Tra
persone e numeri.
"Allora
per la prima volta ci siamo accorti che la nostra lingua manca di
parole per descrivere questa offesa, la demolizione di un uomo. In un
attimo, con intuizione quasi profetica, la realtà ci
è stata rivelata: siamo arrivati sul fondo. Nulla
è più nostro: ci hanno tolto gli abiti, le
scarpe, i capelli. Ci toglieranno anche il nome. E se vorremo
conservarlo, dovremo trovare in noi la forza di farlo, di fare
sì che dietro al nome, qualcosa di noi, di noi quali
eravamo, rimanga."
-Primo
Levi
Lo scroscio dell’acqua che scorre. Reeva
rabbrividì. Era gelida.
-Sei sicura di volerlo
cambiare? E’ un colore bellissimo-
cinguettò la parrucchiera, prendendole i capelli tra le
mani.
-Lo stesso dei fiori di
ciliegio- confermò fiocamente Reeva.
L’odore delizioso di sapone alla fragola riempiva
l’aria.
-Io consiglio il celeste-
continuò la parrucchiera. –Si intonerebbe
benissimo al colore dei tuoi occhi.-
Reeva scoprì di
invidiarla. La invidiava perché lei poteva permettersi di
essere frivola e superficiale. –No- disse
semplicemente, poi tornò a guardare lo schermo con il cuore
in gola.
Sentiva male, con il gorgoglio
dell'acqua nelle orecchie, ma poteva vedere benissimo Alek che marciava
su un territorio di roccia grigia, con sprazzi di erba e qualche pianta
a spuntare tra le insenature.
-Lavanda- la
parrucchiera colse il suo sguardo. –E’ un colore
meraviglioso, non trovate? Anche quello sarebbe…-
-No- ripeté Reeva.
Non voleva essere maleducata, ma la donna si chiuse in un silenzio
offeso che durò un unico, bellissimo minuto.
Le telecamere tornarono a
inquadrare la ragazza del 5, poi i Favoriti in marcia. Reeva
deglutì. E non c’era niente, niente che potesse
fare. Solo sperare che i suoi ragazzi non morissero e veder cadere gli
altri, uno dopo l’altro, rinunciando a capirne il motivo.
Solo smetterla con quella
finzione, con quella maschera di bellezza.
-Mio marito ha scommesso sul
tuo tributo, sai? Il ragazzo del 7- riprese allegra la parrucchiera.
-Ha fatto bene-
mormorò. Improvvisamente, l’odore del sapone alle
fragole diventò talmente nauseante che il suo stomaco
minacciò di rivoltarsi.
Sentì la
consistenza ruvida di un foglio nella tasca del vestito, lo
tirò fuori. Era un suo vecchio schizzo, un tributo femminile
vestito da elfo, con un ventaglio di foglie in mano e lievi brillii di
lucciole che le volavano intorno.
-Prometto di non dire niente-
la parrucchiera fece un risolino insensato. –Ma sai
già come far vestire i tuoi tributi il prossimo anno?-
Reeva accartocciò
il foglietto tra le dita, poi sorrise. –Da alberi-
-Oh- commentò
l’altra, dopo un istante.
-Non ti piace?-
-Non intendevo…
Solo… Sarà originale?- fece, poco convinta.
Reeva si limitò a
sorridere ancora di più. Non ti deve piacere. A
nessuno dovrebbe piacere.
La tintura cominciò
a colare, lentamente. Coprendo il rosa, inquinandolo come una pozza di
petrolio. Tanto, era solo colore.
Li
vestirò da alberi, ripeté a sé
stessa. L’anno prossimo. Quello dopo. E quello dopo ancora.
-Ho finito- disse la
parrucchiera. Reeva si tirò su, con un groppo in gola.
Batté un paio di volte le palpebre, raccolse il coraggio,
sollevò gli occhi verso lo specchio. E sorrise.
I capelli le ricadevano lisci
e bagnati a incorniciarle il viso, la pelle trattata anni prima
perché scintillasse alla luce. Ma nonostante le lampade
abbaglianti e colorate della sala, quelle ciocche non riflettevano
niente. Nere, come le ali di un corvo.
Sì, Reeva sorrise.
