II
Visite inaspettate
Tenuta
Davenport. 28 settembre 1769
A
Davenport Manor non si ricevevano mai visite. Così, quel
tardo pomeriggio d'autunno, Cecilia, china sul focolare, quasi
trasalì udendo un irruente bussare all'ingresso.
Lasciò gli avanzi del pranzo a riscaldare nel tegame, appeso
sul fuoco, e attraversò di corsa la cucina. Era l'ora del
tramonto e rettangoli di luce si stiracchiavano pigramente sopra i
porosi mattoni color tabacco del pavimento.
Messo piede nell'androne d'ingresso, Cecilia realizzò di
esser stata preceduta.
Ebbe appena il tempo di sentire il signor Davenport elargire un
«No» a chiunque si trovasse sulla soglia, prima di
vederlo richiudere la porta con sufficiente veemenza da far tremare
stipiti e architrave.
Bussarono di nuovo.
«Vattene via» abbaiò il padrone. E
voltate le spalle alla porta, puntò verso il salone da
pranzo, i passi scanditi dal sordo toc del bastone contro le vecchie
assi sotto il loro piedi. All'esterno, scoppiò una voce
maschile: «No! Non me ne andrò!»
«Chi è?» chiese Cecilia, ferma accanto
alle scale.
«Nessuno». Senza aggiungere altro, gli occhi
nascosti sotto la molle falda del cappello, il signor Davenport si
ritirò nella penombra del salone.
«Nessuno? Allora abbiamo un fantasma cocciuto alla
porta» mormorò Cecilia.
Le avevano insegnato che il sarcasmo sulla bocca di una donna era
qualcosa di detestabile. Guai, poi, a burlarsi di spettri e demoni. Ma
Cecilia era fatta del genere di pasta che non si mallea nemmeno con le
bacchettate sulle mani e il soggiorno nella magione, oltre ad averle
gradualmente scrollato di dosso una malinconia che non le apparteneva,
aveva diminuito la sua già debole inclinazione a trattenere
la lingua: la ragazza si era accorta che, di qualsiasi genere fossero
le sue parole, il signor Davenport mostrava sempre e comunque
pochissimo interesse e nessuna preoccupazione.
Cecilia s'infilò nel salone da pranzo: una grande stanza con
le pareti di damasco scarlatto dove, però, non pranzava mai
nessuno. Il signor Davenport sedeva sulla sedia Windsor, vicino al
camino, in cupa contemplazione delle fiammelle, dietro i riccioli
anneriti del parascintille.
Cecilia non lo disturbò. Scostò qualche
centimetro dei pesanti tendaggi verdi, odorosi di polvere e legna
bruciata, e guardò oltre i pannelli di vetro della finestra.
Era stata una giornata fresca e serena, ma nel fremere degli aceri
gialli c'era un sentore di pioggia in arrivo. L'indesiderato visitatore
era ancora davanti alla porta.
Era solo un ragazzo.
Aveva la pelle scura come quella di un mulatto e i lisci capelli neri,
più corti di quelli dei coloni, non erano legati. Vestiva
con abiti fatti di pelle di cervo, portava arco e frecce sulla schiena
e un'accetta legata alla cintura: una striscia di stoffa rossa.
Era un nativo.
Il primo che Cecilia avesse mai visto da così breve
distanza.
Tra curiosità e ansia, lo osservò scendere i
quattro gradini d'ingresso e restarsene nei pressi delle colonne
bianche, ma non riuscì a scorgere i lineamenti. Il ragazzo
teneva il viso basso e le spalle chine in andatura un po' ciondolante;
a dispetto dell'armamentario, le sue movenze non sembravano minacciose,
dava piuttosto la genuina impressione di non saper bene cosa fare.
«Se gli apri la porta, vi butto fuori entrambi».
Nella frase del signor Davenport c'era calma, ma non ironia.
Cecilia richiuse la tenda e si voltò verso di lui, le mani
dietro la schiena e le dita mollemente aggrappate alla stoffa scura.
«Chi è quel ragazzo?»
Il signor Davenport mantenne lo sguardo sul fuoco.
«Non lo so.»
«Sembra un nativo.»
«Mmh.»
«Che cosa cerca qui?»
«Guai.»
«Pensate... pensate abbia cattive intenzioni?»
«Penso che tu finirai per bruciare la cena. Di
nuovo.»
Cecilia trattenne un sospiro tra le labbra.
Le risposte lapidarie non la offendevano.
Del padrone della tenuta si era fatta l'idea di una persona schietta e
disincantata, assuefatta all'isolamento e al lutto. Era capace di una
certa ruvida gentilezza, ma guardava il mondo con uno sguardo
amareggiato, come se l'umanità intera fosse responsabile di
un irreparabile torto nei suoi confronti. A Cecilia, però,
non era dato sapere la natura di tale torto: il signor Davenport si
mostrava perennemente restio alle conversazioni.
Compresa l'antifona, la ragazza se ne tornò in cucina,
camminando con le mani nelle tasche, nascoste tra le pieghe della
sottogonna, e il pensiero dello sconosciuto che le svolazzava per la
testa. La visita era stata una scossa nel quieto e lineare succedersi
delle ore. La vita, nella grande casa di mattoni rossi, era immobile e
terribilmente solitaria, ma Cecilia non avrebbe mai osato lamentarsi.
Non riusciva ad essere felice, perché ancora tormentata da
ricordi amari, però era tranquilla, libera e piena di
gratitudine.