
l’amante di Axel, ben presto qualcun altro si accorse di un
mio potenziale
nascosto. Divenni attore, modello per sfilate e pubblicità,
mi trasformai
improvvisamente in una celebrità acclamata dal grande
pubblico e finalmente mi
guadagnai il vero diritto di appartenere alla Factory proprio come
tutti gli
altri che la frequentavano. Ma non mi vendetti ad altri, lasciai ad
Axel
l’esclusiva di orchestrare il mio lavoro e la mia immagine
pubblica e con essa
gli dedicai anche la mia vita sentimentale.
Avevamo
finalmente trovato la sintonia e la complicità che ci era
sempre
mancata e finalmente mi sentii felice, dimentico dei moralismi che mi
avevano
sempre incatenato, eppure la mia scalata verso il piacere non
rappresentava
altro che il preludio della nostra misera fine.
Axel
diceva che io gli ricordavo uno dei personaggi del grande
Gatsby
a causa dalla mia aria vivace e al contempo fragile. Ero come un eroe
romantico
fuori dalla società e dalle convenzioni, alle quali tentavo
invano di oppormi
per ricercare una vita che fosse solo mia. Una vittima marchiata da
un’oscura
maledizione, incompresa ed esclusa. Ero colui che, ormai disincantato
dall’esistenza, insteriliva la propria vita nei sogni senza
mai tradurli in azione, colui che esprimeva il rifiuto con la
malinconia e la contemplazione della morte, sino
all’estremo gesto autodistruttivo del suicidio.
Tu
mi chiedesti se io fossi convinto che la morte fosse l’unica
soluzione ai
problemi della vita, ma la risposta me l’hai data tu stesso,
Axel, ci sono cose
in questo mondo che non tutti possono comprendere appieno se non i
diretti
interessati e questa è una delle tante. La vita era mia e in
quanto tale sapevo
che nonostante tutto non avrei potuto sfuggire al mio destino.
{End part 1 of 2}
Angolo
di Faith
Vi eravate dimenticati di me? Avevo detto che avrei aggiornato qualcosa
prima di partire e così ho fatto solo
perché
grazie a questo tempo schifoso si ritardano tutte le partenze.
Bene, prima di tutto complimenti se siete arrivati fino alla fine,
spero che la storia vi sia piaciuta fin qui e soprattutto che l'abbiate
capita... mi sono arrivate delle voci da dietro le quinte che
è realmente
un po' incomprensibile, però era un esperimento che ci tenevo a
tentare.
Spiegazione in due parole: siamo in negli anni 60, la seconda guerra
mondiale ha fatto da spartiacque tra il mondo antico e quello nuovo e
la nuova generazione è alla ricerca di un estremo
divertimento che spesso sconfina nell'ipocrisia e
sessualità. Tutto diventa commerciale, il vecchio e il
passato di moda vengono rimpiazzati e lo stesso è con i
sentimenti. Roxas, attratto dal boom economico, fugge di casa per
crearsi una nuova vita e ben presto capisce che non è tutto
rosee e fiori, però dato che ha culo
diventa presto l'amante
di Axel (liberamente ispirato alla figura di Andy Warhol).
Si mescola
ai grandi ricconi, fa i cavoli suoi e alla fine riconosce che quella
non è la vita che ha sempre desiderato perché non
sono i
soldi che vuole ma l'amore. Si può trovare amore in una
società così priva d'amore?
Maggiori spiegazioni nel secondo e ultimo capitolo.
Prima
di staccare vorrei dedicare questa storia a Kronohunter25, mio
beta di
fiducia, e Lafigliadellaluna
che credono sempre nelle mie
capacità e soprattutto mi sopportano nei miei momenti di
autoafflizione xD
Questa fic è anche per tutti i lettori che mi seguono e mi
supportano sempre con le loro fantastiche recensioni .
Detto ciò, spero vivamente che questo primo capitolo vi sia
piaciuto e spero di leggere i vostri pareri, anche se negativi,
perché sono davvero timorosa di quest'ultima mia creazione.
A presto, forse con il nuovo capitolo di Viva la Vida.
|