Capitolo 9.
(Una settimana e
mezza più tardi)
Vedi,
la vita è una piuma. Si balla e si trema amore mio.
Aprii
l’ultimo cassetto
dell’anonimo comodino in legno bianco e antiestetico che
tanto avevo odiato
durante quei due mesi passati in osservazione. Mordicchiandomi
distrattamente
un labbro, iniziai ad estrarre tutto quello che vi era
all’interno, come
calzini, una bottiglietta d’acqua, un peluche che mi avevano
portato i bambini
dell’orfanotrofio, un paio di disegni di quella piccola peste
di Rufy, un quaderno,
il libro de Lo Hobbit e una
maglietta
a maniche corte che avevo rubato a Kidd che usavo per dormire la notte.
Buttai
tutto sul letto per poi iniziare a riempire l’ultimo zaino,
gettando dentro la
roba in disordine e faticando alla fine per farci stare tutto.
Una volta
finito,
poggiai le mani sul materasso del letto ancora sfatto nel quale avevo
dormito
fino a poco prima e sospirai abbassando il capo, godendomi il silenzio
e la
tranquillità della stanza, pensando al casino che avrei
ritrovato una volta
tornato a casa.
Mi
avevano dimesso il
giorno prima, dicendomi che stavo bene, che gli ultimi esami erano
risultati
positivi e che nulla mi tratteneva più
all’ospedale. Mi avevano stretto la mano
e augurato buona fortuna e poi mi avevano lasciato a rielaborare la
notizia e a
fare le valigie, dandomi un giorno, al massimo due, per organizzare il
trasferimento e ritornarmene a casa mia. Avrei potuto benissimo
schizzare fuori
da quell’edificio non appena mi avevano parlato delle mie
dimissioni, ma la
verità era che quelle parole mi avevano fatto sentire
pesante, come se fossi
stato ancorato al suolo.
Faticavo
ancora a
crederci: era tutto finito, potevo ritornare alla mia vita di prima,
potevo
rivedere tutta la mia famiglia e riprendere a stare con loro senza
separarmi
mai più. Avevo lottato e avevo vinto. Ero uno di quelli che
ce l’avevano fatta.
Deglutii
rumorosamente
e alzai gli occhi sulle pareti della stanza, lasciandoli scorrere sui
molteplici disegni raffigurati e sulle frasi di incoraggiamento per poi
fermare
la loro corsa sul dipinto che svettava sopra alla testiera del letto.
Osservai
ogni dettaglio di quella fenice azzurra, imprimendola nella mente e
ragionando
sul fatto che, alla fine, ero stato davvero molto fortunato.
Respiravo
ancora; il
mio cuore batteva e pompava sangue e vita; le mie gambe si muovevano
agili e
rispondevano ai comandi; la mia testa funzionava ed io esistevo. Vivevo.
Ed ecco
che l’ondata di
senso di colpa mi investì come un uragano. A me era andato
tutto bene, ero
fuori pericolo, ma quanti altri sarebbero dovuti rimanere
all’ospedale in
attesa che qualcosa cambiasse? Quanti altri sarebbero morti? Chi altro
sarebbe
rimasto solo, quando invece a me veniva concessa
l’opportunità di uscire, ricominciare
a vivere ed essere felice? Tutto ciò mi faceva sentire
così male. Era ingiusto,
inadeguato, era da egoisti. Me l’aveva detto anche Kidd,
quella mattina, quando
ero andato a dargli la notizia e a salutarlo. Ero entrato nella sua
stanza con
la testa bassa, quasi come un cane bastonato. Gli era bastato
un’occhiata alla
mia espressione dispiaciuta per sospirare e recepire la notizia.
‘Un
altro che ci abbandona’
aveva detto. Ed era sembrato così solo, così
piccolo, nonostante l’aspetto e il
carattere burbero. In quel momento, Kidd era apparso esattamente come
tutti gli
altri: malato, indifeso e senza speranze.
Mi ero
sentito un
verme, non solo per la mia condizione, ma anche per Trafalgar. A dire
la
verità, tutti ce l’avevamo un po’ con
lui. Una settimana prima ci eravamo
svegliati e non l’avevamo più trovato. Era sparito
nel nulla, senza salutare e
senza lasciare un biglietto o qualcosa del genere. Solo Eustass
sembrava
conoscere la realtà dei fatti, ma non aveva detto niente e
noi non avevamo insistito
per saperne di più. Ad ogni modo, non riuscivo a non
sentirmi male: rimanevano
solo lui e Killer a sostenersi. Come avrebbero fatto, quando la
maggior parte
di noi se ne era andata, o lo stava per fare?
Qualcuno
bussò
lievemente alla porta che poi si schiuse fino a rivelare
l’identità del nuovo
arrivato. Non mi voltai a controllare chi fosse, non ne avevo bisogno.
«Sei
pronto?» mi chiese
Marco una volta che ebbe azzerato le distanze, raggiungendomi e
affiancandomi.
Corrugai
un po’ la
fronte, indeciso su cosa dire. «Se ti dicessi che non ne sono
sicuro ti
stupiresti?» domandai infine, continuando a rimirare il muro
colorato.
«No»
sussurrò, «No, non
mi stupirei affatto» affermò pacato, affondando le
mani nelle tasche dei
pantaloni e guardandosi attorno.
Restammo
qualche minuto
in silenzio, poi la marea di frasi che mi premevano sulle labbra mi
sfuggì di
mano e mi ritrovai a dare voce ai pensieri che mi tormentavano da
quella
mattina. «E’ come se li tradissi tutti». Insomma, non era giusto nei
confronti dei miei
compagni: io ero libero e loro dovevano continuare a rimanere
imprigionati
dentro quelle quattro mura chissà ancora per quanto tempo.
La cosa
triste era che
non sarebbero più stati un gruppo; non avrebbero
più corso per i corridoi e non
avrebbero nemmeno passato le nottate svegli a chiacchierare seduti sul
mio
letto. Kidd non avrebbe più rischiato un infarto salendo le
scale; Law avrebbe
smesso di sogghignare malefico e lanciare il malocchio ai dottori;
Killer non
avrebbe mai più osato correre lungo i corridoi con la sedia
a rotelle e
Penguin… Beh, lui se ne era andato da un pezzo, ormai.
«Dispiace
anche a me»
confessò pure lui con lo sguardo perso nel vuoto.
«Eravamo
una bella
squadra» mormorai distrattamente, ricordando tutti i guai che
avevamo combinato
in quell’anno. «Non doveva finire
così».
Sentii lo
sguardo di
Marco addosso e fu allora che prese a ridacchiare. Poi mi diede una
leggera
spallata per attirare la mia attenzione su di sé e mostrarmi
il piccolo sorriso
rassicurante che stava sfoggiando. «Ma lo siamo
ancora» chiarì, «Non deve per
forza andare in questa maniera. Possiamo tornare tutte le volte che
vogliamo e quando
verranno dimessi inizieremo a combinare disastri in giro per il
mondo».
Lo
guardai come se
fosse pazzo. Certo, era una bellissima prospettiva, ma altamente
difficile da
compiere. Eppure sembrava sicuro e sincero, troppo per pensare ad uno
scherzo o
ad un misero tentativo di tirarmi su il morale. Perché Marco
non era mai stato
una persona che dava false speranze, no. Lui non parlava a vanvera per
il gusto
di farlo e non illudeva nessuno. Lui dava speranze, le alimentava e
aiutava
chiunque a portare a termine i propri obbiettivi. Marco era
così: un fratello
per tutti.
Mi
afferrò un braccio e
mi tirò su dal letto, rimettendomi dritto e recuperando lo
zaino con l’altra
mano. Sempre ridendo e senza lasciarmi il tempo di ribattere o di
soffermarmi a
pormi altri problemi o sensi di colpa, mi trascinò con
sé fuori dalla stanza e
lungo il corridoio fino alle scale che iniziammo a scendere
velocemente, due
gradini alla volta, tanto che rischiai più volte di perdere
l’equilibrio dato
che quello scemo non mi mollò nemmeno un istante fino a che
non raggiungemmo il
piano terra con il fiatone.
