Un Año Sin Lluvia

di CieloNotturno
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La festa sarebbe iniziata dopo un’ora precisa.

Tutte le donne al servizio del Vicius di New York nonché la sede centrale tra tutti, compresa me, erano davanti alle grandi porte di vetro dell’edificio che ci ospitava un’intera settimana e di cui eravamo a servizio. Entro poco Marotti avrebbe dovuto fare la sua venuta, come sempre, in grande stile invitandoci a salire tutte in due limousine bianche laccate, come i denti che si faceva sbiancare ogni mese dal dentista per non far apparire macchie giallastre a causa della perenne sigaretta che alloggiava tra le sue labbra secche.

L’aria fredda e autunnale mi sferzava il viso lasciandosi dietro tagli invisibili sulla pelle delicata e morbida, profumata ancora di un dolce miscuglio di bagnoschiuma alla vaniglia e un eau de toilette che avevo comprato poco dopo esser arrivata in questa città.

Il vocio delle mie “colleghe” che chiacchieravano animatamente su come sarebbe stata la serata era l’unico suono udibile in quella strada ormai deserta, ma che durante le ore di Dì accoglieva un grande via vai di persone e di mezzi pubblici o personali. L’unica cosa bella di andare a lavorare era il percorso per arrivarci. New York era sempre così bella, così attiva e così vivace che per un momento faceva sentire anche me così, come se fossi una studentessa universitaria che, felice di studiare per diventare una persona che vale un giorno, si avviava verso il luogo che ama e dove risiedevano tutti i suoi amici più cari. Avendo una famiglia unita e accogliente che aspettava impaziente il mio ritorno per chiedermi come fosse andata la giornata e di accogliermi con un pranzo caldo come piaceva a me. Ricevere, nel pomeriggio, messaggi da amiche o addirittura dal proprio fidanzato solo perché avevano la voglia di sentirmi vicino.

Sospirai, mentre sentivo gli angoli degli occhi iniziare ad inumidirsi, facendo creare una nuvoletta d’aria fredda che, per un attimo, mi fece bruciare l’occhio sinistro trasportando via le lacrime di nuovo nei dotti lacrimari che non hanno mai avuto la possibilità di rigarmi il volto ancora una volta.

Lo stridio assordante di ruote che strusciavano contro l’asfalto rallentando mi distolse dalla battaglia silenziosa che stavo facendo contro il freddo prepotente che rimbalzava dai miei occhi al mio naso al finire sulle mie labbra asciutte e disidratante, per poi ricominciare tutto il processo da capo.

Avanzai sui miei vertiginosi tacchi prestatimi quella mattina da Ariana che li portava ai piedi. Eravamo finite col parlare dei vestiti che la sera prima erano arrivati nei nostri appartamenti, e, notando che le sue scarpe erano del colore uguale a quello del mio vestito aveva insistito di prestarmele affinchè le usufruissi per la festa.

Due limousine bianche e perfette erano davanti a noi e, una di quelle, aveva il finestrino leggermente abbassato da cui scorgeva una mano callosa che con due dita teneva salda una sigaretta mezza finita.

“Allora principesse, vogliamo andare a questa festa?”  la sua voce pareva più allegra e folle del suo solito tono basso e controllato che aveva sempre posseduto. Anche se non riuscivo a vederlo a causa dei vetri oscurati, avrei giurato che sulle sue gambe era presente una bottiglia di birra che teneva sempre “in casi di emergenza” nella limousine. Scossi la testa schifata prima di alzare gli occhi al cielo e vedere un ammasso di nuvole grigie coprire la luna piena in mezzo a tutto quel nero.

“Violet ci sediamo vicine?”

Avrei riconosciuto quell’accento britannico fra mille, forse era anche il primo e unico che davvero non mi infastidiva. Sorrisi girandomi prima di entrare nella macchina subito dietro quella che occupava Marotti con altre di noi. “Certo”

Entrai con molta lentezza, facendo attenzione a non danneggiare in nessun modo il vestito che avevo indosso e che, in assoluto, era stato il più bello che l’azienda mi avesse mai concesso. Il posto di fianco al mio venne occupato in breve tempo da Ariana che, al mio contrario, fece tutto velocemente non badando al vestito fucsia che ne avrebbe potuto risentire in qualche modo.

