Lettera Numero 1
νόστος
Joyce
Nome dell'autrice:
Chaotic Alaska
Titolo:
νόστος
Rating: Verde
Avvertimenti:
Nessuno
"Penny, ti
prego, lasciami spiegare!"
La pioggia
batte incessantemente sulla pensilina dell'autobus.
Mi allontano i
capelli bagnati dal viso con un gesto meccanico e torno
a fissare la strada.
Le luci
tremolanti dei lampioni si specchiano sull'asfalto bagnato e
sembra quasi Natale.
Inizio ad
avere freddo.
Da qualche
parte, nel vuoto indefinito che si è venuto a
creare
dentro di me, una vocina mi incita a cercare una felpa nello zaino.
La ignoro e
continuo a tremare.
In lontananza,
individuo i fanali anteriori dell'autobus. Mi alzo, con
fatica, il freddo mi scivola addosso come una gelida carezza.
Le porte
automatiche si spalancano, silenziose, e mi affretto a salire
a bordo.
Il
conducente sembra quasi sorpreso: non posso dargli torto, considerando
che sono quasi le due di notte ed io ero sola nel mezzo del nulla.
"Un biglietto di sola andata."
"Fino a dove?"
"Al capolinea" rispondo.
L'uomo prende i soldi che gli sto porgendo e, mentre la macchinetta
sputa fuori il mio biglietto, indica qualcosa, fuori dall'autobus.
"Signorina, sono sue quelle lettere?"
Seguo il suo sguardo. Sotto la pensilina, al riparo dalla pioggia, sta
un mucchio di quelle che, a prima vista, sembrano lettere.
"Sono cartoline. E comunque, no, non sono mie"
"Ho ricevuto la tua cartolina, Penny. Grand Canyon, eh?"
La voce di Joyce mi arriva disturbata. C'è un oceano a
dividerci, è un pensiero buffo. Mi sembra quasi di sentirne
il
peso.
"Sì, ma credo che domattina andrò via. Pensavo di
spostarmi in California"
Una pausa. C'è quella
domanda, la solita domanda, sospesa tra un capo e l'altro del telefono.
Come se Joyce l'avesse sepolta in fondo all'oceano in mezzo a noi, ma
lei fosse una buona nuotatrice e stesse lottando per tornare a galla.
"California. Mmmh. Dev'essere un bel posto"
"Non vedo l'ora di salire più a Nord" continuo io.
"Quand'è che torni a casa, Penn?"
Eccola.
Trova sempre il modo
di spuntare in mezzo ai nostri discorsi, alle nostre chiamate
brevissime, inversamente proporzionali alla distanza che ci divide.
"Jo, abbiamo affrontato questo discorso, che ne so, un migliaio di
volte? Quando mi sentirò di farlo."
"E' che mi manchi. Ho
nostalgia di casa."
"Tu sei a casa, stupido."
"E come potrei? Sei tu la mia casa, Penelope."
Evito di rispondere, perché so che la mia voce si
incrinerebbe come ghiaccio che si spezza.
Respiro, tentando di calmarmi.
Le mie motivazioni le conosce benissimo, inutile tirarle in ballo.
O sarebbe più corretto dire le mie farneticazioni?
Come definire la scelta, impulsiva e improvvisa, di mollare tutto e
partire per l'Australia, in seguito alla morte dei miei genitori?
Forse, all'epoca, potevo ancora definirmi lucida. Con un po' di buona
volontà, si poteva giustificare la mia scelta, attribuendo
la
colpa ad un esaurimento nervoso.
Ricordo ancora il sorriso di Joyce all'aeroporto, quel giorno. Mi
aveva salutato con la mano finché non ero scomparsa, come un
bambino.
Se solo avesse saputo.
Quel sorriso gli sarebbe appassito in faccia.
Sono passati tre anni. Sono passate l'Australia, l'Asia, una buona
fetta d'Africa e, infine, l'America.
E' come scappare da qualcosa che però mi raggiunge sempre,
ovunque io corra.
Le telefonate chilometriche con Joyce sono andate riducendosi, come
candele che lentamente si consumano.
"Penn, ci sei ancora?"
"Sì."
"Sai, l'ho quasi finito"
Un sorriso incerto si spalanca sul mio volto.
"E com'è?" domando, e lui sembra rianimarsi.
"Mia cara signorina, non avrà alcun indizio. Si sbrighi a
tornare da me e potrà constatare coi suoi stessi occhi"
Il modellino.
Dopo un anno dalla mia partenza, Joyce mi aveva proposta
una sorta di sfida.
Lui avrebbe cercato di costruire un modellino del Titanic usando i
legnetti che il mare abbandonava
sulla spiaggia.
Se e quando fosse
riuscito a terminarlo, io sarei dovuta tornare a casa, da lui.
La chiave gira nella toppa di casa nostra.
Non riesco a trattenere un sorriso, per quanto mi sembri strano
l'essere tornata.
Entro, silenziosa, e appoggio lo zaino vicino all'ingresso.
L'orologio segna la mezzanotte.
Mi concedo un attimo per riprendere fiato e guardarmi intorno.
E' tutto esattamente come l'avevo lasciato, come se non fossero passati
tre anni.
Come se fossi uscita di casa solo pochi minuti fa per andare a comprare
le sigarette.
Tutti i pezzi sembrano incastrarsi di nuovo alla perfezione dentro di
me. E la mia scelta di tornare a casa acquista improvvisamente senso.
All'improvviso, mi rendo conto che non ha più senso
scappare.
Bisogna restare al
proprio posto e affrontare ciò che ci fa paura.