Perché non era una persona più bella, o
più felice, quella che la fissava dallo specchio. Ma una
persona migliore, o semplicemente una persona vera, quello
sì, lo era.
-Ho una borraccia
d’acqua. Mi hanno sponsorizzato- disse Harvey. Solo
per interrompere il silenzio incerto che si era creato.
Amina alzò gli
occhi dall’orizzonte a lui. Non avrebbe saputo dire se quella
nel suo sguardo fosse paura, ostilità, diffidenza o tutte e
tre le cose. Dopotutto, non si erano parlati molto
all’addestramento, ed erano diventati alleati solo per via di
Alyson e Nathaniel.
Si schiarì la voce,
a disagio. –Hai
sete?-
Amina scosse la testa, poi
mosse un dito in un cerchio vago prima di indicare un albero sporco di
neve.
-La neve? Hai bevuto la neve?-
Annuì.
-Sembra troppo facile-
mormorò Harvey. –Di solito gli strateghi la
avvelenano. Ma penso che ormai tu sia fuori pericolo.-
Amina fece un sorriso timido,
aprendo le dita delle mani. Era straziante non sapere cosa stesse
pensando un persona.
-Sai scrivere, vero?-
domandò, ricambiando il sorriso. Amina tacque, di nuovo
chiusa in un’ombra di diffidenza. Poi, quasi
impercettibilmente, annuì.
Harvey staccò un
pezzo di corteccia da un tronco e glielo porse insieme a un sasso
appuntito. La vide esitare, stringendolo forte tra le dita. Come se
avesse paura.
Alyson?, scrisse infine. Aveva una scrittura
minuta e veloce. –Non so dov’è- rispose
Harvey. –Ma penso sia viva-
Amina fissava la corteccia con
un’espressione indecifrabile. Poi con lentezza straziante,
scrisse. Non gli mostrò niente, ma Harvey riuscì
comunque a vederla, la frase incisa quasi con violenza. Andrà
tutto bene.
Ingoiò aria.
Non aveva una risposta, ma quella non sembrava una domanda.
-La mano…-
notò all’improvviso. Amina si guardò i
graffi che aveva nel palmo, dai quali stillava un’unica
goccia di sangue, e sembrò impallidire. Alzò le
spalle come se se ne fosse accorta in quel momento.
-Il sasso è troppo
appuntito.- cercò di ipotizzare –Posso cercarne un
altro-
Non mi lasciare
sola, finì
di scrivere lei. Harvey la fissò stupito negli occhi verdi,
ed era una preghiera terrorizzata quello che vi lesse stavolta. Come se
avesse un disperato bisogno di qualcosa, bisogno di… Lui.
-Sì- promise. Lei
lo guardava con un’adorazione silente che non poté
che
imbarazzarlo ancora di più. –Beh, no…
Non lo farò-
Amina sorrise di nuovo, mentre
nascondeva la mano graffiata contro il fianco. Indicò il
sole.
-Sì, è
l’alba- tradusse Harvey. –Dovremmo continuare la
marcia-
Amina annuì, poi
alzò appena le sopracciglia, interrogativa.
-Dove?- Harvey si
guardò intorno, e vide solo alberi. In lontananza, non del
tutto nascosti dalla foresta, due canali di lava si intersecavano
perpendicolarmente.
Quando tornò a
guardare la sua compagna, c’era una scritta sulla corteccia,
e una scintilla strana nei suoi occhi.
Verso il fuoco?
-Okay. Sì...- Alex
vide Ester deglutire, il volto pallido come quello di un impiccato. In
effetti, anche lui avrebbe preferito mille volte essere in esplorazione
con Momo, in quel momento.
Persino lui, che nelle lotte
di strada di ferite ne
aveva viste tante. Persino lui, che si era preso un intero pugnale
nell'avambraccio. Persino a lui, la sola idea di ricucire un intestino
faceva venire i brividi.
Ester tagliò via
con il coltellino la stoffa della tuta vicina al foro. Ronnie aveva gli
occhi chiusi sotto le ciocche di capelli biondi, incollate alla fronte
per il sudore, ma era chiaro che non era incosciente. Il suo petto si
alzava e si abbassava velocemente.
