Petrichor.
A
V.
L’odore del
camino riempiva l’aria dell’atmosfera giusta.
Sembrava quasi incenso, quel profumo di legno che ardeva. Il crepitio
delle fiamme si incastrava armonicamente con la pioggia
all’esterno, come a creare una musica universale che tutto il
mondo avrebbe potuto capire. E amare.
Aprì
leggermente la finestra, quel tanto che bastava per far entrare
l’odore di terra bagnata. Era sempre tutto perfetto quando
pioveva. Il cielo del primo pomeriggio assumeva una sfumatura
argentata, l’aria si infrizzantiva e le gocce lavavano via
qualsiasi brutto pensiero.
Mentre si sedeva
sulla scrivania per avvicinarsi ancora di più a quello
spiraglio di aria fredda, le venne in mente che esisteva un nome per
definire quella meraviglia. Petrichor.
Odore di pioggia sulla terra asciutta.
Sembrava
così…ridicolo. Con la schiena appoggiata al muro
e la testa rivolta alla finestra, cercava di capacitarsene.
Era possibile
dare un nome a qualcosa di così bello? Chiunque avesse
inventato quel termine doveva essere biasimato. Non si poteva
rinchiudere così la magia.
Appoggiò
le dita sul vetro. Il calore delle sue mani lasciò subito
l’alone. L’indomani avrebbe pulito.
Seguì
la traiettoria delle gocce che scivolavano verso il vuoto. Le venne un
brivido lungo la schiena.
Richiuse in
silenzio la finestra, scivolando giù dalla scrivania e
raggiungendo a piedi scalzi il divano.
Erano movimenti
così abitudinari che aveva imparato a scorrere sul tappeto
senza far rumore.
Trovò
la coperta di lana rossa pronta ad avvolgerla, le pagine sparse di un
libro da finire a reclamarla.
Tante piccole
note ai margini dei fogli creavano un arcobaleno di errori e dolori.
Guardò la pila di pagine. Un istintivo moto di rabbia e il
fuoco già aveva divorato almeno tre capitoli.
Aveva provato a
riscrivere la storia almeno dieci volte. Si era sempre persa dentro ai
dettagli di un mondo che non la convinceva. E non perché non
avesse idee. Perché ne aveva troppe.
Non riusciva a
contenere tutto quel caos, lei che aveva sempre sognato di arrivare
all’ordine.
Un ordine che
probabilmente l’avrebbe uccisa.
Per evitare di
perdersi nel suo disastroso disordine, all’interno di quella
nuova casa, aveva fatto una scelta saggia: comprare tutto il
campionario così come lo aveva trovato nel negozio e farselo
montare senza partecipare.
Era sembrata una
cosa sensata ai suoi occhi. Se non avesse avuto lo stimolo di mettere
mano dove poteva, avrebbe accettato la casa così fatta e
finita senza intervenire, e si sarebbe adeguata. Aveva avuto
l’occasione di iniziare daccapo, di ottenere la vita che
aveva sempre voluto, senza obblighi o restrizioni.
Quel villino di
un solo piano rialzato e immerso in un giardino che sembrava
più un bosco, era stata la sua piccola fuga dalla
realtà. Gli abeti che aveva fatto piantare creavano uno
scudo perfetto dal mondo esterno. Era come vivere in montagna, con la
comodità di avere il supermercato alla via accanto. E
persone a meno di 100 metri. Perché in effetti
l’idea di restare del tutto sola la terrorizzava.
All’inizio
aveva trovato eccitante l’idea di vivere in una riproduzione
esatta dell’Ikea. Credeva fosse stupendo invitare gli amici,
farli entrare nel suo piccolo ordinato mondo e poi rimandarli nel loro
disordine, oltre il cancello e la strada. Per tutti era diventata una
piccola baita. Carina, diversa, ma solo per le vacanze.
Perché, infondo, era tutto così freddo.
Non
c’era una sola cosa che indicasse che quella fosse casa sua.
Non un quadro, non una foto.
Ironicamente
l’unica zona vissuta era la scrivania, con un vaso di fiori
da buttare, un computer sempre acceso su una pagina bianca e quella
coperta rossa.
C’era
tutta se stessa davanti a quella finestra, su quella scrivania, dentro
quel computer.
Il suono delle
chiavi nella porta la riscosse.
Non sapeva quanto
fosse rimasta ferma in quella posizione. Le gambe le dolevano e il
fuoco si era lentamente trasformato in brace.
La luce debole di
quel pomeriggio di pioggia si era spenta per far spazio a un tramonto
di lampi e tuoni.
Si
alzò, prima per reagire a chissà quale
attentatore, poi per sentirsi una stupida.