«Non
preoccuparti Ace,»
disse entusiasta, «Andrà tutto bene. Usciremo di
qui e andremo a riprenderci la
nostra vita. Poi arriveranno anche Kidd, Killer e quel sadico di
Trafalgar!».
Alzai gli
occhi al
cielo per non scoppiare a ridere, sentendo sempre meno dentro di me il
peso di
tutta la tristezza e della sofferenza che ognuno di noi aveva patito
stando
chiuso lì dentro. Non avrei mai dimenticato
quell’esperienza, era stata una
cosa troppo forte e burrascosa che aveva lasciato segni indelebili nel
mio
animo, ma avrei conservato il ricordo con affetto perché
avevo avuto l’opportunità
di trovare la mia luce nel buio, ovvero un sacco di persone speciali
alle quali
mai avrei voluto dire addio. Sarebbero rimasti nel mio cuore per sempre.
Raggiungemmo
le porte
scorrevoli che si aprirono al nostro passaggio e, quando mi ritrovai
fuori
dall’ospedale, lontano da quelle mura e all’aperto,
con un sole accecante che
mi fece chiudere gli occhi per un istante, percepii il cuore tremare
per
l’emozione.
Stavo
bene, ero vivo e
davanti a me c’era il mondo che mi aspettava.
«Vivremo
come vorremo,
saliremo sul tetto ogni notte per vedere le stelle, o i fuochi
d’artificio, e
sfideremo Kidd a chi beve di più senza svenire. Killer si
rimetterà in sesto e
lo inviteremo da noi a fare da baby-sitter ai mocciosi. Faremo tutto
ciò che
vuoi!» riprese Marco con i capelli scompigliati per via del
venticello
invernale e con gli occhi chiari che brillavano. Non era mai stato
così bello e
non gli avevo mai voluto così tanto bene. Mi sentivo quasi
scoppiare.
Fui
contagiato da quel
suo buonumore e lo ascoltai fino alla fine del suo discorso contorto e
dannatamente assurdo, ridendo e lasciando che la luce mi accecasse e
che l’aria
mi riempisse i polmoni fino a star male. Annuii più volte
davanti alle sue
proposte, scossi il capo con esasperazione nell’immaginarmi
le scene, pensai a
quanto mi sarebbe piaciuto vivere tutto ciò e condividerlo
con lui e il resto
dei nostri compagni.
Alla
fine, quando non
seppe più cosa dire, fece una pausa per riprendere fiato,
guardandomi negli
occhi senza nascondere la carica di affetto che mi sentii trasmettere
in
quell’istante.
«E,
se non hai nulla in
contrario, lo faremo insieme» promise, porgendomi la mano per
invitarmi a
seguirlo. Dopo di che sorrise divertito, guardandomi con sfida.
«Allora, ti va,
oppure preferisci tornare dentro?».
Lo fissai
per qualche attimo
senza sapere bene cosa dire. Forse non c’era nemmeno il
bisogno di parlare,
aveva già detto tutto quello di cui avevo bisogno per
svegliarmi dal mio coma e
prepararmi a riprendere a correre.
Una
folata di vento mi
investì in pieno viso, portando con sé
l’odore di erba appena tagliata, hot dog
e Penguin. Così chiusi gli occhi e me lo immaginai mentre si
sbracciava per
incitarmi a muovermi e a cogliere l’opportunità al
volo. Conoscendolo, avrebbe
ingranato la marcia immaginaria della sua sedia a rotelle e mi avrebbe
preceduto, sghignazzando come un pazzo e alzando le braccia al cielo,
felice.
Alla fine
sorrisi,
prima solo mestamente, poi scoppiando a ridere, afferrando la mano di
Marco e
lasciandomi accompagnare lungo il viale che portava lontano, verso un
nuovo
inizio.
«Si,
mi va».
E
c’era Marco.
E
c’ero io.
*
(Sei mesi dopo)
Non
sono per niente vicino a un addio. Non essere triste amore mio.
La
lancetta della
sveglia segnava le cinque del pomeriggio. Un orario assurdo e di
stallo,
decisamente quello che odiavo di più durante il giorno. Era
l’ora che passava
più lentamente delle altre e durante la quale non accadeva
mai niente. Zero.
nessuna visita, nemmeno un controllo da parte dei medici. Qualche volta,
in
corridoio, qualcuno suonava il campanello per ricevere attenzioni, o
semplicemente qualcun altro schiattava, ma quegli avvenimenti erano
così rari
che non facevo altro che annoiarmi a morte.
Me ne
stavo stravaccato
a letto, con le braccia incrociate dietro la testa, un ginocchio
piegato e una
gamba a penzoloni. Avrei potuto farmi un giretto per i piani, ma
l’ospedale lo
conoscevo così bene che ormai non c’era nessun
luogo che mi suscitasse un po’
di interesse. Sapevo che in qualche sgabuzzino avrei potuto trovare
qualcuno
intento a scopare, ma non mi andava di rovinare l’orgasmo a
nessuno quel
giorno, perciò lasciai perdere e mi preparai a spaccarmi i
timpani con la
musica a tutto volume nel mio lettore.
Misi le
cuffiette e
chiusi gli occhi, rilassandomi e sperando di assopirmi per risvegliarmi
magari
due ore dopo, almeno il tempo sarebbe volato in quel modo.
Mi resi
conto che
attivare la modalità di riproduzione casuale fu una pessima
idea quando
riconobbi le note di quella stupida e insulsa canzoncina che, a furia
di ripeterla,
Penguin mi aveva cacciato in testa mezzo anno prima. Non potevo
sopportarla e
mi domandai come mai non l’avessi ancora cancellata.
Sbuffai,
ma non mossi
un muscolo per cambiare con un altro brano, non ne avevo voglia e
volevo solo
estraniarmi dal mondo e dimenticare tutto. Era chiedere troppo non
pensare e
non sentire nulla per un minuto? Uno solo, non chiedevo altro.
Ci
metto il coraggio che è parte del tuo.
Coraggio.
Coraggio per
fare cosa? Io ne avevo di coraggio, e da vendere anche, infatti mi
trovavo
ancora li, rinchiuso in quello schifo di ospedale a lasciare che i
dottori
continuassero a fare test, esami e scemenze varie quando ormai era
chiaro a
tutti che stavo bene, che ero stabile e che il mio organismo non
avrebbe
rigettato quel cazzo di cuore nuovo che mi avevano dato.
Mi si
mozzò il respiro
a quel pensiero e a quello che avrebbe comportato se avessi continuato
a
ripetermi tutto ciò, così strinsi gli occhi,
scossi lievemente la testa e mi
concentrai, mio malgrado, sulla canzone, sperando di distrarmi un poco.
Riguardo
al coraggio, io sono un leone. Ho una folta criniera rossa, sono forte
e, ma
cazzo, che diavolo di discorsi sono?
Con
stizza cambiai
posizione e diedi le spalle alla porta chiusa, osservando come fosse il
tempo
fuori e sorridendo nel vedere che ormai le giornate avevano iniziato ad
allungarsi definitivamente. Fuori c’era il sole e il tempo
era abbastanza bello
per tenere aperta la finestra senza problemi. Davvero una bella
giornata,
peccato doverla sprecare in quello stato catatonico come facevo da
mesi, ormai.
Ero
rimasto l’unico
all’ospedale.
Il gruppo
si era
sciolto. Prima se ne era andato Penguin, poi Marco, seguito da Ace.
Killer era
stato dimesso circa quattro settimane prima ed ero stato davvero felice
quando
l’avevo visto entrare nella mia stanza, con i capelli tutti
arruffati e il
fiatone. Mi aveva guardato e mi aveva detto che aveva corso per
trovarmi. L’avevo
sondato da cima a fondo alla ricerca delle stampelle e, quando non le
avevo
trovate, avevo iniziato a ridere, rispondendo con calore
all’abbraccio quando
il ragazzo che era diventato il mio migliore amico mi si era gettato
addosso a
braccia aperte, scoppiando a singhiozzare.