Alex si azzardò a
toccargli una spalla, e i suoi occhi azzurri si spalancarono su di lui.
Ronnie forzò un sorriso pallido. -Cercherò di non
urlare-
-È per questo che
sono qui- Alex gli offrì il pezzo di stoffa da stringere tra
i denti, poi passò ad Ester l'unguento. Ancora non si
capacitava che dopo le loro interviste li avessero sponsorizzati, e con
addirittura due medicine, di cui una era tra le più potenti
sul mercato. Chiunque sia stato, non potrà farlo
di nuovo.
Mancava poco. Poco, e si
sarebbero dichiarati.
Deglutì. Ester
aveva finito di spalmare la pomata. -Ago e filo- mormorò.
Alex li prese dallo zaino, guardandola dubbioso mentre si mordicchiava
il labbro, con tutta l'aria di qualcuno che sta per vomitare.
-Sai quello che fai?-
Ester spostò lo
sguardo vacuo su di lui. -Posso solo sperarlo-
Alex fece una smorfia,
osservando le sue mani che fissavano il filo, animate da un fremito
impercettibile.
-Sembra che ti debba fidare di
me- sussurrò lei a Ronnie. Il ragazzo sorrise di nuovo.
-Devo ricambiare il favore,
ricordi?-. Si infilò la stoffa tra i denti e rimase
immobile, con il capo abbandonato sulla coperta e gli occhi di nuovo
chiusi.
Alex lo osservò
esitante per qualche istante. E decise. -Vedi di restare vivo- disse. Anche
perché non ho alcuna intenzione di diventare io il capo.
Senza aspettare una risposta,
strinse il pugnale in una mano, con l'altra gli sollevò la
testa.
-E scusa-
Lui riaprì gli
occhi di scatto. –Cosa?-
Affondò l'arma. Un
singolo colpo, fulmineo e mirato. Ester lanciò un urlo,
mentre Ronnie si accasciava esanime sulla coperta.
-Perché... hai...-
-Non ce la facevo, va bene?-
sbuffò Alex, gettando via la lama. -E fidatevi, un pomolo di
pugnale sulla nuca è miglior antidolorifico che esista-
-Efficace- commentò
Liam, seduto a qualche metro di distanza.
-Avresti potuto avvertire-
protestò Ester, la voce incrinata.
Alex scrollò le
spalle.
-Avrebbe cambiato qualcosa?-
Liam fece un sorriso pacato.
-Sarebbe stato meno divertente-.
L'orizzonte era un cerchio blu
scuro. Le onde si rincorrevano lente, scomparendo e danzando tra la
schiuma in un caleidoscopio di cristalli di luce. Artigli d'acqua si
scioglievano nella sabbia bagnata.
Una brezza fredda gli
scompigliò i capelli rossi, mentre l'odore di salsedine
quasi gli dava alla testa. Gli occhi di Xen si persero con una lieve
vertigine nel punto in cui il mare si fondeva con il cielo, non
interrotto da nulla. E si riempirono di lacrime amare.
Mai si era sentito
più vicino alla libertà e mai ne era stato
più lontano. Perché lo sapeva, che era tutto
fittizio. Le onde in lontananza, l'orizzonte, tutto dipinto su un campo
di forza a non sapeva quanti metri dalla riva. Era in una meravigliosa
prigione di plastica.
Come vedere la speranza da
dietro un impalpabile muro di vetro, troppo vicina perché
potesse distoglierne gli occhi e troppo lontana per poterla anche solo
sfiorare. Era tutto così... Sbagliato.
Lentamente, spostò
lo sguardo verso il canale.
La lava si riversava
nell'acqua gelida a lente, incessanti ondate incandescenti, con sibili
duri e colonne di fumo che si attorcigliavano nell'aria. Il blu cupo
dell'acqua era scosso da ribollii furiosi.
Era una bellezza selvaggia,
spaventosa, surreale eppure terribilmente vivida. Xen si
avvicinò con un timore quasi reverenziale, prima di
lasciarsi cadere a gambe incrociate sulla sabbia.
Fu mentre i suoi occhi
rincorrevano le sfumature sanguigne della lava che se accorse. Al
centro del canale scorreva, anche se più lentamente rispetto
all'alta quota, perché non c'era pendenza; ma ai margini il
flusso era praticamente fermo.