Il vestito a tubino lungo fino al terreno la faceva sembrare leggermente più alta di quanto in realtà era, slanciando il suo busto e, le pailette che ricoprivano tutto il tessuto le garantivano la certezza che non sarebbe passata inosservata, soprattutto agli occhi attenti dei uomini single, o di uomini semplicemente infedeli.

Le luci in quel lungo mezzo di cui, ormai avevo fatto l’abitudine viaggiarci, erano soffuse e l’aria calda aveva dato sollievo alla mia povera pelle scossa ininterrottamente da fremiti di freddo. Non avevo portato nemmeno un giacchetto con me, per paura di stropicciare il tessuto di cui mi ero follemente innamorata.

Accavallai le gambe facendo dondolare il piede avanti e indietro nell’attesa di arrivare presto alla festa per poterne uscire fuori il prima possibile. Sarebbe stata come tutte le altre: Le persone anziane dominavano la sala, parlottando fra di loro di cose riguardanti lavoro, balli lenti e principeschi che, dai ceti più alti della società, venivano definiti una squisitezza per gli occhi di chi assisteva, musica dal vivo composta in maggioranza da violini, pianoforti e a volte capitava in mezzo per fino qualche arpa..

Poggiai il mento sul pugno chiuso sorretto dalla forza del gomito sul finestrino, improvvisamente erano diventate tutte silenziose e pensierose lasciandosi alle spalle i soliti discorsi che le occupavano nel tempo libero. Il mio dito si infiltrò tra i boccoli fatti meno di dodici ore prima da Zike, parrucchiere, a quanto pare, fidato di ognuna dipendente del Vicius e che avevo osato provare anche io. Era un pimpante giovane sui trent’anni, di origini francesi che, a volte, si lasciava trasportare un po’ troppo dal chiacchiericcio e dai pettegolezzi che le sue clienti gli confessavano. Di certo, non potevo negare che la sua fresca e giovanile bellezza non mi abbia, in un certo senso, rinfrescato gli occhi dopo le ore passate a guardare uomini di mezza età, tozzi e con il viso perennemente in una smorfia assatanata dalla voglia di cominciare una lunga seduta con me. Anche se lunga non era la parola adatta, erano quaranta minuti precisi, ne minuto di più, ne minuto di meno. Era l’unica cosa che ero riuscita a contrattare con Marotti dopo lunghi giorni di litigate, così mi concesse di diminuire l’incontro di venti minuti.

Diedi una veloce occhiata alla ragazza seduta di fianco a me, distogliendo per un secondo gli occhi dal contorno duro dei finestrini. Aveva uno sguardo vuoto e anche lei, come me, sembrava persa in pensieri o ricordi tormentati. Le sue labbra dischiuse e le mani intrecciate e poggiate al bacino le davano un’aria regale che se solo fossimo state anni e anni a dietro, l’avrei scambiata per la figlia di un nobile. Ariana. Mi sembrava una ragazza così inadatta a quella vita, chissà come c’era finita anche lei in quel tunnel buio e senza uscita.

Il mio sguardo scivolò sulle altre sei, velocemente e senza soffermarmi troppo su ognuna di loro,  ma abbastanza da notare che i loro pensieri erano occupati da qualcosa come le unghie, le scarpe o, magari, anche il bel e accomodante Zike.

“Siamo arrivati, potete scendere” una voce bassa, che proveniva dal lato opposto della macchina ci fece risvegliare tutte allo stesso momento e scendemmo tutte sulle mattonelle della strada. Ecco che il freddo mi faceva tornare la pelle d’oca. Vedemmo scendere Marotti dall’altra macchina con altre sette ragazze dietro di lui, ci guardò e ci sorrise. Un sorriso che mi fece voltare lo stomaco.

 

La serata si stava svolgendo come avevo prospettato, nessun tipo di divertimento o altro, solo musica antica, vecchi e occhiatine da clienti che avevo servito giorni addietro. Sbuffai mentre, seduta al mio tavolo guardavo gli altri fare per le ennesima volta giravolte su giravolte su giravolte in coppia con sottofondo un’altra noiosa canzone, picchiettavo con le unghie sul pilastro di legno a cui erano poggiate le posate sporche che avevamo usato prima per cenare e che a differenza dei piatti, non avevano ancora raccolto. Ero l’unica seduta lì nonostante i numerosi inviti da giovani ragazzi. Perfino Ariana era andata ad unirsi al ballo per cercare di scacciare via la noia.