Ne aveva
passate di
tutti i colori ed ero stato così contento quando mi aveva
dato la notizia delle
sue dimissioni che non aveva affatto pensato a quello che sarebbe
toccato a me.
La depressione era arrivata dopo la sua partenza, come mi ero
aspettato, ma
ormai avevo imparato abbastanza a lasciarmi scivolare tutte le brutte
esperienze addosso e ne ero uscito piuttosto illeso.
L’essermi ritrovato senza
nessuno accanto non si era dimostrato così terribile, alla
fine. Era bastato
smettere di pensare a quello che facevo prima quando erano ancora tutti
all’ospedale e la cosa aveva funzionato.
Ad ogni
modo, loro
cercavano di renderla meno dura possibile. E ciò, anche se
non volevo
ammetterlo, mi faceva piacere.
Era
strano e bello allo
stesso tempo sapere che non mi avevano dimenticato, nonostante il mio
caratteraccio e i miei modi che lasciavano spesso e volentieri a
desiderare.
Non ero mai stato troppo gentile nei loro confronti, ma nonostante
tutto,
continuavano a tenermi in considerazione e a rendermi partecipe della
loro
vita.
Killer
passava ogni
giorno, mattina e sera e rimaneva a tenermi compagnia fino a tardi,
fregandosene dell’orario. I medici, comunque, infermieri
compresi, lo
conoscevano tutti e, pur di evitare il mio malumore, preferivano
lasciarlo fare
senza sgridarlo o cacciarlo via.
Anche
Ace, nonostante
il modo egoista in cui lo avevo salutato quando era venuto da me per
dirmi che
se ne andava, non si era dimenticato. Non aveva un orario preciso
nel
farmi visita, lui, semplicemente, potevo aspettarmelo a qualsiasi ora
del
giorno e vederlo mi faceva pure piacere, dato che avevamo
più o meno la stessa
età. Un’altra cosa che mi piaceva di lui, era il
caratterino ribelle e la
propensione a combinare guai. Insomma, chi poteva essere tanto idiota
da rubare
un manichino, camuffarlo da Babbo Natale, assicurarlo ad una dozzina di
fuochi d’artificio
e spararlo in cielo la notte di Natale? Solo lui, perciò
aveva tutta la mia
stima. Inoltre mi ero fatto promettere che, quando sarei uscito,
avrebbe
rifatto una cosa simile, ma con un pollo o qualche altro essere
inutile. Volevo
vedere il botto, accidenti.
Per
quanto riguardava
Marco, beh, anche lui veniva a salutarmi parecchie volte durante la
settimana,
quando il lavoro glielo permetteva. Passava con Ace alle calcagna,
oppure anche
da solo, ad ogni modo mi portava sempre qualcosa di buono da mangiare,
come
torte o dolci. Diceva che a casa, all’orfanotrofio, uno dei
loro fratelli
passava le giornate a sfornare delizie e gli faceva piacere
condividerle con
me.
Io lo
ringraziavo e mi
tenevo tutto per la sera, dividendo il bottino anche con Killer e
adorando quel
personaggio che non conoscevo, ma al quale avrei voluto fare i
complimenti e
stringere la mano.
Non ero
solo, in fin
dei conti, ma era come se lo fossi.
A
volte ci perdiamo i sottotitoli del cuore.
E poi
c’era il mio
cuore.
Il
mio nuovo cuore, me lo devo mettere in testa, pensai, alzando
gli occhi al cielo. Alla fine, anche se
avrei preferito cavarmela da solo con le mie forze, ero stato costretto
ad
accettare di sottopormi ad un trapianto di cuore che, a detta dei
dottori, era
stato un successo.
Un
successo sto cazzo, io sto ancora qui!
L’operazione
era andata
a buon fine ma, secondo il loro parere professionale, era meglio essere
certi
della riuscita e tenere sotto controllo la mia situazione per evitare
ricadute
o complicazioni drastiche. Su quel punto erano stati molto chiari: se
il cuore
non risultava compatibile e veniva respinto, io ero finito.
La
fortuna, o il
Signore, dipendeva dai punti di vista, però, mi aveva
favorito, e mi trovavo
ancora sulla Terra a respirare, vivendo però in un mondo in
stallo. Non sapevo
che fare, non sapevo quando me ne sarei andato, non sapevo cosa ne
sarebbe
stato di me e non sapevo nemmeno più come sopportare tutta
quell’orrenda
situazione. Stavo aspettando qualcosa senza sapere cosa.
Parliamoci
chiaro, Kidd.
Ti senti una merda per essere stato abbandonato, ammettilo.
Una cosa
che odiavo era
che, stando tanto tempo in solitudine, avevo preso a parlarmi e a darmi
le
risposte da solo. Da un lato ciò poteva indicare un aumento
della mia
intelligenza mista a furbizia, ma dall’altro era una vera e
propria seccatura.
Io non mi
sentivo uno
schifo e non me ne poteva fregare di meno se quello stronzo saccente,
mezzo
morto, alla fine aveva deciso di voltare le spalle a tutto e tutti,
dimenticare
quello che aveva condiviso con i suoi compagni, per andarsene a fare in
culo
altrove. Per quanto mi riguardava poteva schiattare. Anzi, non si era
fatto più
sentire, quindi, probabilmente, era bello che morto.
Strinsi i
pugni sul
lenzuolo, intimandomi di calmarmi, ma la verità era che da
troppo tempo me ne
stavo tranquillo e buono, prima o poi sarei scoppiato, ne ero certo.
Non
riuscivo nemmeno a
pensarci: quel rognoso mi aveva salvato la vita, per quanto odiassi
ammetterlo,
e poi se ne era semplicemente andato come se niente fosse successo, come se
tutti i suoi
discorsi sul non gettare la spugna me li fossi sognati solo io e come
se il
resto dei ragazzi non fossero stati altro che cenere.
Come se
io non fossi
stato niente per lui.
Dopo
l’operazione
miracolosa in ascensore mi era stato accanto come al solito, nulla di
strano
dato che sembrava godere nel non lasciarmi mai il tempo e lo spazio per
respirare, ma avevo capito subito che qualcosa non andava. Inizialmente,
avevo
creduto che i medici gli avessero dato poco tempo da vivere, che si
fosse
ammalato, invece no.
Se ne
andava e basta.
Doveva
riprendere
l’università e concludere i corsi, fare il
tirocinio, laurearsi, vivere la sua
vita e coronare il suo sogno. Mi aveva persino chiesto se riuscivo a
capire
cosa intendeva, ma non avevo risposto. Non avevo aperto bocca per tutto
il
tempo successivo che aveva sprecato per spiegarmi la situazione e per
dirmi, in
poche parole, che lo avevano dimesso e che doveva tornare alla sua vita
andando
via.
Ovviamente
non l’avrei
trattenuto lì, avrei fatto lo stesso se fossi stato al suo
posto e mi ero
persino sentito sollevato nel sapere che era guarito e che non era
più a
rischio. Alla fine ce l’aveva fatta, aveva superato il suo
problema ed io avevo
mantenuto la promessa fatta a Penguin. Tutto era andato per il meglio
e, quando
me lo aveva detto, all’inizio ero persino stato tentato di
dirgli in faccia
che… beh, ormai erano passati la bellezza di sei mesi e lui
era sparito nel
nulla senza mai farsi sentire o scrivere. non mi importava se delle mie
condizioni
non gli interessava, non volevo essere compatito e, forse, era stato
meglio
così, ma le cose che mi faceva incazzare erano due. La prima
riguardava il
fatto che si fosse scordato degli altri, insomma, alla fine anche loro
lo
avevano aiutato e gli erano stati vicini, un po’ di
gentilezza nei loro
confronti avrebbe anche potuto dimostrarla; la seconda, invece, mi
faceva
davvero salire il crimine. Insomma, che cazzo pensava che me ne facessi
io dei
libri di medicina?