Xen osservò la
lunga linea venata di un rosso più scuro. Non c'erano
dubbi. Stava cominciando a solidificarsi.
Ci pensò, e il
dettaglio da insignificante divenne sospetto, da sospetto
sinistro.
Cercò di mettere a
fuoco, fissando inquieto il fumo. Se il canale si fosse completamente
solidificato... Se la lava non avrebbe più potuto liberarsi
nel mare... E se come pensava il cratere assicurava un flusso
costante...
Xen si passò una
mano tra i capelli, sollevando gli occhi alla cima della montagna.
Troppi sé per prevedere qualcosa e troppo pochi per
tranquillizzarlo.
O forse, semplicemente, non
voleva capire.
-Ci serve un capo- disse
Scarlett.
-Sono d’accordo-
disse Samuel.
-Qualcuno che coordini gli
attacchi.-
-Giusto-
-Come l’altra volta
con gli ibridi-
-Già-
-Che comandi i turni di
guardia, i ruoli…-
-Esatto-
-Che decida dove cacciare e
cosa fare, che…-
-…Che sia amato
dagli sponsor. Che sia carismatico, intelligente, con il senso
dell’umorismo e…-
Scarlett ringhiò.
–Non ci pensare nemmeno-
-Oh, suvvia. Sono certo che lo
stai facendo anche tu.-
Stephen lanciò
un’occhiata pigra ai suoi compagni, l’uno
comodamente appoggiato a un tronco con le braccia incrociate,
l’altra in piedi a pugni stretti.
–Io non
prenderò ordini da te.-
-Sì?- Samuel
sbadigliò.
-Cosa ci avresti comandato di
fare, alla Cornucopia? Andare in giro ad ammazzare tributi a mani nude?
Se ci fossi stato anche tu, forse…-
-E’ così
dannatamente poco originale-
Stephen inghiottì
il pinolo con cui stava giocherellando, smettendo di ascoltarli. Aveva
il sospetto non troppo vago che avrebbero finito per ammazzarsi.
Li squadrò di
sottecchi, mentre si avvicinavano sempre più
pericolosamente, senza smettere di berciare. O meglio, ad avvicinarsi
era Scarlett, perché Samuel non sembrava intenzionato a
smuoversi da quell’albero. Assassini dalla punta
dei piedi a quella dei capelli. Alzò gli occhi
alla chioma dell’albero sopra di lui. Come me.
La sua mano scivolò
nella tasca del mantello, sfiorando la scarpetta da danza che era stato
il portafortuna di Coral.
Non aveva visto Scarlett
ucciderla, ma un cadavere con una freccia piantata nel petto lasciava
ben poco all’immaginazione. Non avrebbe dovuto biasimarla.
Tutti avevano ucciso, lì, e con o senza di loro
ventitré tributi sarebbero morti in ogni caso. Le scuse
sembravano quasi formularsi da sé.
Solo che lei era Coral. Lui
l’aveva vista vivere, sperare, disperare. Danzare sulla
sabbia, una volta, mentre credeva di essere sola.
Era per quello che aveva preso
il suo portafortuna, per ricordarsi che dietro ogni cadavere
c’era stata una persona. Che gli importasse o meno, quella
era un’altra questione, e preferiva non porsela affatto.
Perché non era sicuro che la risposta gli sarebbe piaciuta.
Rievocò lo sguardo
di Coral al termine dell’intervista, e cercò di
imprimerselo a fuoco nella mente. Doloroso, sì, ma
necessario. Lo doveva a lei, a sé stesso, o a quello che ne
era rimasto da quando si era offerto.
Poi le sue dita scivolarono
più giù e incontrarono il paio di forbici.
Stephen iniziava a pensare che stessero sviluppando una sorta di mania
febbrile che le impediva di stare ferme, perché cominciarono
a giocherellare anche con quelle. Tic tic tic tic…
-Che stai facendo?-
sbottò d’improvviso Scarlett, girandosi verso di
lui.