Mi
avvicino silenziosamente alla camera da letto.
Joyce non si aspetta il mio ritorno. Il modellino, ancora incompleto,
riposa su di una mensola, in salotto.
Socchiudo la porta e mi infilo nella stanza, piano, per non svegliarlo.
Mi infilerò sotto le coperte, accanto a lui, e al risveglio
mi troverà lì.
Dio, non vedo l'ora di vedere che faccia farà.
Peccato che io sia un'imbranata di dimensioni colossali.
Urto
con il gomito un libro posato sulla scrivania, che cade sul pavimento,
con un tonfo sordo.
Le luci si accendono all'improvviso, ferendomi gli occhi, e un urlo
femminile mi fa sobbalzare.
Spalanco gli occhi e qualcosa precipita dentro di me.
"E lei chi cazzo
é?" sibila la ragazza bionda, stringendosi le
lenzuola al petto.
Sta dormendo nel mio
letto, accanto al
mio ragazzo ed ha anche il coraggio di chiedere chi sono?
La fisso, immobile, incapace di articolare una qualsiasi risposta.
Dovrei provare rabbia, delusione, dolore, ma non sento nulla. Solo un
vuoto che va espandendosi nel petto, dove prima c'era il mio cuore.
Un lampo di comprensione sembra attraversare il volto della ragazza
che, come scottata, abbassa lo sguardo.
"Vado... vado un attimo in bagno" annuncia, afferrando una T-shirt dal
pavimento e indossandola rapidamente.
Esce, chiudendosi la porta dietro, e restiamo da soli.
Cerco lo sguardo di Joyce. Una speranza assurda germoglia dentro di me:
e se fosse tutto un errore?
La ragazza potrebbe benissimo essere sua sorella, o sua cugina, o...
Ma Joyce porta stampata in faccia la sua colpevolezza. Evita il mio
sguardo e si passa nervosamente la mano in mezzo ai capelli.
"Penn, io... Non... Non ti aspettavo così presto" riesce a
dire alla fine, fissando un punto imprecisato dietro di me.
Cerco dentro di me qualcosa.
Vorrei tirargli uno schiaffo, urlargli contro, arrabbiarmi, sfogarmi su
di lui.
E a cosa servirebbe? Ti
restituirebbe i pezzi che hai perso?
La verità è che non farebbe alcuna
differenza.
Qualcuno mi ha imposto il mio viaggio? Qualcuno ha imposto a Joyce di
non aspettarmi?
E' colpa del destino, degli dei, degli uomini?
Se anche fosse stata una divinità arrabbiata a tenermi
lontana da casa per tre lunghi anni, fuggendo dalle mie stesse paura,
non sono stata io, per prima, a decidere di partire?
E se la stessa divinità avesse prostrato Joyce fino a farlo
cedere alla tentazione delle braccia di un'altra donna, non
è forse stato lui ad ingannarmi?
La colpa, caro Bruto,
non è delle stelle, ma nostra, che ne siamo dei subalterni. ( ¹ )
Così,
semplicemente, mi volto e vado via.
Le urla di Joyce mi inseguono lungo il corridoio, mentre afferro lo
zaino che avevo lasciato all'ingresso.
"Penny,
ti prego,
lasciami spiegare!"
Le mie
cartoline sono tutte lì, sulla mensola, assieme alle chiavi
di casa. Senza pensarci, le porto via con me.
Chiudo la porta a chiave, mi farà guadagnare qualche secondo
nel caso Joyce decidesse di inseguirmi, ed inizio a correre.
Stringo forte le cartoline contro il petto, sento che sono l'unica
àncora che mi sia rimasta. Una debole proiezione dei pezzi
di me che ho perso nella nostra camera da letto.
Inizia a piovere, ma non me ne rendo conto finché non sono
completamente fradicia.
Riconosco la pensilina dell'autobus e mi affretto a raggiungerla,
lasciandomi cadere sulla panchina, al riparo dalla pioggia.
Come dopo un'incidente stradale, tento di valutare i danni al mio
corpo, di analizzare ciò che sento, in attesa di un dolore
che non sembra arrivare.
Solo vuoto.
Ed allora capisco che non ho bisogno di un àncora. Ho
bisogno del vento che mi gonfi le vele e mi porti lontano, di nuovo.
Poso le cartoline accanto a me. La pioggia le ha rovinate, i colori e
le parole iniziano a scivolare via, macchiandomi le dita di inchiostro.
Salirò sul primo autobus che passa, decido.
Arriverò fino al capolinea.
E ripeterò
questa sequenza all'infinito, finché non arriverò
al mare.
(
¹ ) : ripresa della famosa
frase del
Giulio Cesare di Shakespeare.
Note
dell'autrice:
La mia storia
è
ispirata al mito
omerico
di Ulisse,
come suggeriscono anche il nome della
protagonista, Penelope, e quello del ragazzo, Joyce (tributo a James
Joyce, autore dell'Ulysses).
L'ultima
parte, con Penelope che si allontana nuovamente da casa,
è invece ispirata da L'ultimo
viaggio,
componimento di Giovanni Pascoli, in cui Ulisse
rappresenta la sconfitta, l'eterno vagare alla ricerca delle risposte
ai suoi dubbi, la malinconia, la morte di tutte le illusioni.
Il termine
dell'ultimo viaggio di Ulisse sarà, infatti,
simboleggiato dal naufragio, quindi dalla morte.
Il titolo,
νόστος,
significa "ritorno"
in greco. La parola italiana "nostalgia" è composta proprio
da νόστος e
άλγος, dolore,
letteralmente
dolore
del ritorno.
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