Si,
perché il coglione,
oltre a non farsi sentire, mi inviava ogni mese un volume sulla ricerca
o sul
corpo umano, o su qualsiasi altra cazzata biologica e medica. E sapevo
che era
lui, ne ero certo, dato che i sei libri che mi erano arrivati li avevo
tutti
visti nella sua stanza. Non mi ero mai sognato di leggerli o di
sfogliarli.
Cosa me ne poteva interessare? Preferivo tenerli rinchiusi
nell’armadio a
prendere polvere, quello era il loro posto.
Sospirai,
sentendo gli
occhi farsi leggermente più pesanti mentre quella stupida
canzoncina continuava
a strimpellarmi nella mente.
Ecco che
arrivavano i
cinque minuti di tristezza che, di tanto in tanto, mi facevano visita
quando
abbassavo le mie difese. Certo, ero una corazza d’acciaio, ma
anche io ce
l’avevo un cuore, pure nuovo, figuriamoci se non ero in grado
di provare almeno
un minimo di emozione.
Quando
avevo avuto
l’infarto all’università nessuno si era
più interessato a me, nessuno di quelli
che conoscevo era venuto a cercarmi. Mi avevano tutti messo da parte e
ricominciare era stata dura, soprattutto con i problemi che si erano
presentati, ma ce l’avevo fatta. E, per quanto mi costasse
ammetterlo, il
merito era di quei cinque idioti mezzi svampiti che avevo trovato in
giro per i
reparti. Uno più suonato dell’altro, ma era
ciò che li rendeva differenti e
speciali. Mi avevano fatto sentire bene quando ero malato, mi avevano
consolato
quando mi ero sentito uno straccio e mi avevano tenuto compagnia quando avevo creduto di
essere solo al mondo. Li consideravo miei amici, tutti, e continuavo a
farlo.
Non era
vero che lo
odiavo, semplicemente facevo fatica a sopportarlo, ma non avrei voluto
vederlo
scomparire così, senza poter fare nulla per impedirlo.
La nostra
uscita di
scena non era stata come me l’ero immaginata, ovvero tra
insulti, pugni e un
bacio, ma pazienza, ci avevo fatto l’abitudine e, prima o
poi, sarebbe passato.
Avevo
quasi preso sonno,
quando il rumore di una porta che sbatteva sovrastò la
musica, destandomi e
facendomi sussultare. Mezzo intontito tolsi con un gesto secco le
cuffiette
dalle orecchie e sbadigliai, convinto che fosse un medico o Killer
arrivato in
anticipo.
Guardando
l’ora mi resi
conto di aver effettivamente dormito un bel pezzo dato che erano le sei
e un
quarto. Che bellezza, potevo mangiare il dolce di Marco e sentire come
era
finito l’allenamento di Killer e Shachi quel giorno.
Stavo
appunto per
voltarmi con un sorriso allegro quando una voce interruppe ogni mia
azione e
frase, facendomi perdere un battito e gelare il sangue.
«Allora
è vero che chi
non muore si rivede, Eustass-ya».
*
Guarda
che cosa mi tocca: cucirmi la pelle e poi la bocca.
Dovetti
usare tutta la
mia buona volontà per non perdere la calma e iniziare a
urlare. Ero arrivato da
una mezz’ora buona e quel deficiente con i capelli rossi mi
aveva già fatto
incazzare. Da quando le persone si salutano con un pugno sullo stomaco?
Il
fatto che forse me lo ero meritato,
poi, non mi passò minimamente per la testa.
L’unico che meritava di essere
preso a sberle era solo lui!
«Cosa
cazzo ti dice il
cervello? Sparisci per sei mesi e poi ti rifai vivo come se niente
fosse?»
ripeté Kidd per la terza volta, alzando sempre di
più la voce e fissandomi
furente con una mano a mezz’aria pronta a colpirmi. Avevo
immaginato che non
sarebbe stato facile tenerlo buono, ma non mi ero di certo aspettato
un’accoglienza così pessima.
Così
non potei fare a
meno di ripagarlo con la stessa moneta, deliziandolo con uno dei miei
classici
sorrisetti di sufficienza e regalandogli una delle mie acidissime
battute. «Hai
contato pure il tempo? Che carino».
«Apri
ancora la bocca e
giuro che te la spacco» soffiò minaccioso e la
determinazione nella sua voce mi
fece intendere che non stava affatto scherzando e che
l’avrebbe fatto davvero.
Mi chiesi
il perché di
tutto quel comportamento. Anche io ce l’avevo con lui per non
aver mai risposto
a una delle mie lettere, eppure mi stavo facendo violenza per
comportarmi in
modo civile nell’attesa di una qualche spiegazione.
Sicuramente avrei
provveduto a vendicarmi in un secondo momento.
«Piantala
di fare la
voce grossa, Eustass-ya,» risposi, fulminandolo con
un’occhiataccia e
preparandomi ad uno scontro, «Se c’è
qualcuno che deve essere preso a calci,
tra i due, sei solo tu!».
«E
che cosa avrei fatto
io? Sentiamo!».
«Non
mi hai più
cercato!» sbottai.
Spalancò
gli occhi e mi
guardò come se avessi appena vomitato arcobaleni, ma si
riprese abbastanza in
fretta, tanto che finì per l’arrivarmi ad un
soffio dal naso, sovrastandomi.
Era diventato ancora più alto.
«Cos'é che ho fatto?»
sibilò con astio.
«Sei
sparito» dissi
apatico, permettendo solo alla rabbia e alla delusione di accecarmi, ma
stando
attento a tenere bene rinchiuse le emozioni come la tristezza, il senso
di
abbandono e solitudine che avevo provato in quei mesi. Io gli avevo
scritto
senza mai ricevere risposta e lui mi trattava in quel modo? Non
esisteva, se
era la guerra che voleva, allora l’avrebbe avuta.
Strinse
entrambe le
mani a pugno, forse per non lasciarsi prendere dal momento e colpirmi
in pieno
viso. «Stai scherzando spero».
«No,
razza di deficiente!
Ho capito che ci sei rimasto male quando mi hanno dimesso, ma mettermi
da parte
in quel modo potevi risparmiartelo. E adesso vuoi anche avere ragione
quando io
non ti ho fatto assolutamente niente!». Mi stavo lasciando
andare un po’
troppo, ma non importava. Fino a che non iniziavo ad urlare andava
tutto bene,
ma avrei continuato. Non poteva passarla liscia e credere che non gli
avrei
detto il fatto suo.
Kidd
alzò il viso verso
il soffitto e sospirò. «Te ne sei
andato» fece lapidario, tanto che riuscì per
la prima volta a zittirmi e a lasciarmi senza parole con cui ribattere.
Che
diavolo stava dicendo?
«Eustass-ya
ma che…».
«Non
mi importava se ti
dimettevano o meno, quello che non dovevi fare era sparire e
dimenticarti di
tutti. Come se noi non avessimo contato nulla per te, quando
è stato solo
merito nostro se non ti sei lasciato morire. Invece hai preso e ci hai
voltato
le spalle senza dire nulla, senza mai scrivere o chiamare. Niente,
Trafalgar.
Per sei, lunghi, maledetti e fottutissimi mesi».
Anche
con i crampi, con la fine sulla faccia, col dolore che mi schiaccia e
non lo
sai.
Rimasi in
silenzio a
guardare come sulle labbra del rosso apparisse una smorfia amara, che
sapeva
tanto di tristezza. Distrattamente notai anche come i capelli,
già folti, gli
erano cresciuti, ricadendogli più di frequente sugli occhi,
gli stessi che
avevano bruciato di rabbia e di passione mesi addietro, quando stavamo
assieme.
Assieme,
come? pensai,
lasciando subito perdere il discorso. Non mi ci volevo nemmeno
soffermare su
quel particolare. Eustass-ya non aveva contribuito ad aiutarmi, me
l’ero cavata
benissimo da solo.
E
quello che mi sto ripetendo per auto convincermi sono tutte balle.