Le forbici si fermarono di
scatto, insieme ai suoi pensieri. Stephen alzò
innocentemente le sopracciglia, mentre il silenzio si prolungava. E
scoprì che il modo in cui Samuel stava cominciando a
fissarlo non gli piaceva per niente.
-Oh, no, no-
-Oh, sì- sorrise
Samuel. –Carismatico, intelligente, con il senso
dell’umorismo…-
Stephen guardò
Scarlett, e l’espressione pensosa che incontrò
annientò anche la sua ultima speranza.
Sorrise tristemente. Forbici.
Maledette forbici.
Diana si immerse con un
sospiro di sollievo nella seconda foresta, lasciandosi il terreno
scoperto alle spalle. Sollievo che durò poco.
Aveva sete. Fame, anche. E non
c'era niente che potesse fare.
Si addentrò a passo
stanco nel boschetto, giocherellando inquieta con il medaglione sul suo
petto.
Aveva un bisogno disperato di
sentirsi al sicuro, ma non poteva. Chissà, forse anche un
pericolo concreto, una possibilità di reagire e difendersi
l'avrebbe aiutata a non impazzire.
Ma era questo che
davvero non sarebbe riuscita a sopportare. Aspettare, aspettare,
aspettare, con la consapevolezza che la sua vita era completamente
nelle mani nel caso e non di sé stessa. Aspettare che il
senso di impotenza la bruciasse da dentro.
Diana si appoggiò
contro un tronco, addentando con rabbia le poche piante che aveva
trovato, nel tentativo di mettere a tacere quei pensieri. Timo,
piantaggine e un'altra di cui non si sarebbe mai ricordata il nome, ma
che tra tutte era la più amara.
Odiava non dover permettersi
di pensare a cosa stava per perdere, a chi stava
per perdere, perché aveva troppa paura di rompersi.
E odiava il fatto che non ci
riusciva, a non pensarci.
Sfiorò la corteccia
di un tronco con le dita, chiudendo gli occhi. Il profumo di resina e
quello delle nuvole gremite di neve. Il verde quieto che aveva sempre
considerato la sua casa.
Era la seconda cosa che le
avevano già strappato via. La prima era stata il cielo
stellato.
Perché comunque
andasse non sarebbe mai riuscita a guardare un bosco senza pensare
all'arena. Mai più.
-Ma ti rendi conto di cosa stai
mangiando?-
Diana alzò gli
occhi di scatto. E la vide. Appollaiata sulla quercia, seminascosta
dalle fronde, c'era Axe.
-Abigail- esalò.
-Parla più piano, i
Favoriti potrebbero sentirci- disse Axe. -Riflessi pronti?-
Diana afferrò al
volo la faretra che le lanciò, barcollando per l'impatto.
Qualche freccia si riversò a terra, riflettendo la luce.
-Grazie... Per il pensiero-
mormorò, allibita.
-Non serve ringraziare. Mi
bastano due pasti al giorno tutti i giorni-
Axe scese dall'albero con una
velocità sconcertante, si tolse l'arco dalla schiena e
glielo porse, un sopracciglio inarcato e il suo sorriso sempre
vagamente derisorio sulle labbra.
Tutti i suoi pensieri sul non
fidarsi più di tanto sbiadirono in pochi secondi, e a
travolgerla fu semplicissimo sollievo.
-Nessun'ascia?-
-Troppi...- Axe
roteò la mano in aria -Giavellotti che volavano.-
Sebbene non ci
fosse niente di divertente, Diana sentì un sorriso
involontario
fiorirle sul viso. Strinse l'arco tra le dita, quasi incapace di
crederci.
-Sono profondamente commossa
anch'io. Adesso vuoi andare a caccia o preferisci continuare a ruminare
erbetta?-
Andare a caccia. Bastarono quelle sillabe, e
l'adrenalina la inondò, calda e confortante, come una
boccata d’aria dopo una lunga apnea. Per un attimo si
sentì di nuovo nel suo distretto.
Non era più lei la
preda.
-Ora- un sussurro.
Ester si girò verso
Ronnie, il cuore in gola. –Hai ancora la febbre…-
-Ora- ripeté lui. E
stavolta la parola d’ordine sferzò
l’aria come una frustata.
Ci fu silenzio. Un silenzio
carico di promesse.
