Ho sempre amato il mare. Da quando ero bambina. Da quando non sapevo
nemmeno suonare una nota sulla mia chitarra, cioè davvero
molto tempo fa.
Adoro il suo colore blu, intenso, freddo… sincero; la sua
consistenza sottile, volubile, fragile e potente allo stesso tempo; e
il suono che fa è la migliore delle musiche che abbia mai
ascoltato. E quale miglior regalo per una taciturna musicista sedicenne?
Con le infradito in mano e il vento tra i capelli, camminavo lentamente
sulla riva. Il mare mi accarezzava le caviglie dolcemente.
«Ciao a te.» ho risposto.
Mi sono fermata a guardare l'orizzonte su cui si stava infrangendo il
sole. Ripensavo alle parole di mio zio. «Quest'anno ci
sarà gente al mare, il comune si sta dando da fare:
ombrelloni a pagamento e nuovi bar in spiaggia. Lavoro per tutti e
più soldi nelle nostre tasche!» rideva. A me tutto
ciò non sembrava così esaltante: la mia vita era
divisa in musica, mare, scuola e Saverio, se c'era tempo (anche se in
realtà per lui c'era sempre tempo), e tutta quell'inovazione
avrebbe voluto dire portare via un quarto abbondante della mia
esistenza, seppur giovane e modesta.
Quel giorno, secondo la premonizione di mio zio, era cominciata
l'invasione: centinaia di gente stesa sul bagnasciuga a farsi
abbrustolire dal sole, macchine parcheggiate ovunque e un forte odore
di crema solare e olio abbronzante. E poi gente in costume a fare il
bagno. Era così tanta che con una bracciata si dava uno
schiaffo al vicino. E il mare, in silenzio, lasciava fare. Mi ricordava
tanto uno di quei cagnoloni enormi, grandi tre volte quei bambini
dispettosi che gli ronzano in giro a tirargli la coda e le
orecchie: anche se il cane avrebbe potuto sbranarlo da un
momento all'altro e farlo smettere nel giro di pochi secondi, restava
paziente a sopportare, con l'espressione stanca e rassegnata, fino a
che il bambino non si stancava più di lui e se ne andava. Il
mare era un gigante esausto, ma se ne stava ancora lì, come
al solito, senza alcun segno di cedimento ad accarezzare la sabbia.
Inutile dire che quel giorno non avevo potuto godermelo. Dopo pranzo
ero uscita con la mia chitarra, mi ero inerpicata sulla collina sopra
la spiaggia per dare uno sguardo, come facevo sempre, e il mio progetto
di passare come mio solito il pomeriggio seduta sulla riva suonando e
cantando era stato sconvolto.
Non avevo più un mio posto. Quello era sempre stato il mio
mare, il mio piccolo infinito.
Avevo l'impressione che sarebbe stata una lunga estate, e avevo ragione.
Camminavo senza meta con i miei pensieri in testa. Le infradito
ondeggiavano dalla mia mano e il vento mi scompigliava i capelli. Ero
così distratta che non mi sono accorta di essere arrivata in
un punto della spiaggia che non conoscevo e in cui non mi ero mai
avventurata. Era nascosto da una vecchia casa malconcia sulla riva, un
punto in cui la sabbia si faceva più spessa e c'erano gli
scogli.
Mi sono guardata in giro con circospezione: nessuna traccia di
contaminazione turistica. Era un posto con un'aria troppo selvaggia per
i bagnanti. Eppure era così affascinante, ispirava pace.
È assurdo come gli esseri umani mettessero da parte le cose
più belle solo perché fuori dal comune e non alla
portata del loro cervellino sottosviluppato.
Se avessi visto quel posto in un quadro lo avrei intitolato Libertà.
Mi sono avvicinata agli scogli. Partivano dalla riva e si stendevano
verso il mare in linea retta, formando quasi una passerella verso
l'orizzonte.
L'ho percorsa lentamente osservando con stupore e meraviglia
ciò che avevo intorno.
Avevo perso il mio posto, ma ne avevo guadagnato un altro, forse anche
più bello.
Mi sono seduta sull'ultimo scoglio e ho appoggiato le infradito accanto
a me, immergendo i piedi nudi nell'acqua fresca del mare serale.
Davanti a me il mare ondeggiava lentamente fin verso l'orizzonte.. Il
sole era ormai calato del tutto e ho pensato che mia madre mi avrebbe
fatto a pezzi se non fossi tornata a casa nel giro di venti minuti, ma
un'atmosfera del genere meritava una bella canzone.
Ho preso la chitarra che avevo in spalla e ho tirato fuori il mio
plettro viola scuro. L'avevo arraffato a casa di Saverio, e non suonavo
mai senza. Ho cominciato a suonare le prime note di Let her go dei
Passenger. Era una bella canzone. Mi piaceva, era malinconica ma non
proprio triste; nostalgica, ma non drammatica. Mi piaceva cantarla,
aveva un bel testo.
"Let her go". Buffo, dato quello che sarebbe successo poco tempo dopo.
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