Ad ogni
modo, capii che
qualcosa non andava. Kidd sembrava davvero stanco e abbattuto;
più precisamente
aveva l’aria di un animale che era stato abbandonato a se
stesso, lasciato solo
ad affrontare tutto, senza nessuno accanto. Per quello ringhiava, era
il suo
modo di difendersi dalle avversità e dagli estranei, peccato
che non fosse mai stato
bravo a nascondersi dietro al suo carattere da duro. Per me era sempre
stato
facile capirlo, era un libro aperto. Tutto di lui mi interessava e mi
incitava
a continuare a gravitargli attorno; poteva apparire banale, uno stupido
scimmione senza cervello, ma, in realtà, era pieno di
sorprese. Non reagiva mai
come mi aspettavo ed era un continuo evolversi di sensazioni,
espressioni,
emozioni e scene. A volte complicato, ma mai impossibile da capire, e
così fu
anche per quel particolare momento.
Abbassai
gli occhi,
riflettendo che, almeno in parte, aveva ragione. Me ne ero andato e lo
avevo lasciato
senza troppe cerimonie. Era stato un periodo difficile, quello, prima
la morte
di Penguin, poi il collasso, il trapianto in previsione e la mia
partenza. Era stato
un miracolo che non si fosse lasciato andare. La mia intenzione,
comunque, non
era mai stata quella di sparire nel nulla, assolutamente. Avevo
assistito
dall’alto dell’osservatorio la sua operazione prima
di partire e mi ero voluto
assicurare che fosse andato tutto bene, quindi, infine, avevo provato a
contattarlo. Infatti gli avevo spedito un sacco di libri, possibile che
non li
avesse ricevuti?
«Eustass-ya,
mi
dispiace» dissi sommessamente, spiando di sottecchi la sua
reazione e capendo
che avrei dovuto fare di più per sistemare le cose quando lo
sentii sospirare
frustrato e amareggiato. «So che non ho scelto il momento
migliore per tornare
all’università, ma non ho potuto fare altrimenti.
E non è vero che non volevo
avere più niente a che fare con te
–perché ero certo che gli altri non
c’entrassero, dicesse pure quello che voleva-
perché ti ho scritto volumi e
volumi di lettere» confessai a disagio e un po’ in
imbarazzo, sentendolo
trattenere il respiro e decidendo di alzare lo sguardo per incrociare i
suoi
occhi, lasciandogli intendere che non gli stavo mentendo.
Ebbi la
risposta ai
miei dubbi quando lo vidi corrugare la fronte confuso. C’era
stato un
malinteso.
Allora
sospirai,
incerto se porre la domanda o meno. «Dì un
po’, ti è mai arrivato qualche libro
di medicina in questo tempo?».
«Quella
merda? Si»
rispose subito, irritandomi un poco.
«E
immagino che tu non
abbia mai pensato di aprire quelle pagine, o sbaglio?»
domandai con un
sorrisetto sarcastico e per niente divertito.
Rimase a
fissarmi qualche
momento prima di dirigersi verso l’armadietto, aprendolo e
mettendosi a cercare
qualcosa sotto ad alcune coperte. Alla fine trovò quello che
stava cercando,
ovvero i miei volumi. Li sollevò tutti assieme e li
scaricò senza grazia sul
letto, mentre io mi maledicevo per aver consegnato dei tesori ad una
persona
che non ne aveva il minimo rispetto. Quando poi ne aprì uno
a caso e vi trovò
dentro una busta bianca ancora sigillata, mi venne una voglia matta di
prenderlo a ceffoni fino a farlo svenire.
Si poteva
essere così
idioti?
«Questa
cos’é?» ebbe il
coraggio di chiedere, rigirandola tra le mani per poi iniziare a
scartarla fulmineo,
come facevano i bambini con i regali di Natale, sotto il mio sguardo
assassino.
«Secondo
te?».
Quando si
ritrovò
davanti due fogli riempiti con la mia calligrafia il tempo
sembrò fermarsi.
Iniziò a leggere tutto quello che c’era scritto
con avidità, tanto velocemente
che mi chiesi se riuscisse almeno a capirci qualcosa, ma lasciai
perdere quasi
subito. Dopotutto, non le aveva mai lette e, se non
gliel’avessi detto, nemmeno
avrebbe scoperto l’esistenza di quelle lettere riempite per
metà di insulti
rivolti al fatto che non mi avesse degnato di risposta. Se
l’avesse fatto,
avrebbe saputo certamente dalla novità che ero venuto a
portargli.
Meglio
così, mi dissi sogghignando, mi godrò la sua
faccia sorpresa.
«Ehi,
Capelli Rossi» lo
chiamai, togliendomi la giacca leggera e sedendomi comodamente sul suo
letto.
Non
alzò nemmeno gli
occhi dal foglio e si limitò a rispondermi con un mezzo
mormorio
incomprensibile, segno che avevo la sua attenzione almeno per
metà.
Così
mi passai una mano
tra i capelli con disinvoltura, incapace di trattenere quel ghigno
carico di
aspettativa che, fortunatamente, non stava notando. Fu senza preavviso
che gli sganciai
la bomba.
«Sai,
svolgerò qui il
mio tirocinio».
I suoi
occhi saettarono
nei miei in quell’esatto istante e la sua faccia divenne, se
possibile, ancora
più pallida.
«Vuoi
dire che…»
sussurrò, senza finire la frase.
«Si,»
lo interruppi, «Sono
tornato per restare».
Anche
con la gioia di sapere che dovunque ce ne andremo, non ci lasceremo mai.
Non vidi
nemmeno i
fogli cadere per terra, mi importava solo di sapere che
quell’irascibile ragazzo
stava bene ed era vivo e mi stringeva con fare possessivo come se
volesse togliermi
tutta l’aria, ma era perfetto in quel modo. Era tutto
ciò di cui avevo bisogno
e, anche se non l’avrei mai ammesso ad alta voce, ero
contento che nessuno dei
due, alla fine, avesse vinto la scommessa. Un pareggio poteva bastare
per
soddisfare l’ego smisurato di entrambi. Come sarebbero andate
le cose in futuro
non aveva importanza; eravamo totalmente differenti ed ero certo che
non avremo
mai perso occasione per scannarci a vicenda, ma ero anche sicuro che
lui, come
me, non vedeva l’ora di riprendere da dove avevamo lasciato.
«Ehi,
Trafalgar» sussurrò
con le labbra già sul mio collo.
«Che
vuoi adesso?»
mormorai seccato. Gli pareva forse il momento per adatto per
chiacchierare?
Portò
il viso a pochi
centimetri dal mio per mostrarmi il ghigno bastardo che
esibì con orgoglio. No,
se me lo avessero chiesto, avrei risposto che non mi era mancato per
niente
quello stronzo.
«Ti
ricordi ancora chi
comanda?» ghignò.
Come
potrei dimenticarlo.
*
(Due anni dopo).
Io
non ho finito perché ho sete ancora.
La
spiaggia era quasi
deserta a quell’ora del mattino: pochissime persone
passeggiavano con calma sul
bagnasciuga, affondando i piedi nella sabbia fine, oppure lasciando che
le onde
li bagnassero, saltellando per il freddo contatto con essa. Il cielo
era di un
azzurro chiaro, sfumato all’orizzonte dai colori
dell’alba, mentre il sole,
lentamente, sorgeva.
Poggiai
le infradito
sulle assi di legno e mi sedetti sul pontile con le gambe a penzoloni
sul mare,
inspirando a pieni polmoni l’aria fresca e muovendo i piedi
sul bordo
dell’acqua, felice di aver riacquistato pienamente tutte le
facoltà motorie
dopo l’incidente, nonostante le aspettative non del tutto
rosee e tutte le
sofferenze che avevo dovuto sopportare oltre alla riabilitazione.
Alcune si
erano cicatrizzate bene, altre meno, altre ancora, invece, erano e
sarebbero
rimaste sempre aperte.
«Killer!».