-Vado a cercare cibo- disse
Liam.
-Tu non conosci le piante.
Andiamo insieme- propose Alex.
-Cercate Momo- aggiunse Ester.
Si schiarì la voce per impedire che le tremasse. Basta
con le debolezze.
Rimasero soli. L’uno
accanto all’altra.
Ester rabbrividì,
stringendosi nella coperta. -Fa freddo-
-Vieni qui- Ronnie la strinse
a sé dal fianco sano, e lei abbandonò il capo sul
suo petto. Avrebbe dovuto essere Amber a fare quella parte, ma Amber
era morta. Appoggiò l'orecchio sull'incavo della spalla,
distinguendo il flebile battito del suo cuore. Veloce, esattamente come
il suo.
-Dovrei contare le volte che
sono svenuto- disse Ronnie, in tono leggero. Ester non rispose. Rivide
involontariamente ogni istante di quel maledetto giorno, il Favorito
immerso in una pozza di sangue, il peso di Ronnie sulla sua spalla, la
marcia pesante tra gli alberi.
La consapevolezza che presto
sarebbe morto, che era tutta colpa sua, che
nell'Arena non c'erano modi per salvarsi l'anima. E’ tutta
questione di numeri, le aveva sussurrato Liam. Tutta questione di
numeri.
-Ronnie…-
non riuscì a continuare. Non che sapesse bene cosa dire.
Forse voleva chiedergli di perdonarla, ma non ne aveva il diritto. E le
parole non avrebbero cambiato i fatti. –Secondo te una vita
può essere considerata un numero?-
Silenzio. Il respiro di lui
nell'ombra. Forse sarebbe stata l'unica risposta che avrebbe mai
ricevuto.
-Una vita? No. Tante vite a
confronto?- Ronnie tacque. –Che scelta abbiamo?-
Stiamo per salvare
una nazione, o per dar vita a una carneficina?
Ester si rese conto che era
un’altra la domanda realmente spaventosa. C’è
una vera differenza tra le due cose?
-Non lo so-
sussurrò. –Ron, non lo so. Ma promettimi che non
perderai te stesso-
-Come?- sentì la
sua voce graffiante, quasi roca. –E’
l’unica cosa che mi rimane-
Ester scosse la testa
contro il suo petto.
- No- disse. -Hai anche me.-
-Allora… Non ho
intenzione di perdere nemmeno te-
Ester ripensò al
suo distretto, ai tramonti sull’albero. Una vita prima.
Nell’arena quel mondo non esisteva più, ma lei
c’era, c’era ancora. Ignorò la paura, il
desiderio di fuggire e regalarsi una speranza di tornare alla sua
famiglia. Per Panem, sì, ma anche per un motivo
più semplice ed egoistico. Non sono pronta a dire
addio a me stessa. E forse questo è l’unico modo
che ho per non farlo.
Ronnie la strinse tra le
braccia, senza fretta, perché si vedeva che gli costava
dolore.
-Non ti lascerò
andare- ripeté, lentamente, forse perché
l’emozione gli
bloccava la gola come a lei. –Non ora che ti ho trovato-
Ester sentì il suo
odore. Lo sentì, sotto il sangue e il sudore. Caldo e
rassicurante.
Si avvolse più
stretta tra le sue braccia, poi accarezzò piano il filo
del pugnale, tra le sue dita. Lo lasciò scivolare dolcemente
fino alla spalla di Ronnie, e sentì che lui stava facendo lo
stesso con la sua. La vertigine la travolse in una morsa opprimente di
paura e adrenalina. Stava per succedere. Stava per succedere davvero.
-Non voglio andarmene-
sussurrò. Sentì il suo fiato tiepido sulle
labbra, mentre le percorreva il profilo del mento con un dito. La mano
che impugnava il coltello tremò leggermente. Ester si
morse la lingua, forte, sempre più forte.
I loro occhi si incontrarono,
e in quello sguardo c'era tutto. Trattenne il respiro, mentre il tempo
si dilatava e le iridi cristalline di lui brillavano più
luminose.
E in quel momento, ne fu
sicura, ogni singolo abitante di Capitol City e dei distretti li stava
guardando. Un brivido ghiacciato le graffiò la schiena, un
unico pensiero le trafisse la testa. Non può
essere vero.
