"Son of
Rome"
Il
fuoco distrugge, il fuoco divora la terra, lascia cenere e polvere
sotto i
calzari, sotto i piedi nudi di chi non può più
vedere, di chi non può più
parlare. Odore di fumo che brucia la gola, odore di legna riarsa, di
tizzoni
spenti dal vento delle montagne. Fuoco che ruggisce, imbrigliato in un
cerchio
di pietre taglienti come i volti affilati, scavati, di chi intorno a
quel fuoco
è sempre vissuto.
Nei
suoi
ricordi passi di danza intorno al bivacco, ritmi incalzanti per chi non
ha più
orecchie per sentire, senza paura incatenando la bestia dalle mille
spire,
salutandola come sorella, rispettandola come padre severo.
La
memoria
svanisce negli occhi bruciati, rimane impressa nella terra, nella
polvere sporca,
dietro gli occhi di chi è rimasto indietro. Trema il
deserto, tremano le
montagne nel rombo di un dimenticato silenzio che inghiotte, nasconde
ricordi
lontani. Ricordo di un tempo che era e mai più
sarà.
Voci
di festa, voci di guerra, voce del vento che spazza la terra. Cancella,
dimentica, ma non tu, non tu che di questa terra devi ancora portare
memoria.
Capitolo Primo
Roma.
I suoi antenati la chiamavano “nido
dell’aquila” quella terra immersa nel sole,
tinta nel verde di mille vallate. Aquile per una terra dolce, generosa,
come
leoni feroci i suoi avi erano stati per le aspre montagne, per gli
immensi
deserti dei suoi ricordi. Denti affilati, cuori taglienti per quella
loro terra
ingrata, madre severa eppure tanto amata.
Aquile,
sì, colpivano e svanivano, dilaniavano e poi tornavano in
alto, in quel loro
covo di grazia e bellezza, rifugio sicuro per chi del sangue ha sporche
le
mani.
Estel
aveva solo quindici anni quando arrivò alla famiglia Titus.
Aveva viaggiato a lungo, lontana da ciò che più
aveva amato e pure dalle terre e dagli uomini che le avevano tolto ogni
cosa.
Aveva
perso la propria famiglia, la libertà e la propria casa in
pochi giorni, aveva masticato polvere e sangue per non cedere anche un
solo istante al dolore, al conforto della morte. Aveva continuato a
lottare aggrappandosi a quella dignità e a quello spirito di
fuoco che da sua madre aveva ereditato.
Eppure
nonostante lo sconforto, la solitudine e la schiavitù la sua
bellezza non era mai sfiorita, una bellezza in cui sua madre poco prima
di morire aveva riposto le sue ultime speranze, augurandosi che
l’avrebbe protetta da quella vita da schiava che invece era
toccata in sorte a molte delle donne del villaggio.
Arrivò
a Roma in un carro. Non imprigionata, ma sedendo a cassetta con lo
straniero che si era incaricato di trattare con le nobili famiglie
della città.
Parlava
un arabo stentato e non la guardò mai negli occhi,
né osò sfiorarla durante il lungo viaggio dalla
Siria. Non che Estel vi avesse prestato molta attenzione.
Ciò che vide in quella città non assomigliava a
nulla che si trovasse impresso nei suoi ricordi di bambina.
Le
donne passeggiavano vestite come regine su quelle strade lastricate di
pietre incredibilmente bianche, i loro gioielli d’oro
tintinnavano e splendevano come soli sui loro volti, sulle braccia
delicate. Persino le schiave vestivano porpora e avevano fili
d’oro intrecciati nelle chiome scure.
Alcuni
uomini vestivano come donne, mollemente seduti in scomode portantine.
Quelli di loro che camminavano a piedi erano circondati da stormi di
ragazze, erano alti, capelli scuri, occhi più chiari di
quelli che era abituata a vedere. Poteva scorgere cicatrici sottili
sulle braccia muscolose e sulle mani rozze, rovinate.
Vide
statue alte come colline, colonne così ampie che sarebbero
serviti tre uomini adulti per abbracciarne il fusto. Sentì
più voci di quante sarebbe riuscita a coglierne in una vita
intera, mentre gli odori si confondevano in una strana armonia che le
diede quasi alla testa.
Il
carretto si allontanò velocemente dal centro della
città, spostandosi dove ancora i campi erano verdi e dove le
terre più ampie appartenevano a chi aveva combattuto guerre
in onore della patria. Uno di quegli uomini era Leontius Titus.
Ritirato
nella pace di quella sua enorme villa alle spalle del Colosseo,
necessitava di ancelle per la sua figlia più giovane,
Giulia. Lo schiavista la istruì su come avrebbe dovuto
comportarsi di fronte alla famiglia, di non parlare né
alzare lo sguardo se non interpellata, regole che facilmente la ragazza
avrebbe potuto seguire visto il suo stentato latino e la totale
mancanza di conoscenze sulla vita di quella enorme, viziata
città.
Il
colloquio fu breve. Contrariamente a quanto avrebbe dovuto fare, Estel
tenne lo sguardo ben alto una volta entrata nella villa lastricata di
marmi bianchissimi e forse fu proprio questo a regalarle la sincera
simpatia del padrone di casa. Un uomo rude, non avvezzo a cortesie e
cerimoniali, la guerra era stata la sua casa, la sua legione la sua
famiglia per troppo tempo ed il corpo stanco né portava
tutt’ora i segni.
Leontius,
oltre la bellissima moglie Septima, possedeva due giovani figli che
Estel guardò, durante tutto il colloquio, con malcelata
curiosità. Giulia aveva la sua stessa età, bella
nell’abito bianco da vergine, i grandi occhi scuri distratti
dai gioielli al proprio polso. Alla destra di suo padre il primogenito,
Marius sembrava già pronto a valicare il fronte di guerra.
Non
c’era tenerezza nei chiari occhi verdi, mentre la osservava
dall’alto di tre scalini di pietra, i corti capelli scuri da
soldato, il viso squadrato, bello e maturo, già appena
sfigurato da leggeri tagli di lama.
Negli
occhi del ragazzo Estel vide la propria rovina, la solitudine a cui era
stata destinata. Conclusero l’affare, decidendo della sua
vita come più loro aggradava e per una volta la ragazza
cedette alla rassegnazione. Era ormai lontana dalle terre di fuoco in
cui era nata, lontana dalla sabbia e dal vento. Non c’era
nulla per lei su quelle verdi colline, solo rimpianto.
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