Girai il polso guardando l’orologio che segnava ancora le 10:02, ciò significava che dovevano ancora passare minimo tre ore per andare via da quel posto adatto orribilmente noioso. Sbuffai ancora una volta ma questa volta con più aggressività e mi alzai dalla sedia che aveva preso ormai calore. Un bicchierino di qualcosa mi avrebbe fatto bene, e se non l’avrebbe fatto almeno sarei stata occupata per due o tre minuti.

Il locale era lussuoso e molto vasto, i tavoli tutti allineati, i lampadari con mille fronzoli tinti in oro attaccati vicino, il parquet che amplificava ogni tacco e i camerieri che guizzavano avanti e indietro soddisfacendo e pulendo i clienti. In fondo alla sala c’era un piccolo bancone con due pile di piatti puliti e pronti per essere utilizzati sopra di esso. Di dietro un grande scaffale conteneva almeno cento bottiglie di alcolici diversi ma, di buona marca e raffinati. Mi diressi lì dove anche gli sgabelli erano di un colore d’oro e avevano la spalliera in legno scuro, rifinito a mano.

Presi un lembo della mia gonna tra le dita alzandola delicatamente per non stropicciarla nel piccolo lasso di tempo in cui sarei stata seduta sui sgabelli più raffinati e chic che avessi mai visto, e di cose eleganti ne avevo viste.

Nella mia testa risuona la musica lenta che, a differenza di rilassarmi, mi rendeva nervosa e infastidita più di quanto lo fossi già. La porta di fianco al bancone bianca come il latte si aprì rivelando due spalle larghe fasciate da una camicia del medesimo colore della porta. Camminava lentamente e all’indietro con una decina di bicchieri di vetro tra le mani, non facendomi scoprire il volto della persona che, supponevo, mi avrebbe servita.

Mi grattai la guancia interessata ai buffi spostamenti di camicia bianca nel cercare di non far cadere tutti i recipienti e allo stesso tempo entrare dietro al bancone. Un piccolo risolino uscì dalle mie labbra attirando l’attenzione della persona che l’aveva provocato. Dopo svariati tentativi riuscì a varcare la piccola porticina che conduceva al posto barman e a poggiare i bicchieri sotto lo scaffale che avevo notato prima.

Si girò facendomi morire il sorriso divertito dalle labbra. Lui. Qui.

Cosa ci faceva?

La sensazione di lingua secca e priva di vita tornò nella mia bocca come le precedenti due volte in cui l’avevo visto. Il suo viso era incorniciato da un sorriso imbarazzato causato probabilmente dalla mia risata. Sentivo improvvisamente come se gocce di pioggia stessero cadendo velocemente su di me inzuppandomi i panni e facendomi sentire pesante e senza fiato. Perché avevo sempre strane sensazioni quando guardavo quel buffo ragazzo che, all’altezza del cuore, portava sempre una piccola etichetta con su scritto Leon ?

 

 

Look at me

Okay Ciao! Le prime cose che dico sono:

Scusate per il ritardo ma in questi giorni sono in vacanza e detto sinceramente non ho preso molto il computer.

Il capitolo è cortissimo e mi scuso davvero tanto ma non avevo altri modi per farlo finire e poi l’ho fatto di notte e quindi ho sonno hahaha.

Ho notato che la storia, come continua, non piace molto..perchè le recensioni sono scese da 7 a 3 a capitolo, e questo mi ha un po’ buttata giù..si. Mi aspettavo di più, sono sincera ma se la storia non piace a molti..che ci posso fare io? Ho solo dato del mio meglio…

Nello scorso look at me avevo detto che vi avrei fatto un annuncio ma per problemi esterni quel che avevo in mente non si può più fare e magari in futuro vi farò sapere.

 

Vi lascio qui le foto :)

Ciau e al prossimo capitolo!

 

Cielo <3

 

Zike, il parrucchiere

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Ariana e il suo vestito

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Il vestito di Violetta

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