Le loro labbra furono a un
soffio dallo sfiorarsi. Fu quello l'istante in cui Ester diede un colpo
deciso, sorprendentemente sicuro, e il suono della tuta strappata
risuonò nel bosco.
I due numeri 11, i numeri del
loro distretto, caddero a terra.
Ci fu un singolo attimo
sospeso, poi qualcosa nell'aria si spezzò, definitivamente.
L'avevano oltrepassato. Il punto di non ritorno.
-Se distoglieste le telecamere
da noi- Ronnie si alzò di scatto, e un sorriso degno della
parola demoniaco gli sfregiò il viso.
-Significherà che avete qualcosa da nascondere, non
è vero?-
Il cuore le martellava nel
petto. Si lisciò la treccia disfatta, cercando invano di
tranquillizzarsi, solo che non era vera paura quella le bruciava nei
polmoni.
-Noi non ci uccideremo. Né
ora, né mai. Non uccideremo nessuno che non tenti di
ostacolarci-
-È finito il tempo
in cui altri scelgono per noi- disse Alex, materializzandosi da dietro
gli alberi, anche lui con la spalla scoperta.
-È finito il tempo
in cui altri si illudono di poter prendere più delle nostre
vite- disse Liam.
-Siamo noi a decidere in cosa
credere- disse Momo.
-Siamo noi a decidere per cosa
combattere.-
-Ora.- disse
Ronnie. -Ora, perché ogni giorno che passa qualcuno muore di
fame e di quella morte ci rendiamo responsabili-
-Ora. Perché
abbiamo aspettato troppo tempo-
-Ora prendiamo in mano le
nostre vite. Ora prendiamo quello che è sempre stato nostro.-
-Ora inizia la guerra.-
-E non potete fermarci. Non
potete, sapete perché?-
-Perché noi non
siamo un numero- disse Momo.
Ester inspirò una
boccata d’aria, gelida, incandescente, e un sorriso infuocato
si spalancò sul suo volto.
-E’ finito il tempo
delle illusioni- sentì la propria voce echeggiare nella
radura, dura come l’acciaio. –E’
finito il tempo di Capitol City-
···
Un silenzio ghiacciato
strisciava nella stanza degli strateghi.
-Uccidili- sibilò
Lucius. –Questa è una dichiarazione di
guerra. Uccidili subito, o…-
Bartheon batté il
pugno chiuso sul tavolo. Lucius tacque.
-Ucciderli significa temerli,
pezzo di genio- continuò a fissare lo schermo, con una calma
che era solo in parte simulata. –Significa martirizzarli-
-E allora cosa dovremmo fare?-
Per una volta, non c’era traccia di disprezzo nel tono del
suo Secondo.
Spezzarli. Bartheon sospirò piano,
fissando il tributo dell’11 con ammirazione mista a
tristezza. Vorrei avere scelta.
-E’ la mia arena. Ho
tutte le carte che mi servono- intrecciò le dita e vi
poggiò il mento. –Cominceremo dalla ragazza-
Lucius tacque per un
po’. –Cosa succederà? Se avranno
successo?-
-Beh, suppongo…-
Bartheon alzò le sopracciglia e lo guardò.
–Che avrai guadagnato un avanzamento di carriera. Stratega
del vino?-
-Sì, signore?-
Bartheon sbuffò.
Rispondeva sempre così. –Qual è il tuo
compito?-
-Versare… Vino?-
-Allora perché il
mio bicchiere è vuoto?-
Tornò a fissare lo
schermo. Cinquanta anni prima era stato una testa calda, piena di amore
per le sfide. Non sapeva quando l'aveva perso di preciso. Forse si era
sgretolato gradualmente, sparatoria dopo sparatoria, smarrito nel
sangue, bruciato nelle trincee.
Così, Bartheon
sospirò soltanto, portandosi il vino alle labbra.
E guerra sia.
E’ finito il tempo di Capitol City.
Lì vicino, nascosta dietro un albero, Alyson ascoltò.
Ascoltò tutto. Rimase immobile per un lungo istante,
poi si voltò e si allontanò lenta tra le ombre.
