Breath
Le iride opache si alzano verso il soffitto immacolato della stanza, ne
percorrono le linee grigiastre che testimoniano
l’antichità della vecchia intonacatura.
Sono l’unico segno di vita nel viso immobile, tirato. Quegli
occhi grigi e umidi, col mascara messo frettolosamente e quella matita
nera [troppo, troppo
nera] che tenta di sopprimere le occhiaie.
-Faccia un bel respiro profondo, signorina.
Inspira. Espira.
Mai quel movimento le era sembrato così difficile e
meccanico.
-Mamma, devo parlarti.
-Un momento, tesoro, non
vedi che sono occupata?
Il ronzio dei macchinari le aggredisce le orecchie, allo stesso modo in
cui il suono delle campane scandisce la fine di un condannato a morte.
Inesorabile, inarrestabile. Crudele, porta via con sé la
vita.
No, non la sua. Un’altra.
-Mamma, sono incinta.
-Signorina, l’aborto è stato portato a termine
correttamente. Può andare se vuole.
[Via, vai via, non ho
tempo per te, il mondo non ha tempo per te]
Le gambe tremano, ma la sostengono mentre si alza in piedi.
Lentamente, si dirige verso l’uscita. Inciampa, si regge alla
maniglia, forza il polso sottile per non cadere. La porta di metallo le
restituisce il suo riflesso.
Occhi vuoti.
Cuore vuoto.
Ventre vuoto.
Polmoni vuoti.
Inspira. Espira. È tutto finito.
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