Gli aveva
regalato le chiavi. Era talmente irrazionale, che lo dimenticava ogni
volta.
Entrò
dentro casa assieme a litri di acqua fredda e due enormi scatole.
La
guardò con il suo miglior sogghigno, un sopracciglio alzato
e la barba incolta.
Sentì
subito le gambe tremare. E il sorriso incontrollabile spuntarle sul
viso.
«Sorpresa!
Contenta?» le mostrò con ironia le due scatole
impilate prima di appoggiarle per terra.
Tolse velocemente
la giacca zuppa e tornò a guardarla. Poi allargò
le braccia e lei era già lì, a farsi donare un
po’ delle gocce di pioggia incastratesi nella sua barba.
Nascose il naso
sotto il suo collo, beandosi del calore del corpo in contrasto con il
freddo delle sue dita sul viso.
«Profumi
di pioggia»
Lo
sentì stringerla maggiormente e ringraziarla col sorriso.
Se quelle scatole
per terra non avessero avuto quell’aspetto così
invitante, probabilmente sarebbero rimasti in quel modo per ore.
Sciolse
leggermente l’abbraccio, fingendo una smorfia contrariata.
«Cosa
c’è lì dentro?»
Scoppiò
a ridere, smascherando immediatamente la sua finta.
«La tua
cura»
Le si
ghiacciò il sangue, mentre lui si chinava a raccogliere la
prima scatola.
I suoi occhi
corsero immediatamente al computer. E al fuoco.
«Pensi
si possa guarire?»
Si
avvicinò di nuovo al divano per prendere la coperta e
trascinarsela addosso sul tappeto.
Gli occhi fissi
sull’unico pezzo di carta sopravvissuto al fuoco. Accanto
all’inchiostro blu, la scritta al computer recitava
“…vrebbe lottat…”.
Sospirò,
e poggiò la testa sulla seduta del sofà,
aspettando i passi che sapeva lo avrebbero portato da lei.
Aprì
un occhio e incontrò il suo sguardo caldo e serio. Era un
rimprovero pieno di amore. Si chinò all’altezza di
lei, senza sedersi.
Le scatole a
separarla dal camino.
Lentamente
estrasse ogni oggetto contenuto in quei pezzi di cartone.
Il suo cuore si
ricomponeva pezzo per pezzo ogni volta che la mano riemergeva.
Carta straccia
con scarabocchi di una libellula.
Un pupazzo a
forma di panda.
Delle stampe di
una città.
Libri.
Oggetti vari che
non aveva mai visto, ma che sapeva appartenerle.
«Si
può guarire, perché te lo sei fatto da
sola.»
Allungò
le dita verso quel pupazzo. Era nuovo, il cartellino ancora attaccato.
Senza farglielo notare, nascose il prezzo e strappò
l’ancora di plastica. Ci sarebbe rimasto malissimo,
altrimenti.
«Non
scrivi più perché ti sei nascosta in un ordine
che non ti appartiene. In queste scatole ci trovi te stessa.»
Sentiva le
lacrime premerle sugli occhi.
Ogni volta che le
ricordava quanto la conoscesse, lei si sentiva scoppiare, andare a
pezzi e ritornare intera come ricomposta da Picasso. Era una
sensazione…bella.
E iniziavano a
pruderle le dita. Perché quel caos che riusciva a farle
nascere dentro doveva essere per forza ciò che aveva sempre
voluto scrivere.
Le diede un bacio
leggerissimo sulle labbra, si allontanò e si alzò.
Il vuoto
improvviso si trasformò in un puro terrore.
«Dove
vai?» Le mani fredde di lei a trattenere le sue.
«Vado a
preparare il tè.»
Gli sorrise
imbarazzata, ritirando lentamente le mani e incrociandole sul petto.
Sentì
un verso contrariato.
Dopo qualche
secondo, il computer giaceva con il ronzio lieve delle ventole sulle
sue gambe incrociate.
«Le tue
dita dovrebbero essere lì sopra. Op. Op.»
Lo
guardò con il broncio.
«Non so
da dove iniziare…»
«Per
questo ci sono io.»
Voltò
di scatto la testa, temendo di aver letto un sottotesto che forse aveva
solo sperato di scorgervi.
«Quindi…»
un colpo di tosse per schiarirsi la voce «Quindi…
significa che resti?»
Le
sorrise.
Note
Questa storia risale a gennaio di questo anno. Se spiegassi tutti i
retroscena dietro queste poche righe, probabilmente mi metterei a
piangere o non so. Tengo davvero tanto allo stato d'animo in cui l'ho
scritta. Adesso la rileggo con un po' di nostalgia, ma per
esorcizzarla, è giunto il momento di condividerla. Fatemi
sapere cosa ne pensate ;)
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