Una
vocina dal timbro
alto e quasi infantile richiamò la mia attenzione e, con un
sorriso spontaneo
sulle labbra, uno di quelli che a fatica avevano ripreso a riapparire
sul mio
viso, voltai la testa di lato, poggiando il mento sulla spalla e
inquadrando il
ragazzino minuto che, con due borse per ciascuna mano e un ombrellone
sotto il
braccio, mi sorrideva allegro con gli occhiali da sole a specchio
calati sugli
occhi.
«Shachi»
lo salutai
allegro, «Ti vedo un po’ affaticato»
scherzai, indicando con un cenno del capo
il suo carico.
Con
un’alzata di spalle
e uno sbuffo mi diede ad intendere che per lui quella era roba da
niente, ma il
leggero tremolio delle braccia e il sudore sulla sua fronte dicevano il
contrario. Così mi alzai e mi diressi verso di lui per
prendere io le borse e
dargli il tempo di riprendere fiato. Quel moccioso voleva sempre
strafare per
non essere mai un passo indietro agli altri.
«Ce
la potevo fare
tranquillamente da solo» borbottò, iniziando a
seguirmi e dovendosi affrettare
per stare dietro alle mie falcate, inciampando di tanto in tanto.
Ghignai
poco convinto.
«Certo, certo».
«Solo
perché tu sei
tutto muscoli e niente cervello non significa
che…».
«Ehi,
che hai detto?»
chiesi, fermandomi all’improvviso, tanto che Shachi,
distratto come al solito,
mi venne addosso, sbattendo il naso contro la mia schiena.
Si
riprese subito e,
massaggiandosi la parte lesa facendo finta di nulla, mi
superò, diretto verso
lo zaino che avevo abbandonato sotto all’ombrellone che mi
ero offerto di
portare da casa.
«Niente»
esordì con
nonchalance, incrociando le braccia dietro la testa, «Devi
sicuramente aver
capito male!».
Roteai
gli occhi con
fare scocciato. A volte mi sembrava di aver a che fare con un bambino.
Scuotendo
la testa
esasperato e rassegnato a quel suo caratterino, lo raggiunsi e lasciai
cadere
gli zaini addosso a lui apposta, fingendomi sbadato o poco attento solo
per
farlo innervosire e vendicarmi della sua precedente frecciatina
sarcastica,
riuscendoci divinamente, ma beccandomi un pugnetto deciso sulla pancia.
Da quando
l’avevo
incontrato all’ospedale, Shachi era diventato
un’ancora di salvezza per la mia
sanità mentale. Anche lui, come me, era stato molto
affezionato a Penguin, ci
era cresciuto assieme, perciò mi era sembrato
l’unica persona capace di capirmi
davvero. Infatti avevamo passato ore e ore a parlare, a sfogarci, a
piangere e
a consolarci, ricordando i momenti migliori passati in compagnia del
nostro
amico speciale, felici di poter finalmente esprimere liberamente quello
che
sentivamo e che provavamo. Insieme ci eravamo sostenuti e avevamo
affrontato la
solitudine, contando l’uno sull’altro e
ricominciando da capo, con le nostre
sole forze.
Io
non ho finito, fuori è primavera.
«…
E poi le ho risposto
per le rime, citandole tutte le nozioni a memoria e beccandomi il mio
meritatissimo trenta e lode. Fanculo anche quella baldracca!»
stava dicendo
intanto Shachi, raccontandomi dei suoi ultimi esami
all’università.
«Ma
da quando sei
diventato così volgare?» mi premurai di
domandargli, ricordando di come, i
primi tempi, fosse un ragazzo così timido ed educato, sempre
rispettoso e
gentile con gli altri.
Mi
guardò come se fossi
scemo, ma alla fine decide di rispondermi lo stesso, forse per
pietà. «E’ l’influenza
di Eustass» usò come spiegazione, facendomi
sorridere.
A
proposito di lui.
«Ohi,
Kidd! Da questa
parte!» urlai in direzione del rosso che, accortosi della mia
mano alzata,
avanzava verso di me facendosi largo a forza tra il via vai di gente
che, approfittando
della bella giornata, aveva deciso di fiondarsi al mare, imitando
così la
nostra idea.
«Vorrei
sopprimerli
tutti, soprattutto i ragazzini» borbottò quando mi
fu vicino, fulminando con lo
sguardo un moccioso che gli aveva tagliato la strada, correndo come un
pazzo
con un cono gelato in mano, brandendolo come un trofeo.
Sorrisi e
mi strinsi
nelle spalle, incitandolo poi a seguirmi fino alla nostra postazione
dove
Shachi ed io avevamo piazzato un paio di ombrelloni abusivi proprio
sulla riva,
in modo da evitare scocciature come vicini rumorosi o anziani curiosi.
«Siamo
solo noi?»
chiese, dopo aver gentilmente salutato il ragazzino dai capelli ramati
stravaccato sulla sabbia. Per quanto il suo carattere fosse poco
avvezzo ad
apparire simpatico alle persone, con Shachi non riusciva ad essere
scortese.
Diceva che gli ricordava troppo Penguin.
Si tolse
la maglia e
poi la gettò malamente dentro lo zaino. La cicatrice
all’altezza del cuore si
era ridotta ad una piccola linea verticale rosa pallido e sarebbe
rimasta a
svettare sul suo petto come un segno, o un ricordo, indelebile della
sua
avventura.
«Per
ora, ma ho mandato
un messaggio agli altri. Tra poco dovrebbero arrivare»
spiegai, imitandolo e
stendendo poi a terra un asciugamano, litigando con le punte per
sistemarle ed
evitare che ci andasse sopra della sabbia.
I dieci
minuti
successivi li impiegammo mettendoci comodi. Kidd indossò un
paio di occhiali da
sole neri che, di tanto in tanto, sollevava sulla fronte per scostarsi
i ciuffi
vermigli dagli occhi, mentre io meditavo sull’idea di
tagliare i miei per non
dover soffrire il caldo. L’idea mi era venuta molte volte, ma
sapevo che non
l’avrei mai presa sul serio in considerazione.
«Che
mi venisse un
colpo se quello non è Ace!» disse ad un tratto
Kidd, mettendosi a sedere e
fissando un ragazzo in lontananza che, completo di costume arancione e
cappello
da cowboy, avanzava tranquillo con uno zaino verde in spalla. Dal
sorriso che
fece non appena ci notò, capimmo che doveva per forza
trattarsi del nostro
miracolato amico.
«Ciao
ragazzi! Era da
un po’ che non ci si vedeva!» esordì,
lasciando cadere la borsa sulla sabbia e
abbracciandomi, dato che mi ero alzato per andargli in contro. Fu poi
il turno
di Kidd che, allergico ai gesti affettuosi, si limitò ad una
virile pacca sulla
spalla che quasi mandò Ace per terra.
«E
Marco?» domandai,
non vedendolo da nessuna parte.
«Quell’idiota?
Non
preoccupatevi, è in arrivo» rispose con una faccia
strana.
«Ma
non vivete…» iniziò
a dire Kidd.
«Sotto
lo stesso tetto?
Si, ma stamattina uno dei nostri fratelli si è sentito male,
così lui lo ha
accompagnato dal medico» spiegò tranquillo.
Il moro
salutò Shachi,
con il quale andava molto d’accordo avendo entrambi la stessa
età, e si sedette
tra me e lui, iniziando a chiacchierare di un sacco di cose e saltando
da un
argomento all’altro senza una qualche connessione logica.
Pazienza, ormai ci
avevo fatto l’abitudine al suo modo di esprimersi: aveva,
semplicemente, tante
cose da dire.
Lo
osservai
attentamente e fui contento di trovarlo solare, sorridente e rilassato
come al
solito. Dopo il coma, da quello che avevo sentito dire da alcuni suoi
famigliari, era diventato iperattivo e raramente se ne restava fermo e
tranquillo, sentendo costantemente il bisogno di fare qualcosa e di non
fermarsi mai, ma era contento e in salute, ciò era
l’importante.
Non aveva
avuto altre
ricadute ed era stato uno dei più fortunati tra noi, povere
anime
dell’ospedale: quando lo avevano dimesso, lo avevano fatto
definitivamente.