Le ombre del tramonto.
______________________________
Note
dell'autrice che ha finalmente capito come mettere i margini
O quasi. Salve
gente! Ebbene sì, sono ancora in grado di
pubblicare in quasi due settimane. E di non fare o
quasi capitoli chilometrici. Anche se il prossimo mi sa che
sarà parecchio più lungo, non ho altra scelta.
Ovviamente,
le frasi melense di Ronnie ed Ester non hanno
nessun pretesto di essere profonde o sensate, era giusto un teatrino da
mettere su e ai capitolini sarebbe bastato per concentrare le
telecamere su di loro. E avrete capito che l"emozione" era per tutt'altra
cosa. Il mio genere di romanticismo.
Da
adesso in poi, l’alleanza non potrà più
ricevere sponsor. Muahahah (?) Bartheon non farà
arrivare nulla, significherebbe mostrare che la nazione è
solidale con Ronnie. A proposito, Barthy ha settanta anni
ma dovete immaginarvelo sui cinquanta, perché (contradditemi
se sbaglio) immagino che i trattamenti
capitolini abbassino l'età dimostrata di circa quindici
anni.
La
storia di Reeva – il fatto che si tinga i capelli e tutto
– è sempre stata indicata dalla creatrice, Kirlia.
E a me è piaciuta troppo per non descriverla. Lei
sarà la stilista di Johanna nei 75°.
Oggi
nessun morto, ma non vi preoccupate, rimedierò in fretta. Da
adesso in poi i capitoli saranno strutturati sempre notte-giorno, con
anche salti temporali; quindi, se tra i pensieri dei personaggi non ci
sono quelli che vi aspettate, può essere semplicemente
perché non è la situazione adatta. Per questo
nessuno pensa a Nathaniel o ad Amber, sarebbe stato forzato, ma non
vuol dire che non l’abbiano già fatto. Io seguo
solo un flusso di pensieri spontaneo.
Altra
cosa, mi sembra inutile specificarlo ma avrete capito che oggi mi va di
cianciare: nei POV quello che pensano i personaggi non è
necessariamente quello che penso io. Se Ester si crede spacciata
è perché è confusa, disperata mezza
traumatizzata, non vuol dire che per me lo sia. E cambiano anche le
opinioni sui personaggi, sulle situazioni e ogni cosa: non
c'è neanche l'ombra di oggettività, cerco di
filtrare tutto. Insomma, non fidatevi troppo dei personaggi.
However,
questo capitolo non mi soddisfa molto (altro dejavu) . Mah, facciamo
che quando uno lo farà, vi avviserò.
Dal prossimo iniziano i nuovi POV. Non avrei mai pensato di dirlo, ma
la loro storia è addirittura più esaltante da
scrivere che l'arena. E infatti ho già pronte sei versioni
diverse dei primi tre paragrafi (??)
Spero che la storia vi stia piacendo, e se qualcuno mi può
spiegare com'è matematicamente possibile che io abbia
scritto in totale tredici
capitoli e questo per efp sia il quattordicesimo...
(Lo so, si legge male. E
ho dovuto modificare l'immagine su paint perché non si
vedevano le scritte, e questo è il capolavoro risultante.
No, okay, lo migliorerò prima dei prossimi.
"Alleanza"
sta per Ronnie, Alex, Ester, Momo, Liam. Le scritte sono l'area
generale in cui si trovano i tributi mentre le palline l'ubicazione
precisa. A quelle più grandi corrispondono le alleanze
più grandi. E le scritte in bianco sono i morti recenti,
muahahah.)
PS: Mio fratello ha messo a punto un simulatore di combattimenti fra
tributi, basato su abilità, situazioni, dadi e strategia. E'
qualcosa di bellissimo; abbiamo provato a far scontrare l'alleanza di
Ronnie con i Favoriti, tutti armati e in campo aperto. Sono morti, in
ordine: Momo, Scarlett, Alex, Samuel, Ester, Liam, Stephen e Ronnie
è rimasto in piedi. O quasi, perché è
finito con una gamba mezza mozzata.
In conclusione: sperate che non si incontrino mai. Perché,
ora come ora, sono a un solo testa o croce di vicinanza...
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