Certo,
lui aveva continuato
a far visita a me, fino a quando non mi avevano mandato a casa, e a
Kidd.
Soprattutto
a Kidd.
Osservai
con la coda
dell’occhio il ragazzone dai capelli fulvi che stava
litigando con il lettore
musicale in quel momento, togliendosi le cuffiette che sembravano in
procinto
di esplodere per il volume troppo alto e spegnendo l’aggeggio
in un sottofondo
di parolacce e maledizioni. A quanto pareva aveva rischiato di perdere
l’udito.
Due anni
prima, quando
si era ritrovato da solo in reparto, dato che praticamente tutti
avevamo
ottenuto il permesso di passare la convalescenza a casa, avevo creduto
che non
ce l’avrebbe fatta. Non che non avesse avuto delle buone
possibilità,
semplicemente sembrava che avesse smesso di lottare come aveva fatto
costantemente per un anno.
E poi un
giorno accadde
il miracolo: era bastato che Trafalgar Law tornasse in città
durante una pausa
clandestina dall’università, passando a salutarlo,
e Kidd era resuscitato come
Lazzaro.
Certo,
era diventato
anche più scorbutico e irascibile, perché, da
quello che mi avevano raccontato
due infermieri che avevano avuto la sfortuna di ritrovarsi di turno
durante la
visita di Law al rosso, l’incontro non era stato affatto
dolce e commovente, al
contrario. Avevano descritto la cosa come uno scontro fra titani, fatto
di
urla, bestemmie, insulti e le peggiori minacce di morte che avessero
mai udito.
Comportamento tipico di entrambi, sarebbe stato strano se nulla di
tutto ciò
fosse avvenuto.
Io
non ho finito, non ti lascio ora.
«Guarda
chi arriva» sentii
dire da Ace, il quale aveva un tono parecchio divertito, tanto che mi
chiesi il
perché, almeno fino a quando non adocchiai Marco avanzare
con le mani nelle
tasche e la camicia sbottonata sul petto, mentre, accanto a lui, Law si
guardava attorno con fare curioso, come se stesse cercando qualcuno.
Noi, per
l’appunto.
Non feci
nemmeno in
tempo ad alzare un braccio per avvisarlo della nostra presenza che
qualcosa
alle mie spalle si mosse velocemente e, l’istante dopo, Ace
stava schizzando
veloce come una freccia nella sua direzione, riuscendo
nell’intento di
coglierlo alla sprovvista e rovesciandolo a terra quando gli
saltò addosso con
tutto il suo peso.
Alla
faccia degli abbracci,
pensai, scoppiando a ridere assieme a Kidd e facendo svegliare Shachi
di soprassalto
che si era appisolato sotto al sole.
«Brutto
idiota!» iniziò
ad inveire il biondo, tentando di spostare Ace che, nel frattempo, si
era
accomodato a gambe incrociate sopra al suo stomaco tutto ghignante e
soddisfatto. «Volevi rompermi l’osso del
collo?».
«Oh,
quante storie» lo
sminuì il più giovane, «Come se potessi
farlo». Detto questo lo vidi abbassarsi
sul viso di Marco con un sorrisetto malcelato.
Alzai gli
occhi al
cielo e prestai attenzioni alle lamentele di Shachi, il quale insisteva
per sapere
cosa si era perso e cercava di sovrastare la mia stazza allungando il
collo per
riuscire a vedere costa diavolo stessero facendo quei due.
«Che
domande! Scopano»
disse tranquillamente il rosso con fare malizioso, beccandosi
un’occhiata torva
da parte mia. C’era modo e modo per dire le cose e lui usava
sempre quello medo
adatto.
«Almeno
Ace non si fa
problemi ad esporsi» lo riprese Law, il quale ci aveva
raggiunti, ignorando
bellamente i due ragazzi che si erano appena sdraiati sulla sabbia.
«Ti
piacerebbe dare
spettacolo, ammettilo» fece Kidd con malizia.
«Non
lo nego. Immagina
le facce scandalizzate dei genitori qui attorno»
iniziò a dire il neo chirurgo
con fare macabro e inquietante.
«E
l’infanzia rovinata
dei loro bimbi» concluse il rosso per lui. Poi, sorridendosi
con fare poco
innocente, si scambiarono un’occhiata complice che mi diede
ad intendere che
non sarebbe seguito nulla di buono.
Sospirai
e piazzai una
mano fra i capelli del piccoletto, ricacciandolo al suo posto e
spiegandogli
con qualche giro di parole in più che stavano facendo i
piccioncini romantici.
«Bleah!»
mormorò con
una faccia schifata, sistemandosi gli occhiali e voltandosi a guardare
altrove,
deciso a non voler assistere a scene del genere.
Quel
comportamento mi
lasciò un po’ perplesso, tanto che mi ritrovai per
la prima volta a chiedermi
il perché di quella reazione. Insomma, la cosa aveva un che
di divertente, a
parte l’imbarazzo per i nostri amici che non perdevano mai un
momento per
infilarsi reciprocamente la lingua in bocca. Vederli era normale,
quindi: o il
ragazzino era esageratamente timido, o la sua era tutta una finta,
esattamente
come facevano i bambini da piccoli quando vedevano gli adulti
abbracciarsi.
«Shachi?»
lo richiamai,
ritrovandomi poco dopo i suoi occhi curiosi che mi fissavano al di
sotto delle
lenti scure.
«Che
c’è?».
«Faresti
lo schizzinoso
se qualcuno ti baciasse?».
Sbatté
le palpebre e mi
guardò interdetto per qualche istante, lasciando poi che
sulle sue labbra
spuntasse un ghigno degno di nota quasi quanto quelli subdoli di
Eustass Kidd.
«Chi
lo sa» rispose
vago, poggiando i gomiti sull’asciugamano e sollevando il
busto con
disinvoltura e guardando il mare.
Scossi il
capo,
lasciando perdere l’argomento. Sapevo che, se avessi
continuato, non avrebbe fatto
altro che rispondere in modo fastidiosamente malizioso e con una faccia
da
schiaffi con quegli occhiali che celavano la furbizia che spesso gli
leggevo
negli occhi.
«Tu
se vuoi provarci fa
pure» disse ad un tratto, cogliendomi impreparato e zittendo
nello stesso
istante pure il mio migliore amico, il quale era sembrato sul punto di
dire
qualcosa, «Magari sei fortunato».
Kidd
restò a bocca
aperta per circa dieci secondi prima di scoppiare a ridere
fragorosamente,
rotolandosi sull’asciugamano a faccia in giù per
trattenersi almeno un poco,
seguito a ruota da Shachi che, imitandolo e venendomi addosso, non
sembrava
essersi mai divertito così tanto. Law si finse al di sopra
di quelle scemenze,
ma non mi sfuggì il sorriso che gli si modellò
sulle labbra di fronte a quella
scena.
Sbuffai
esasperato. «Tu
hai qualche problema, te lo dico io».
Tutto
sommato avevo
delle cicatrici, vero, e le portavo ancora con me, solo che, a volte,
le
dimenticavo.
Io
non ho… Finito.
The Fucking End.
Angolo Autrice.
Buonasera
a tutti! Insomma,
è con immensa gioia e piacere e biscotti al cioccolato che
annuncio la fine di
questa fiction per la quale ho dato di matto l maggior parte del tempo.
da
notare la mia bravura: l’ho iniziata di lunedì e
l’ho terminata di lunedì, non
so se rendo. Dai, un po’ di applausi me li merito, su.
Scherzi a
parte, credo
di dovermi meritare solo pomodori, ma va bene, tralasciamo.
Prima di
passare alle
note finali voglio scusarmi ancora per l’immenso ritardo.
Un’estate di
silenzio, che vergogna, ma, come ho ribadito nelle varie altre
pubblicazioni,
il lavoro mi ha tolto un sacco di tempo e di energie e
l’ultimo capitolo è rimasto
in cantiere per molto. Due giorni fa, però, mi sono detta
che dovevo
ASSOLUTAMENTE terminarlo, così mi sono messa di impegno e,
beh, spero di non
aver deluso le aspettative di nessuno. Ad ogni modo, vi prego di
perdonarmi e
portare pazienza, e ancora mille scuse.
Dunque,
eccome come
tutto è bene quel che finisce bene, si dice così
no? Ace e Marco, Kidd e Law e
Killer. Vorrei tanto dire Killer e Shachi, ma il finale ho preferito
lasciarlo
un po’ nell’ambiguità. Chi vuole si
può immaginare un futuro tra i due, chi li
preferisce come amici se li tiene come sono, dato che avevo letto
alcuni
commenti a riguardo nelle recensioni. Non so voi, ma a me è
parsa la scelta
migliore per concludere tutto.
Killer ha
le sue ferite
e cicatrici che si porterà sempre appresso ma, ehi, come
dice anche lui, la
vita va avanti, nel bene e nel male, e lui ha trovato le persone giuste
con cui
condividere gioie e dolori.
Ace, la
mia ossessione,
lo giuro, è tornato ad essere lo scoppiettante ragazzo di
sempre, super sexy e
meraviglioso, lasciatemelo dire. Anche lui, nonostante i problemini
iniziali,
sembra scoppiare di salute e di entusiasmo, basti guardare come scatta
per
stendere il povero Marco. non sembra comunque dispiacergli di venire
buttato di
peso sulla sabbia, comunque, mlmlml ^^
Io non ho
resistito a
fare la sviolinata tra i due alla fine della storia, insomma, ce la
dovevo
mettere per forza, dovevo risollevare l’opinione pubblica del
biondo e renderlo
una specie di santo, mentre Ace doveva ritrovare il buonumore e un
morivo per
sorridere e, beh, ecco, ci stava secondo me. Vabbé, poco
importa che siano la
mia OTP e che li adoro alla follia, non sono stata di parte, proprio
no…
Andiamo
avanti.
Aperta
parentesi: la
frase finale ‘E c’era Marco. E c’ero
io.’ l’ho presa dal finale del libro ‘Io
non ho paura’ che consiglio a tutti,
bellissimo.
E poi
c’è Kidd. E poi c’è
Law. Insomma, non so più cosa dire di questi due. Assieme
credo che siano una
cosa assolutamente perfetta, senza se e senza ma. Sono fatti
l’uno per l’altro
e quando si vogliono ammazzate smatto. Kidd credeva di essere stato
abbandonato, povero, invece no! Trafalgar non lo aveva dimenticato,
come
avrebbe potuto, e alla fine ha colto la prima occasione per tornare da
lui e
adesso possono stare assieme, awawawawa **
Malintesi
e lettere non
lette a parte, si è risolto tutto per il meglio. Kidd alla
fine è stato dimesso
ed è nuovo di zecca, così Law potrà
strapazzarlo quando vuole, io di certo non
mi lamento.
Che altro
dire, non
saprei proprio. Sono felice di aver concluso questo racconto
perché ci tenevo
davvero tanto e, anche se è stato un calvario, ora posso
davvero mettere un
punto e la parola fine.
Un
po’ mi dispiace, ma
credo sia normale ;_____________;
Vi lascio
qualche
immagine per concludere in bellezza :3
Iniziamo
da Kidd e Law
che non si vedevano da taaaaaaanto:
https://fbcdn-sphotos-c-a.akamaihd.net/hphotos-ak-xfa1/v/t1.0-9/10644798_674305575980322_6117127484379384326_n.jpg?oh=085b4a13d9cea71c4b60e486acf43e83&oe=5484130C&__gda__=1418798138_7fe182825d5670577179cd8c3a9b3b02
Poi Ace
che arriva
tutto tranquillo in spiaggia:
https://scontent-a-ams.xx.fbcdn.net/hphotos-xpa1/v/t1.0-9/10703548_674305765980303_1111789895067988311_n.jpg?oh=db89cb2ec1218c96699d8f234e6dd4ed&oe=5495D7E0
E arriva
anche Traffy,
non dimentichiamocelo:
https://scontent-a-ams.xx.fbcdn.net/hphotos-xfa1/v/t1.0-9/1970566_674305762646970_3869882762713286188_n.jpg?oh=ab022dc1846f57513018f21b542c158c&oe=5492A6A1
E
passeranno una bella
giornata:
https://scontent-b-ams.xx.fbcdn.net/hphotos-xfp1/v/l/t1.0-9/10592700_674305889313624_3382684794312129037_n.jpg?oh=9a8e26fbb9056e7dcea52907f595cf60&oe=54A4937D
Tutti
assieme per
manina:
https://scontent-a-ams.xx.fbcdn.net/hphotos-xaf1/v/t1.0-9/10639366_674306055980274_8332699216228202093_n.png?oh=346d6788efd2b27e96d4e30eb50c53fe&oe=548324D6
Concludendo
con Shachi
curioso che vuole vedere cosa combinano i ragazzi:
https://fbcdn-sphotos-b-a.akamaihd.net/hphotos-ak-xap1/v/t1.0-9/p526x296/10245280_674305985980281_5058904685773069015_n.jpg?oh=1a33b1d4b01cfc83704c5347986441eb&oe=5490CB7B&__gda__=1418408485_495b64504b580c2995f28cac932dc645
E adesso
mi pare giusto
RINGRAZIARE TUTTI.
Ringrazio
Okami D Anima, KillerxPenguen_93,TKJolly,
FlameOfLife, _Rouge (mia adorata), FemPhoe, An11na, Ikki, callas d
snape,
I_S_Acquamarine, Crazy demon e Incantatrice_Violeta per le
splendide
recensioni che mi avete lasciato e per avermi fatta sorridere e sentire
apprezzata, davvero. Siete state tutte gentilissime, dalla prima
all’ultima, e,
anche se non ho sempre potuto rispondere, sappiate che ho tutto nella
mia mente
e che avete contato molto per me. Perciò grazie ancora, un
abbraccione a tutte.
Ringrazio
in particolar
modo tutti i lettori silenziosi e tutti coloro che hanno iniziato,
continuato,
abbandonato, o pazientato per vedere la fine di tutto questo. Grazie
mille per
tutto, nessuno escluso.
Ora
scusate per le
smancerie, ma voglio prendermi, ora, un angolino per ringraziare una
ragazza
speciale solo per la pazienza che ha portato, e che sta portando, nel
seguirmi
e nel recensirmi nonostante io sia diventata un fantasma.
EmmaStarr.
Grazie di
cuore. Grazie
per tutto, ma aspetta che IO NON HO
FINITO.
In una
delle tue
recensioni mi hai detto che, leggendo questa fic, hai iniziato a
seguire anche
Braccialetti Rossi. Mi hai detto che la canzone e la serie ti sono
piaciuto un
sacco, che hai adorato Kidd e Law e, beh, mi hai pregato per avere
l’ultimo
capitolo proprio stasera ed io guarda cosa sto facendo. Lo sto
pubblicando
proprio ora e voglio solo dire, o annunciare, una cosa.
Dedico
tutta questa long a te, bellezza.
Spero
basti per
scusarmi della mia assenza e per ringraziarti di tutti i commenti, i
consigli e
i complimenti non meritati che mi hai lasciato. Mi sembra un bel modo
per
dimostrarti che ho apprezzato tutto tantissimo, sempre.
Quindi Grazie Infinite, per davvero.
Okay?
Okay.
Bene
signori, siamo
alla fine e io spero di aver soddisfatto tutte le aspettative e di non
aver
dimenticato nulla. Per qualsiasi cosa sapete dove trovarmi. LOL, sembra
una
barzelletta.
Anyway,
un dolce e un
abbraccio enorme a tutti e GRAZIE ancora per, beh, per tutto quello che
fate.
Spero di
riuscire a
finire presto ‘It’s alla
about you’ e
per ‘Portuguese D. Ace’
abbiate fede
che la porterò avanti, con calma, A
QUALSIASI COSTO, I promise.
E
insomma, a presto. Mi
sento male, davvero.
Vi voglio
bene, penso
di doverlo dire.
See ya,
Ace.
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